Ruth Halimi – Emilie Frèche, 24 Giorni. La verità sulla morte di Ilan Halimi 09/07/2010
24 Giorni. La verità sulla morte di Ilan Halimi Ruth Halimi – Emilie Frèche traduzione di Marcello Hassan, Elena Lattes, Barbara Mella Salomone Belforte Euro 14
Cosa unisce Sherri Mandell, nata a New York e giunta in Israele nel 1996 e Ruth Halimi, un’impiegata che vive a Parigi con la sua famiglia? Ciò che lega queste due madri ebree è un filo rosso di sangue, il sangue innocente dei loro figli barbaramente trucidati dall’odio antisemita. Koby Mandell aveva solo 13 anni quando l’8 maggio del 2001 marinò la scuola con l’amico Yosef ish-Ran per fare una passeggiata: i loro corpi furono ritrovati il giorno dopo in una grotta del deserto della Giudea, massacrati a colpi di pietra da arabi palestinesi. Ilan Halimi aveva 23 anni quando venne rapito il 20 gennaio 2006 a Sceaux da una banda di islamici il cui capo Youssef Fofana “è un’antisemita della più stupida e bestiale specie”, torturato per ventiquattro giorni, arso vivo e ritrovato con il corpo come una piaga, agonizzante, lungo un binario della ferrovia, a Sainte-Geneviève-des-Bois. Questi due giovani che vivevano in paesi diversi, cresciuti in famiglie e con abitudini diverse avevano in comune però l’appartenenza religiosa e questo è stato sufficiente per fare di loro due obiettivi privilegiati dell’odio criminale antisemita. Le madri di questi ragazzi però non si sono arrese e hanno trovato il coraggio di vivere nonostante tutto, dedicando un libro ai propri figli affinché la loro tragica storia sia ricordata e sia possibile dire, anzi urlare senza più ipocrisia: “Mai più”! Come “La benedizione di un cuore spezzato” che Sherri Mandell ha scritto per ricordare il supplizio del piccolo Koby, la testimonianza della mamma di Ilan e della giornalista e scrittrice Emilie Frèche è un racconto straziante che spezza il cuore ma al tempo stesso è un inno alla vita, un invito a credere, nonostante l’odio che ha spezzato la vita di Ilan, nella bontà degli esseri umani. Debbo confessare che non si esce indenni dalla lettura di “24 giorni. La verità sulla morte di Ilan Halimi”: è un libro che ci pone a contatto con un mondo di crudeltà fredda, calcolata, di odio così bestiale da condurre ad atti atroci come l’uccisione di un essere umano innocente ma anche con un universo di fredda indifferenza. E’ con pudore e riservatezza che entriamo nel mondo della famiglia Halimi attraverso il racconto di Ruth di una tranquilla cena di shabbat trascorsa con il figlio e la figlia Eve, progettando di recarsi il giorno successivo a pranzo dall’altra figlia Deborah sposata e madre della piccola Noa. E’ affettuoso e comprensivo il saluto che mamma Ruth rivolge a Ilan che dopo cena, incurante dei desideri materni di trascorrere la serata insieme, preferisce uscire per due chiacchiere con gli amici. Né Ilan né la sua mamma sanno che quello sarà il loro ultimo saluto. Proprio quella sera Ilan cade vittima della trappola tesagli dal capo della banda dei rapitori che utilizzando un’esca (per quel crimine percepirà 5000 euro) induce il giovane ebreo a recarsi in un luogo dove l’attendono i suoi carnefici. Quella di Ilan è una famiglia modesta: occupano un appartamento al secondo piano di un vecchio edificio in un quartiere popolare nella parte est di Parigi, la mamma è impiegata e il padre che non vive più con loro è commerciante. Nulla quindi nella condizione economica degli Halimi induce a credere che la richiesta di riscatto di 450.000 euro abbia un senso logico, fatta eccezione per il pregiudizio ancora oggi radicato in molti strati della società per il quale “gli ebrei sono inevitabilmente ricchi”. Le pagine che seguono sono lo straziante resoconto di una madre che giorno dopo giorno prende coscienza (a differenza dei media e della stessa polizia) che il movente