martedi` 13 maggio 2025
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



Clicca qui






la Stampa - Corriere della Sera- Il Foglio Rassegna Stampa
21.07.2010 Karzai: dal 2014 l'Afghanistan sarà indipendente
Cronache e commenti di Maurizio Molinari, Carlo Panella, Franco Venturini, Davide Frattini, Lao Petrilli

Testata:la Stampa - Corriere della Sera- Il Foglio
Autore: Maurizio Molinari - Franco Venturini - Davide Frattini - Lao Petrilli
Titolo: «Karzai: dal 2014 faremo da soli - Ritiro Usa e sindrome vietnamita - 'Tre tazze di tè' nei villaggi: la nuova strategia Usa - Rame, petrolio e bombe. Il Grande gioco riparte dalle miniere di Aynak»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 21/07/2010, a pag. 12, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Karzai: dal 2014 faremo da soli ", a pag. 13, l'articolo di Lao Petrilli dal titolo " Rame, petrolio e bombe. Il Grande gioco riparte dalle miniere di Aynak ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 1-36, l'articolo di Franco Venturini dal titolo " Ritiro Usa e sindrome vietnamita ", a pag. 15, l'articolo di Davide Frattini dal titolo " 'Tre tazze di tè' nei villaggi: la nuova strategia Usa ". Dal FOGLIO, a pag. II, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " Guerra ai 'blasfemi'".
Ecco gli articoli:

La STAMPA - Maurizio Molinari : " Karzai: dal 2014 faremo da soli "


Maurizio Molinari

Entro il 2014 tutte le 34 province della nazione saranno passate sotto il controllo delle truppe locali: con questo impegno si è conclusa a Kabul la Conferenza internazionale sul futuro dell’Afghanistan che ha visto il presidente Hamid Karzai confermare l’intenzione di rispettare una scadenza che consente alla Nato di dare corpo alla «exit strategy» della missione iniziata in risposta agli attacchi dell’11 settembre 2001.
Vestito con il tradizionale copriabito tribale e il cappello di pelliccia dei pashtun, Karzai è intervenuto davanti a 44 plenipotenziari stranieri affermando: «Confermo, le nostre forze saranno responsabili di tutte le operazioni di sicurezza entro il 2014». E’ un impegno che i Paesi partecipanti hanno poi sostenuto formalmente e consente all’amministrazione Obama e alla Nato di procedere con i piani di un progressivo passaggio delle consegne a partire dal luglio del 2011, quando la Casa Bianca ha previsto il primo simbolico ritiro di truppe. «La visione che ci accomuna - ha aggiunto Karzai - è di un Afghanistan pacifico punto d’incontro fra le civilizzazioni».
Il Segretario di Stato, Hillary Clinton, ha risposto sostenendo l’impellenza di dare inizio alla transizione che «è troppo importante, non può essere rinviata all’infinito e ruota attorno alla data del luglio 2011». Ma questo «non implica l’intenzione di abbandonare l’Afghanistan perché la nostra è una missione di lungo termine per garantire una pace stabile». La missione Usa e Nato appare destinata a trasformarsi con una maggiore attenzione per gli interventi civili parallelamente alla staffetta sulle mansioni militari. Il Segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, ha tenuto a precisare che tale scenario non comporta la revisione dei piani «perché la missione terminerà solo quando gli afghani saranno in grado di difendersi da soli» e dunque la scadenza del 2014 potrà essere modificata se la situazione sul terreno lo richiederà.
Ciò non toglie che la svolta nell’approccio all’Afghanistan sia palpabile, come Karzai ha sottolineato suggerendo ai ministri stranieri di «concentrare gli sforzi su un limitato numero di progetti civili per trasformare la vita della gente». «Dobbiamo dare la prevalenza a progetti efficaci nel breve termine» ha aggiunto Karzai, al quale la Clinton si è rivolta per sottolineare «l’urgenza di combattere la corruzione e migliorare l’amministrazione» definendoli «terreni di prova per il governo» sui quali «tanto la popolazione afghana che la comunità internazionale aspettano di vedere dei rapidi risultati». La Clinton non ha fatto mistero dei problemi posti dal calo di sostegno popolare per la guerra: «La strada che abbiamo di fronte non sarà facile perché i cittadini di molte nazioni, inclusa la mia, si chiedono se il successo sia possibile».
La conferenza è stata al centro della visita a Washington del premier britannico David Cameron. Al termine dell’incontro nello Studio Ovale Barack Obama ne ha lodato i risultati parlando di «evento storico» perché «è primo consesso internazionale svoltosi a Kabul». Cameron ha concordato, indicando nell’«addestramento degli afghani» il «maggiore compito che ci aspetta» e sottolineando l’importanza di una «strategia politica» tesa ad aprire il dialogo con i leader taleban «disposti a gettare le armi».
Sui propositi di Karzai e della comunità internazionale pende tuttavia l’incognita di una situazione di sicurezza che resta precaria come evidenziato dal record di vittime Nato in giugno - 103, di cui 60 americani - e anche da quanto avvenuto proprio ieri all’aeroporto di Kabul, investito da una pioggia di razzi dei taleban che ha ritardato l’atterraggio dell’aereo del Segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon. La guerriglia legge le notizie da Kabul come un indebolimento del sostegno Nato a Karzai e il numero 2 di Al Qaeda, Ayman al-Zawahiri, ha diffuso ieri un messaggio audio: «Stiamo vincendo».

