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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa - Il Foglio Rassegna Stampa
14.07.2010 Usa e Russia guidano l'alleanza contro l'Iran
Ricompare dal nulla lo scienziato iraniano scomparso. Cronache e commenti di Maurizio Molinari, Francesca Paci, Redazione del Foglio

Testata:La Stampa - Il Foglio
Autore: Maurizio Molinari - Francesca Paci - La redazione del Foglio
Titolo: «Ricompare dal nulla lo scienziato iraniano - Navi Usa nel Golfo Persico: Manovre di diplomazia - La Cia e Mosca guidano l’impossibile alleanza contro l’Iran»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 14/07/2010, a pag. 14, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Ricompare dal nulla lo scienziato iraniano ", a pag. 15 l'articolo di di Francesca Paci dal titolo " Navi Usa nel Golfo Persico: Manovre di diplomazia ". Dal FOGLIO, a pag. 3, l'articolo dal titolo " La Cia e Mosca guidano l’impossibile alleanza contro l’Iran ". Ecco i tre pezzi:

La STAMPA - Maurizio Molinari : " Ricompare dal nulla lo scienziato iraniano"


Shahram Amiri

Lo scienziato nucleare iraniano Shahram Amiri ricompare dal nulla nell’elegante quartiere di Georgetown, bussa al campanello del 1045 di Wisconsin Avenue dove ha sede la sezione di interessi di Teheran e dice al primo funzionario che gli va incontro: «Voglio tornare a casa, al più presto».
Questo è quanto avvenuto alle 18.30 di lunedì, innescando un giallo diplomatico-spionistico dal quale trapela una possibile trattativa in corso fra Washington e Teheran per arrivare a uno scambio di persone assai più delicato del baratto di spie avvenuto con Mosca.
La scomparsa di Amiri risale al giugno 2009, quando si reca in Arabia Saudita per un pellegrinaggio alla Mecca che non coincide con il calendario dei fedeli. Su di lui, esperto nucleare all’Università Malek Ashtar dei Guardiani della Rivoluzione dove è considerato uno dei cervelli del programma segreto, si avanza ogni sorta di illazioni. Fino a quando, in marzo, la stampa americana pubblica delle indiscrezioni sul fatto che si troverebbe negli Stati Uniti, dove avrebbe chiesto asilo politico.
Il 7 giugno arrivano sul web due video di natura opposta: l’Iran rivela l’esistenza del primo, nel quale si vede un uomo dalle sembianze di Amiri che afferma di essere stato «drogato dai sauditi e sequestrato dagli americani» e poco dopo ne arriva un altro, dall’Arizona, dove un Amiri rilassato, in giacca e cravatta, dice invece di essere «qui di mia volontà» precisando però di «amare sempre e molto il mio Paese». Da quel momento torna il silenzio assoluto sulla sua sorte, ma pochi giorni prima dei video, il 20 maggio, l’ipotesi di una trattativa segreta fra Usa e Iran era affiorata con l’arrivo a sorpresa a Teheran delle madri dei tre giovani americani - Sarah Shroud, Shane Bauer e Josh Fattal - catturati dagli iraniani nel luglio 2009 lungo il confine settentrionale con l’Iraq e accusati di essere spie inviate dalla Cia.
L’improvviso arrivo di Amiri davanti alla palazzina in mattoni rossi della sezione di interessi iraniana - che formalmente appartiene all’ambasciata del Pakistan, per l’assenza di relazioni bilaterali Usa-Iran - ripropone lo scenario di un possibile scambio. Il portavoce del Dipartimento di Stato, P. J. Crowley dice infatti che «Amiri è libero di partire quando vuole» a «differenza dei nostri tre ragazzi che da molti mesi sono costretti a rimanere in Iran contro la loro volontà». E lo stesso Crowley aggiunge che «da molto tempo chiediamo agli iraniani informazioni su Robert Levinson», l’ex agente dell’Fbi scomparso sull’isola di Kish nel 2007. In apparenza tutto sembra suggerire che Amiri può tornare in Iran, e Washington aspetta il ritorno dei tre giovani.
Ma il giallo nasce attorno a quanto avvenuto lunedì sera perché il ministro degli Esteri iraniano, Manoucher Mottaki, da Madrid chiede di «non porre ostacoli al ritorno di Amiri», lasciando intendere che vi sarebbero delle resistenze americane, mentre il Dipartimento di Stato ribatte: «Sarebbe dovuto già partire ma non l’ha potuto fare per difficoltà con gli aerei nei Paesi di transito». A ciò si aggiunge che a Washington nessuno spiega «come» Amiri sia arrivato al 1045 di Winsconsin Avenue, mentre un portavoce dell'ambasciata pakistana afferma che «noi non abbiamo ancora visto né parlato con Amiri», facendo capire che lo scienziato è rinchiuso nella palazzina di interessi ed è nelle mani di funzionari iraniani i quali, formalmente, sono autorizzati a trovarsi in America solo per «concedere visti turistici».
In attesa di sapere che cosa avverrà di Amiri, che si trova nel cuore di uno dei quartieri più trendy della capitale, fra il negozio di J Crew e il ristorante Filomena, fioccano le ipotesi sul braccio di ferro fra Washington e Teheran. Si va dallo scenario di un Amiri che avrebbe rotto i rapporti con gli americani per motivi economici o legali - lo status di esiliato non gli è stato concesso - decidendo di tornare indietro, fino all’esatto opposto: la possibilità che voglia andare in Iran per raccogliere le più aggiornate informazioni segrete sul programma nucleare.