di questo crimine è di natura antisemita anche perché le indagini mettono in luce che altri ebrei sono stati attirati nella medesima trappola e solo per un soffio si sono salvati. Sono giornate di dolore e di angoscia – nelle quali si succedono telefonate minacciose, febbrile attesa di un contatto con il rapitore, messaggi crudeli attraverso la posta elettronica - ma anche pervase da una sottile speranza perché scrive Ruth: “Non ho fatto nulla di male perché deve capitarmi un cosa simile”? E’ difficile confrontarsi con l’odio antisemita perché è un sentimento viscerale e crudele che pervade ogni cellula di questi esseri che di umano hanno ben poco. Eppure il crimine di cui è stato vittima un giovane ebreo parigino, e il lettore ne troverà conferma dall’escalation dei fatti narrati da Ruth, estende le sue radici anche nella superficialità (o incompetenza) della polizia che più di una volta si lascia scappare il capo della banda dei barbari, sottovalutando il movente antisemita (“Come è possibile che la squadra anticrimine, stimata per la sua professionalità e la sua efficienza, se lo sia lasciato scappare? ….e come supporre che in Francia nel 2006 un ebreo poteva anche rischiare la vita solo perché ebreo?”). Riconoscere la dimensione antisemita di questo rapimento avrebbe consentito un approccio diverso alle indagini e forse salvato la vita di Ilan. Ma non solo. Responsabile di questo deprecabile delitto è anche l’indifferenza, la colpevole indifferenza di chi ha udito le grida strazianti di quel ragazzo che subiva orribili sevizie e non ha detto nulla. Era sufficiente una sola parola da parte degli abitanti del palazzo in cui Ilan era tenuto prigioniero, oppure un semplice gesto di pentimento scaturito dalla ragazza che l’aveva adescato per salvargli la vita. “…Nessuno ebbe questo riflesso elementare di umanità”. Formulare questo pensiero è sufficiente per sentirsi straziare l’anima. Ma esiste anche una deprecabile ignavia nel mondo intellettuale: molti giornalisti che hanno seguito il caso hanno scelto di passare sotto silenzio il carattere antiebraico del sequestro, diventandone a mio parere complici. La morte di Ilan non ha suscitato espressioni indignate nell’opinione pubblica, né la reazione sconvolta di chi è sempre pronto a dichiararsi in favore del dialogo e della tolleranza. Al contrario, chi non ha voluto tacere e aderire passivamente alla linea del silenzio è stato tacciato di essere un provocatore e di fomentare lo scontro di civiltà. Ma il martirio di Ilan è figlio di quel silenzio, di quella superficialità e di quell’odio criminale. Al grido di “Mai più Auschwitz” le commemorazioni per il Giorno della memoria rischiano di diventare vuota retorica se ci si dimentica che per essere uccisi ancora oggi basta essere ebrei: un mostro quello dell’antisemitismo che non si è disperso fra le ceneri del campo di sterminio di Auschwitz, anzi sta risorgendo e ricomincia a strisciare nel cuore e nella mente delle persone. Se è possibile che a Grenoble nel collège Henri-Vallon una professoressa venga contestata dai suoi allievi maghrebini per aver proposto la lettura di Se questo è un uomo di Primo Levi (“Non vogliamo leggere queste storie di ebrei”), diventa imprescindibile la presa di coscienza che l’antisemitismo è tutt’altro che sepolto e che dopo quasi settant’anni continua a perseguitare vittime innocenti. E in tal senso il diario di Ruth Halimi è un documento prezioso oltre che sconvolgente che non va riposto e dimenticato: compito imprescindibile del lettore è ora di divulgarlo affinchè questo crimine efferato non cada nell’oblio e la frase della mamma di Ilan, Never give up, diventi un monito per ciascuno di noi. Per onorare la memoria di Ilan e di tutti gli ebrei perseguitati e sterminati solo perché “ebrei”: Zakhor. Al Tichkah. Ricorda. Non dimenticare mai.