CORRIERE della SERA - Franco Venturini : " Ritiro Usa e sindrome vietnamita "


Franco Venturini

Riconoscendo ieri a Kabul che «i cittadini di molte nazioni si domandano se la vittoria in Afghanistan sia ancora possibile», Hillary Clinton è riuscita a essere insieme banale e rivoluzionaria. Banale perché è tristemente noto, e non solo tra i «cittadini», che la guerra va male. Rivoluzionaria perché nessun alto esponente Usa aveva finora ammesso— seppure dietro lo schermo delle opinioni pubbliche — fino a che punto sul conflitto contro i talebani pesi la sindrome vietnamita del ritiro senza vittoria. Beninteso questo scampolo di inquieto realismo è stato sepolto alla conferenza di Kabul sotto una valanga di promesse tutte da verificare, prima fra tutte quella che vedrebbe le forze afghane responsabili principali della sicurezza entro la fine del 2014. Ed è proprio qui, nella scarsa credibilità di questa scadenza da tutti approvata a tavolino, che lo spauracchio della guerra persa prende involontariamente corpo.

Dopo gli errori di Bush che trascurò l’Afghanistan per volgersi contro l’Iraq, Obama aveva promesso metodi nuovi e risultati diversi. Ma quale è il bilancio, oggi, del nuovo corso? Le offensive anglo-americane nel Sud, malgrado i rinforzi ricevuti, segnano il passo. Ora a guidare l’intera operazione è il generale David Petraeus, che con l’antica tattica del bastone e della carota (sotto forma di dollari) in Iraq ottenne successi rilevanti anche se provvisori. Ma la terra dei Pashtun è cosa molto diversa dalla provincia di Anbar, e negli ambienti Nato sono in molti a non escludere che il generale McChrystal, il predecessore di Petraeus, abbia attuato il suo suicidio politico anche per non trovarsi più a comandare mission impossible.

L’addestramento delle truppe e della polizia afghana è irto di difficoltà e resta poco affidabile, malgrado gli sforzi più che lodevoli di Paesi come l’Italia. Immaginare che nel 2014 siano loro a presidiare il territorio fa comodo politicamente perché consente un inizio di progressivo disimpegno (gli Usa dal luglio 2011?) e anche perché «afghanizza» il conflitto aprendo un varco allo scenario, appunto, vietnamita. Ma in termini operativi la scadenza appare a dir poco ipotetica, e hanno ragione le voci — come quella di Frattini — che hanno invitato a tener conto delle condizioni reali più che del calendario.

Non basta. Il 2010 si prepara ad essere l’anno con maggiori perdite tra le forze alleate dall’inizio della guerra, e sono cresciute, malgrado tutti gli annunci e le scuse dei comandi alleati, anche le perdite civili. Le trattative che Karzai tenta di intavolare con i talebani «recuperabili» danno scarsi risultati anche perché Washington le tollera ma non le sottoscrive. Le offensive anti-talebane in Pakistan sembrano esaurite. Una montagna di aiuti, che doveva conquistare «il cuore e la mente» degli afghani, è stata pessimamente gestita e non lo sarà meglio ora che il 50 per cento dell’assistenza dovrà passare dalle mani non proprio pulite del governo di Kabul.