La STAMPA - Francesca Paci : " Navi Usa nel Golfo Persico: Manovre di diplomazia "


Iran e Golfo Persico

Vista dalla torre di controllo della portaerei americana USS Dwight D. Eisenhower ormeggiata al largo di Napoli, la guerra contro Teheran è un’ipotesi incandescente come il Vesuvio che si staglia nella foschia alle spalle del porto. Nessuno conosce la bomba a orologeria ticchettante nel Golfo Persico quanto i circa 4500 tra ufficiali e marinai in bermuda e sneakers che, 143 scalini di ferro più in basso, aspettano il proprio turno per la lancia che li porterà a terra a bruciare in due giorni la tensione di sei mesi in missione nelle acque di fronte all’Iran. Sono arrivati ieri mattina dalla Turchia e si fermeranno fino a sabato, prima della tirata di due settimane verso casa, in Virginia. Poi un nuovo incarico che potrebbe riportarli nella regione maggiormente seguita dal presidente Barack Obama.
«Da gennaio a oggi abbiamo lavorato nel Mare Arabico con le truppe Nato di stanza in Afghanistan, fornendo supporto pratico e d’intelligence alle operazioni di terra» spiega l’ammiraglio Phil Davidson, uno dei tre comandanti di questo bestione da 95 mila tonnellate e un’ancora delle dimensioni d’un tir, sulla pista lunga 330 metri da cui gli elicotteri HS-5 Seahawk e gli aerei spia E-2C Hawkeye dalle ali ripiegabili possono atterrare e decollare in simultanea. Nella pancia e sul ponte della Eisenhower ci sono 60 corazzate del cielo con la bandiera a stelle e strisce sulla coda: tutte pronte a coprire l’eventuale bombardamento dei siti nucleari iraniani che Israele non fa mistero di caldeggiare, specie da quando la Russia non minimizza più le intenzioni belliche di Teheran?
Sebbene ancora formalmente indeciso, il Pentagono sembra orientato all’azione, almeno a giudicare dal massiccio dispiegamento navale statunitense al di là dello stretto di Bab el Mandeb, pari solo, suggeriscono fonti dei servizi, a quello raggiunto a ridosso dell’invasione dell’Iraq, nel marzo 2003. Arrivano i rinforzi perché è cominciato il countdown? Laurea alla United States Naval Academy di Annapolis e specializzazione in studi strategici, Davidson è un duro di tipo diverso dai suoi uomini, molti latinos, che ostentano aggressivi tatuaggi sui bicipiti torniti. Strizza gli occhi di ghiaccio e respinge la domanda con un sorriso: «Nessun aumento di forze, siamo costantemente presenti nella regione dal 1949 per garantire i nostri alleati. Il nostro impegno è diplomatico e non militare». E non conta che mentre la Eisenhower fa temporaneo ritorno nella base di Norfolk in attesa della prossima missione, la portaerei a propulsione militare USS Truman resti saldamente al largo delle coste iraniane affiancata, a detta del sito d’intelligence israeliano Debka, dalla fregata missilistica tedesca FGS Hessen, che opera sotto il comando americano.
Qui, dove i marinai di Filadelfia, San Diego, Augusta, chiedono l’indirizzo migliore per mangiare «la vera pizza napoletana» e archiviare i lunghi giorni di navigazione dall’ultima sosta nel porto turco di Antalya, la consegna del silenzio è sacra. Qualsiasi previsione è «inopportuna», compresa quella trapelata settimane fa dagli stessi ambienti militari di Washington secondo cui entro agosto potrebbero esserci 4 gruppi di attacco statunitensi visibili dalle sentinelle degli ayatollah.
Seppure rombanti, i tamburi della guerra sotterranea testimoniata dalla misteriosa vicenda dello scienziato nucleare iraniano Amiri non turbano i capitani diciottenni impegnati a decifrare le indicazioni radar che i colleghi inviano quassù, nella cabina di guida, tra i monitor della torre di controllo. Eppure l’intervento è uno degli esiti del braccio di ferro con il governo di Ahmadinejad. E non il più improbabile.
Quando a metà giugno trapelò la notizia, poi smentita dagli interessati, che i sauditi, d’intesa con il Dipartimento di Stato, avevano concesso a Israele il loro spazio aereo in caso di raid «chirurgico», l’Eisenhower e il suo gruppo d’attacco della capacità di risposta da dieci minuti al massimo, erano ancora a un centinaio di miglia al largo del Pakistan. Dal fronte interno giungevano voci di un dispiegamento di forze americane e israeliane al confine tra Azerbaigian e Iran. «Gli Stati Uniti sono preoccupati per la crescita del programma di missili balistici dell’Iran» ripete il responsabile per la politica di difesa americana Frank Rose. Nell’attesa, i marinai dell'Eisenhower colgono l’attimo e prima di cedere alla malia di Napoli divorano un hot dog alla mensa della charity Uso.