Obama prevede una ulteriore revisione della strategia di guerra in dicembre. Ma lo spazio di manovra, ormai, è quello scappato di bocca a Hillary. Tanto più indispensabile diventa allora per l’Italia tenere la rotta e non confondere il dialogo tra alleati con iniziative unilaterali che nuocerebbero gravemente alla nostra collocazione internazionale.

Il FOGLIO - Carlo Panella : " Guerra ai 'blasfemi' ".


Carlo Panella

Un legame chiaro, diretto, unisce le ragioni profonde delle difficoltà della coalizione occidentale in Afghanistan con la persecuzione dei cristiani in Pakistan, ma questo rapporto biunivoco è assolutamente ignorato e negletto in occidente, con conseguenze nefaste. Il nodo irrisolto delle operazioni Nato e Usa in Afghanistan è infatti il rapporto di sintonia e complicità che il nucleo centrale delle Forze armate pachistane continua a mantenere non solo con i talebani, ma anche con al Qaida. Un rapporto che non è solo strumentale, ma di identità, o quantomeno di contiguità ideologica. Buona parte dei generali pachistani, infatti, non solo ritiene che sul piano militare l’Afghanistan sia il “retroterra strategico” della loro vera mission, che è una nuova guerra con l’India per liberare il Kashmir, per cui è indispensabile avere buoni rapporti con i talebani, ma condivide la stessa ideologia dei talebani (che si formarono a metà degli anni Novanta sotto la regia – gestita da Parwez Musharraf – in joint venture col Mukhabarat dell’Arabia Saudita). Ideologia fondamentalista che trova le sue profonde radici non solo nella predicazione di Abul Ala al Mawdudi, il “Khomeini sunnita” che attirò nel suo partito – il Jamaat e Islami – buona parte della élite militare pachistana, ma nelle stesse linee di governo di alcuni re Moghul. In particolare la pratica di regno di Aurangzeb, morto all’inizio del ’700, i cui principi assomigliano incredibilmente a quelli dei talebani (proibizione della musica, jiiza, tassa sui cristiani ed ebrei, distruzione dei templi indù e buddisti, rigidissima applicazione della sharia). Essenza di questa ideologia fondamentalista di spessore plurisecolare, predicata dal ’600 dalla confraternita integralista Mujaddidi, basata sugli insegnamenti di Ahmad Shirindi, è il settarismo nei confronti delle altre religioni, innanzitutto dell’induismo (non si comprende l’azione terroristica di Mumbai del 27 novembre 2008, se non in questa ottica) e poi del cristianesimo. Quegli stessi generali che oggi appoggiano dall’interno del quartier generale pachistano i talebani (e siglano accordi taciti – o palesi – con il network talebano degli Haqqani), negli anni Settanta furono attratti dagli insegnamenti di Abul Ala al Mawdudi e poi costituirono il nerbo del golpe del generale Zia ul Haq del luglio 1977, sciaguratamente appoggiato da Jimmy Carter che vedeva nel suo fondamentalismo islamico una piena garanzia di contrasto del comunismo sovietico (che affascinava i generali arabi di matrice nasseriana e Ali Bhutto, impiccato dopo il golpe). Zia ul Haq riformò il Pakistan in senso fondamentalista e tra le sue riforme spicca la Blasphemy law (definita tra il 1980 e il 1986), che oggi legittima statualmente la persecuzione dei cristiani e di altre minoranze religiose. Un insieme di articoli del codice penale pachistano punisce così – anche con la morte – chiunque “disprezzi il Corano o offenda il nome del Profeta o della sua Famiglia”. Sino al 2009 sono stati giudicati per aver infranto questa legge 479 musulmani, 119 cristiani, 340 ahmadis (una setta giudicata eresiarca dall’islam) 14 indù e 10 membri di altre religioni. Ma il fatto ancora più grave è che, all’ombra di questa legge, la “giustizia spontanea” di gruppi fondamentalisti ha ucciso non meno di 50 cristiani e 107 ahmadis. Ancora lunedì scorso, due cristiani sono stati massacrati dopo essere stati processati per violazione della Blasphemy law; la corte li ha assolti, ma i fondamentalisti che li avevano denunciati hanno subito rimediato freddandoli a colpi di pistola sulla porta del tribunale. La chiesa durante il pontificato di Giovanni Paolo II ha deciso di non rispondere a questa persecuzione, tanto che il 7 maggio 1998, per creare scandalo, John Joseph, vescovo di Faisalabad, dopo aver guidato un corteo contro la Blasphemy law (un suo fedele era stato appena condannato a morte), si uccise in pubblico sparandosi alla tempia. Oggi Benedetto XVI intende operare una svolta anche su questo punto e ha convocato per l’autunno un Sinodo dei vescovi d’Asia che avrà al centro il tema delle persecuzioni (e della Blasphemy law). Non così i governi, a partire da quello di Washington, che continuano a non cogliere l’ambiguità ideologica del quadro militare pachistano e nulla fanno se non per troncare, quantomeno per tentare di sciogliere questo nodo gordiano che paralizza tutto il contrasto al terrorismo in Afghanistan e Pakistan.