Il FOGLIO - " La Cia e Mosca guidano l’impossibile alleanza contro l’Iran "


Dimitri Medvedev

Roma. Il riposizionamento della Russia sul nucleare iraniano è il precipitato di un piano di collaborazione che l’America gestisce giocando per contrasto con Teheran, unico collante per tenere insieme personaggi che altrimenti si sbranerebbero. Quando il presidente russo, Dmitri Medvedev, dice che “l’Iran è vicino alla costruzione di mezzi che possono portare in linea di principio alla costruzione della bomba atomica”, sta rispondendo a una sollecitazione che arriva dal direttore della Cia, Leon Panetta, che tre settimane fa ha indicato il 2012 come l’anno sciagurato in cui gli ayatollah potrebbero infine ottenere uranio sufficientemente arricchito per fare l’atomica. Medvedev aveva già raccolto il giudizio di Panetta, definendo “preoccupante” la prospettiva di un Iran nucleare a breve termine. “Dichiarazioni opposte alla realtà” ha detto ieri il ministro degli Esteri iraniano, Manouchehr Mottaki, con un’escursione verbale arcigna verso il partner russo che sarebbe stata fuori luogo fino a pochi mesi fa. E’ anche giocando la carta del nemico comune che Washington cerca di stabilire la pace strategica con Mosca. Lo scambio delle dieci spie stanate dall’Fbi nei sobborghi perbene della east coast con i quattro detenuti russi collaboratori dei servizi occidentali è più di un bel racconto in stile Guerra fredda. Le autorità americane avevano elementi sufficienti per arrestare le spie già due settimane prima che Medvedev e Obama si sedessero davanti a un paio di hamburger ad Arlington. L’11 giugno gli ufficiali della Casa Bianca sono stati informati delle indagini e il presidente ha ricevuto un immediato briefing sul dossier; sono passati sedici giorni prima che le dieci spie venissero arrestate e il capo della Cia negoziasse direttamente con i vertici del Svr, i servizi russi, uno scambio senza intoppi come non se ne vedevano dai tempi della seconda guerra mondiale. Nel frattempo Obama e Medvedev hanno firmato l’accordo sul trattato per la non proliferazione, hanno trovato la giusta sintonia anti iraniana e ci hanno bevuto sopra una Coca-Cola. A quel punto lo scambio delle spie ha assunto un profilo politico. L’evento raccontato dai media come storia d’altri tempi è diventata la sanzione perfetta della pace su cui la Casa Bianca ha lavorato alla luce del sole, la Cia nella penombra. Per isolare Teheran l’America sta giocando di sponda anche con altri attori dell’area: a Tabuk, in Arabia Saudita, una fonte iraniana dice di aver visto un aereo israeliano – quindi bandito da Riad – scaricare del materiale. Informazione difficile da verificare, ma che fa il paio con la concessione dello spazio aereo offerta da Riad a Gerusalemme in caso di un attacco all’Iran. Gli Emirati Arabi Uniti sono favorevoli a un’operazione americana contro gli ayatollah, come ha detto l’ambasciatore a Washington, Yousef al Otaiba, in un’intervista al mensile The Atlantic. Ma i passi verso l’improbabile concordia non sono a buon mercato. Convincere Mosca a firmare il quarto giro di sanzioni all’Iran è costato a Washington lo spostamento dello scudo spaziale dalla Polonia, mossa che ha preoccupato gli alleati dell’Europa orientale. In più, in cambio della firma alle sanzioni, Mosca ha preteso di essere sollevata dai bandi. Washington ha permesso che il contratto per l’acquisto dei missili S-300 che Mosca doveva consegnare agli ayatollah fosse onorato; sono stati i russi, in segno di buona volontà, a congelare l’operazione. Nella trama americana lo scambio dei prigionieri è l’esatto opposto di una recrudescenza di rivalità epiche. L’esperto di spionaggio del Washington Post, Jeff Stein, scrive che per come si sono sviluppate le indagini dell’Fbi è impossibile che le spie non sapessero di essere controllate e quindi hanno smesso di operare. Il letargo delle spie ha dato il tempo necessario ai servizi segreti dei due paesi per trasformare l’incidente diplomatico in un accordo politico e le parole di Medvedev contro Teheran, riprese fin nel dettaglio linguistico dalle osservazioni del capo della Cia, sono la contropartita. Ora manca soltanto la Cina.

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