CORRIERE della SERA - Davide Frattini : " 'Tre tazze di tè' nei villaggi: la nuova strategia Usa "


David Petraeus

«La prima volta che ti invito a bere una tazza di tè sei uno sconosciuto, la seconda un ospite onorato, la terza diventi parte della famiglia». Gli americani e la coalizione internazionale hanno da qui al 2014 (la data segnata sul calendario della speranza di Hamid Karzai) per applicare in Afghanistan i consigli di un libro che— racconta il New York Times— sta affiancando il manuale di contro-insurrezione rivisto dal Pentagono nel 2006. È il resoconto di una disavventura sul Karakoram (finita bene) ed è stato scritto da Greg Mortenson, alpinista trasformatosi in benefattore, che costruisce scuole per bambine nei villaggi aggrappati sulle montagne al confine con il Pakistan.

L’ex hippy californiano era ascoltato da Stanley McChrystal, il generale licenziato da Barack Obama, e ha già pranzato con il successore David Petraeus. Ammette che la sua soluzione per l’Afghanistan— l’educazione femminile — ha bisogno di una o due generazioni per avere impatto e generare il cambiamento. «Al Qaeda e i talebani — dice — pianificano per i decenni a venire, noi seguendo le elezioni presidenziali».

Il futuro del Paese — spiegano agli analisti — non può essere ancorato a scadenze, ogni data troppo vicina pompa negli insorti l’adrenalina per una nuova offensiva. Petraeus, che di McChrystal è stato il mentore, dovrà cambiare in parte la strategia militare, a partire dalle regole d’ingaggio e dalla battaglia per Kandahar, dovrà ascoltare le sollecitazioni di Washington perché si trovi una via d’uscita anche attraverso il negoziato con i fondamentalisti, rispettando la promessa di Hillary Clinton, segretario di Stato americano, alle donne afghane («non verrete abbandonate») e sperando che il presidente Karzai mantenga la sua: l’esercito e la polizia locali saranno in forza per il 2014.

I primi passi dei soldati nei villaggi attorno a Kandahar sono chiamati dai manuali militari «mappare il terreno umano». Pattuglie casa per casa per conoscere i contadini e ottenere la loro fiducia. Come direbbe Mortenson: per finire la guerra che non finisce ci vogliono anche Tre tazze di tè.

La STAMPA - Lao Petrilli : "Rame, petrolio e bombe. Il Grande gioco riparte dalle miniere di Aynak"

Abbassa lo sguardo il dirigente afghano, prima di ammettere che «sì, questo posto ha solo una speranza: avere una speranza». Siccome però parla di cose che definisce più grandi di lui, implora di restare senza nome. Perché quel tesoro di minerali da mille miliardi di dollari, la cui scoperta è stata annunciata qualche settimana fa con grande clamore, è certo un dono divino per un Paese disperatamente povero, ma il fatto è che tutti vogliono metterci le mani. E «non sempre a fin di bene». Con in palio un premio in grado di cambiare le sorti di interi popoli, in Asia Centrale, c’è un gioco di potere che rischia di consumare terre dove la storia usa ripetersi. Un nuovo Grande gioco, una partita a scacchi nella quale può capitare che le pedine non vengono mangiate, ma fatte saltare in aria con le bombe.
Che in Afghanistan non si scherzi lo sanno bene i cinesi della MCC: pensavano di rispettare i tempi quando, a settembre 2009, il loro presidente, Shen Heting, fissò per la fine del 2011 l’avvio dello sfruttamento del rame di Aynak, a sud-est di Kabul. Un giacimento da 240 milioni di tonnellate. Estraendone 500 mila all’anno il governo può guadagnare 450 milioni di dollari, metà di tutte le attuali entrate pubbliche afghane. Ma nelle ultime settimane la MCC - la Metallurgical Corporation of China, il colosso statale che si è aggiudicato «l’appalto» in joint venture con Jiangxi Copper - si è resa conto che non potrà partire prima del 2013.
I lavori - a regime - occuperebbero almeno 25 mila afghani, includendo l’indotto e la MCC si è impegnata a edificare case, scuole e ospedali e perfino una centrale elettrica a carbone da 400 MW. A Pechino, poi - dove, benedetti dagli Usa, hanno messo sul tavolo di questa partita 3,5 miliardi di dollari - dicono di essere pronti a insistere su una rete di comunicazioni che passi per il Tagikistan e che trovi il suo terminale nel porto pachistano di Gwadar. Ma tutto questo non ha convinto chi non vuole consegnare ai cinesi una tale ipoteca sull’Afghanistan: e così, a forza di sparare, l’area di Aynak è stata dichiarata «fortemente instabile». E certo non è tranquilla quella di Hajigak, che ospita altri giacimenti ferrosi entrati nella sfera di influenza cinese.
La sicurezza è il problema dei problemi. Rame, litio, zinco, bauxite, oro, argento, zolfo, cobalto, c’è chi dice idrocarburi (col bacino afghano-tagiko di Kunduz e con quello di Tir Pul in provincia di Herat): per tirare fuori queste fortune dalle viscere del duro suolo afghano bisogna lavorare tranquilli. Al contingente italiano è stato chiesto di investigare sulla situazione nel distretto di Gulram, che sarebbe straricco di materiali ferrosi ma anche di taleban in sonno, penetrati di recente dal vicino Iran. Ad esplorare la zona controllata oggi dagli alpini si è messa proprio una società iraniana, la Abad Rahan Pars Company, che si è già data molto da fare nei progetti di strade come Herat-Torghondi e Herat-Islam Khalay. Poi, a difesa dei loro interessi, gli ayatollah sarebbero riusciti ad infiltrare elementi operativi delle Forze Qods dei Pasdaran nella Camera di commercio Iran-Afghanistan.
L’Italia sta cercando un difficile punto di equilibrio con Teheran, player fondamentale della macroregione. Difficile perché gli iraniani temono di perdere il loro ruolo di dominus sull’Afghanistan occidentale e sono contrariati dai progressi economici e dalla possibile emancipazione della provincia di Herat. Si devono - in rimarchevole parte - ai militari del Provincial Reconstruction Team e agli uomini di Farnesina e Cooperazione. I funzionari italiani hanno contribuito alla rinascita dell’industria del marmo convincendo le aziende locali a comprare macchinari moderni da alcune nostre imprese. Hanno già avuto commesse da Dubai e prevedono di centuplicare in poco tempo l’attività estrattiva dalle cave del marmo bianco di Chest i Sharif. Che si trova a 170 chilometri a est di Herat, uno dei distretti più caldi. A gennaio venne ucciso in un’imboscata il governatore Abdulqudus Qayam. Un delitto eclatante di cui oggi - in molti ambienti - si indicano i mandanti a Teheran. Gli iraniani - viene sostenuto da più fonti - hanno voluto mandare un messaggio chiaro contro i profondi lavori di ammodernamento della vicina diga di Salma; oggi sono al 70% conclusi ma proseguono fra molti timori, gli attentati non si contano. Finanziati con uno stanziamento-monstre dal governo indiano pari a 116 milioni di dollari (quello complessivo di Nuova Delhi in Afghanistan è di circa 800 milioni), questi lavori puntano alla formazione di un bacino idrico della capacità di 700 milioni di metri cubi in grado di generare energia per 40-50MW e irrigare un’area di 80mila ettari. Solo che alla fine, in Iran, del fiume Hari Rud, non arriverebbe che qualche goccia.
Inoltre, in lande senza strade vere (gli americani premono per un rifacimento della Ring Road che collega le principali città), anche a ovest c’è la corsa all’asfalto. Fra i progetti cruciali, quello per la strada Chest i Sharif-Herat, per cui occorrono 100 milioni di dollari. Il ministero degli Esteri italiano sta tentando di attrarre dei «donors», anche perché, è su quella direttrice che si vorrebbe far transitare il pregiatissimo marmo. In Afghanistan, terra dei grandi giochi, tutto torna.

Per inviare la propria opinione a Stampa e Corriere della Sera, e Foglio cliccare sulle e-mail sottostanti


lettere@lastampa.it
lettere@corriere.it
lettere@ilfoglio.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT