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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa-Il Foglio Rassegna Stampa
07.07.2010 Bibi/Obama: successo del primo, cambia la linea del secondo
Cronache e commenti di Maurizio Molinari, Vittorio Emanuele Parsi, il Foglio

Testata:La Stampa-Il Foglio
Autore: Maurizio Molinari-Vittorio Emanuele Parsi.La redazione del Foglio
Titolo: «Negoziati diretti con i palestinesi-Il passo indietro della Casa Bianca-Occhi negli occhi: prove d'armonia tra Bibi e Obama»

Un successo per Bibi l'incontro con Obama. Commenti imbarazzati, tranne quello di V.E.Parsi sulla STAMPA che eccede solo nel definire "potentissima" la Lobby ebraica americana. Che c'è, è molto attiva, ma come lo sono tutte le Lobby in Usa, bruppi di pressione che lavorano sotto la luce del sole. In Italia, la parola ha un significato diverso, lascia immaginare chissà che di nascosto, che sa di complotto. Parsi avrebbe fatto bene a ricordare che scrive per un giornale italiano, e spiegarsi meglio. Per ilresto il suo pezzo è accurato, come la cronaca di maurizio Molinari che riportiamo.
Commenti imbarazzati, scrivevamo, come quello del MANIFESTO, che scrive " Abu Mazen sarà costretto a riprendere i negoziati diretti", poverino, ma non è con Israele che deve fare la pace ? Delusa anche l'UNITA', che titola
" Buone intenzioni e nient'altro ", con il pezzo di Udg tutto un elenco delle colpe di Israele.
Dopo i due articoli della STAMPA, riprendiamo l'analisi del FOGLIO, che traccia una analisi a tutto tondo della regione, un articolo accurato come sempre.

La Stampa-Maurizio Molinari: " Negoziati diretti con i palestinesi "


stop ai colloqui indiretti

«È arrivato il momento dei colloqui diretti con i palestinesi». Seduto davanti al caminetto dello Studio Ovale, il premier israeliano Benjamin Netanyahu pronuncia la frase che consegna a Barack Obama il risultato desiderato per accelerare il negoziato di pace con l’Autorità palestinese di Abu Mazen. «Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi vi sono dei passi concreti che si possono compiere per accelerare la pace» sottolinea Netanyahu, sotto lo sguardo attento tanto di Obama che di George Mitchell, l’inviato Usa per il Medio Oriente che nell’occasione è in piedi al fondo dello Studio Ovale, in prossimità del «Resolute Table», la scrivania del presidente.
«Ci aspettiamo che i negoziati diretti facciano seguito a quello indiretti avvenuti fino ad ora» aggiunge Obama, lasciando intendere che incassato il via libera di Israele ora aspetta quello dell’Autorità palestinese. In questo scambio di dichiarazioni fra i due leader c’è il risultato politico che Obama cercava: l’impegno di Netanyahu ad accelerare il percorso verso la soluzione dei due Stati «fianco a fianco in pace e sicurezza» come il presidente americano ripete a più riprese.
Netanyahu lo ribadisce affermando che «gli israeliani sono pronti ad assumersi dei rischi per la pace» e Obama risponde dandogli atto di essere un leader «serio, pronto a rischiare per la pace». E ancora: Barack plaude alla consegna di aiuti umanitari a Gaza «avvenuta a una velocità superiore al previsto» e incalza i Paesi arabi a «sostenere il processo di pace facendo degli investimenti concreti».
Da quando Obama è alla Casa Bianca i due governi non erano mai apparsi in tale sintonia. Ciò non significa che tutti i problemi siano risolti perché, come l’israeliano fa notare, «vogliamo evitare la possibilità che evacuando dei territori ad insediarvisi possano essere forze alleate dell’Iran» ma ciò che conta è la ritrovata convergenza sulla direzione di marcia in Medio Oriente.
E’ un risultato che nasce dalla comunue volontà di archiviare la crisi bilaterale innescata dalla burrascosa visita di Netanyahu a fine marzo, dovuta al disaccordo sugli insediamenti e poi aggravata dal voto favorevole di Washington alla richesta araba alla Conferenza Onu contro la proliferazione di ispezioni negli impianti nucleari israeliano. Rispetto a tali disaccordi entrambi hanno fatto dei passi indietro: Netanyahu nei mesi scorsi boccando le costruzioni di nuovi insediamenti nei Territori e Obama parlando ieri davanti alle telecamere per ribadire che «la posizione americana» sul nucleare israeliano «non è cambiata» in quanto le esigenze di sicurezza dello Stato ebraico «sono uniche». Mai prima un presidente americano aveva parlato in pubblico del nucleare israeliano in tali termini.
A rasserenare il clima contribuisce anche l’intesa sul dossier iraniano perché Netanyahu plaude alla «leadership dimostrata dal presidente Obama» nel far approvare le nuove sanzioni all’Onu e nel varare un pacchetto di rigide misure nazionali, suggerendo ad altre nazioni di «prendere esempio da lui» su come rispondere alla minaccia nucleare di Teheran. In tale cornice entrambi i leader, incalzati dalle domande dei reporter, hanno fatto a gara nello smentire che vi siano state serie tensioni negli ultimi mesi. «Non sono d’accordo con chi afferma che ho tentato di prendere le distanze da Israele - afferma Obama - se fate attenzione a tutte le mie dichiarazioni pubbliche degli ultimi 18 mesi vedrete che c’è una costante riaffermazione della nostra solida partnership».

La Stampa-Vittorio Emanuele Parsi: " Il passo indietro della Casa Bianca "


l'avrà capita ?

Tutti d’accordo sul riavviare colloqui diretti tra Autorità Palestinese e governo israeliano, nel ritenere la prospettiva di un Iran nucleare una minaccia inaccettabile alla sicurezza regionale, e nel ribadire il legame «infrangibile tra Stati Uniti e Israele». Ma al di là delle belle parole, è Benjamin Netanyahu a uscire vincitore dai colloqui allo Studio Ovale ed è Barack Obama a dover fare buon viso a cattivo gioco. Forse Obama ha scelto ancora una volta di privilegiare l’agenda interna, ha pensato alla potentissima lobby ebraica e alla sua capacità di influenzare le elezioni di mid term, già presentate come un test decisivo per una presidenza in serio calo di popolarità. Ma forse è anche l’inizio della revisione di una strategia, quella dell’amministrazione Usa, che fin qui ha portato risultati davvero scarsi. L’ambizioso, e generoso, progetto di Obama di ricollocare gli Usa come un honest broker in Medio Oriente si è probabilmente scontrato con la realtà: una realtà nella quale l’America di Obama è decisamente meno potente di quella di Clinton e persino di quella di George W. Bush, anche se di quest’ultima senz’altro più accattivante.
Il vertice sembra non aver neppure preso in seria considerazione lo scontro tra i due principali alleati americani nella regione, Israele e Turchia, che è sempre meno ipotetico: per la rigidità israeliana, per l’errore di calcolo turco e per la perdita di influenza americana.
Dopo avere puntato sulla Turchia come ponte tra Occidente e Islam, aver tentato un approccio soft con il regime iraniano, aver pronunciato un brillante discorso al Cairo, aver annunciato un cambio di strategia in Afghanistan (sconfessando e rilegittimando il presidente Kharzai a settimane alterne) e aver più volte preso le distanza dalla politica del governo israeliano, i risultati portati a casa da Obama sono modestissimi. Un’escalation tra Israele e la Turchia che pure non giungesse allo scambio di cannonate per difendere la prossima «freedom flottilla», già pronta a salpare, dischiuderebbe una prospettiva persino più devastante per il futuro della Nato di quella dello scontro militare tra Turchia e Grecia negli Anni 70 (durante la crisi di Cipro), perché avrebbe per oggetto quel Medio Oriente in cui la Nato è sempre più coinvolta.
Gli israeliani, che pure portano a casa da questo vertice un successo insperato, non possono nascondersi un fatto evidente: che con la Turchia perdono il solo alleato che avevano nella regione, di fatto rafforzando «l’arcinemico» iraniano, che Ankara appare peraltro disposta a riconoscere come interlocutore a tutti gli effetti. Così Teheran capitalizza ulteriormente gli effetti della guerra del 2006 (disastrosa per Israele), con la progressiva fuoriuscita del Paese dei Cedri dalla sfera occidentale, la ripresa dell’influenza siriana e il consolidamento del potere politico del Movimento sciita suo alleato.
La Turchia, dal canto suo, continua a non capire che pensare di poter giocare un ruolo maggiore in Medio Oriente, in grado di disimpegnarsi tra multiple alleanze, senza che questo metta in crisi il suo tradizionale e sempre più incerto posizionamento occidentale è una pericolosa illusione. Il solo fatto che il governo di Ankara possa pensare di chiudere lo spazio aereo ai velivoli commerciali israeliani, o definisca Israele uno «Stato pirata» (con una retorica pericolosamente prossima a quella di Ahmadinejad) colloca oggettivamente la Turchia pericolosamente ai margini dello schieramento occidentale, che vede in Israele un partner comunque diverso e privilegiato rispetto agli altri Stati della regione.
D’altronde, e questo è il corollario più preoccupante e beffardo di tutta la situazione, a quasi nove anni dall’11 settembre e nonostante tutti gli sforzi profusi innanzitutto dagli Usa, il germe del radicalismo religioso pervade la regione e conquista o riconquista terreno: dal Libano all’Iraq, dall’Afghanistan all’Iran, alla Turchia e allo stesso Israele, che sempre più Israele assomiglia agli altri Stati della regione, in cui la politicizzazione delle religioni gioca un ruolo decisivo e per nulla benefico.

IL Foglio- " Occhi negli occhi: prove d'armonia tra Bibi e Obama"


e subito dopo la bomba nucleare iraniana

Gerusalemme. Benjamin Netanyahu è atterrato presto ieri mattina a Washington, ad accoglierlo c’era finalmente un tappeto rosso e non soltanto i tanti articoli che segnalano le difficoltà che il premier israeliano incontra nel trovare sintonia con il presidente Barack Obama. La Casa Bianca ha sottolineato che l’armonia sta tornando – è il quinto incontro tra i due – e per dimostrarlo ha sfoggiato il meglio del suo cerimoniale. I toni sono stati positivi, tendenti all’ottimismo: “Israele è pronto a rischiare per la pace”, ha detto Obama, elogiando il governo di Gerusalemme per l’alleggerimento dell’embargo a Gaza. “La pace è nell’interesse di entrambi”, ha risposto sorridendo Netanyahu. Il legame tra i due paesi è “indissolubile”, di mezzo ci sono “due democrazie che condividono gli stessi valori”, la collaborazione è alta su tutto quel che riguarda la sicurezza di Israele, i due leader si parlano, forse si capiscono. A sottolineare le buone intenzioni israeliane è arrivata anche la notizia di un’indagine interna dell’Idf su quattro episodi dell’offensiva su Gaza nel 2008. Come notava ieri Dan Senor, ex portavoce dell’Autorità provvisoria in Iraq dopo l’invasione americana oggi commentatore e saggista, non si possono invocare cambiamenti in medio oriente se non c’è un’intesa di fondo tra Washington e Gerusalemme: “Yitzhak Rabin non avrebbe mai corso i rischi del processo di pace di Oslo negli anni Novanta se non si fosse fidato di Bill Clinton – scrive Senor – Ariel Sharon non si sarebbe mai ritirato dalla Striscia di Gaza nel 2005 se non fosse stato per il suo legame personale con George W. Bush”. Così Obama si è augurato che i colloqui diretti tra israeliani e palestinesi ricomincino entro il 26 settembre – termine della moratoria sul congelamento della costruzione degli insediamenti – e Netanyahu ha approvato: “E’ giunto il momento” di avviare il dialogo diretto, non perdendo però l’occasione per insistere sulla minaccia della bomba iraniana, chiedendo sanzioni efficaci. Obama gli ha risposto che il suo governo ha imposto le misure più dure di sempre.Per molti i sorrisi e la positività sono tardivi, non si possono più rimettere insieme i cocci, dopo le liti sugli insediamenti, gli sgarbi, il blitz sulla Flotilla diretta a Gaza. Oltre alla freddezza di fatto, i media hanno cavalcato ampiamente il filone della “guerra fredda” tra Netanyahu e Obama, o Marte e Venere, come li ha definiti Benny Avni sul New York Sun online: il primo pensa all’Iran, l’altro al sogno palestinese. Il mantra spesso ripetuto in molti ambienti diplomatici (e non solo) recita: la Casa Bianca è convinta che finché ci sarà Netanyahu al governo di Israele e Hamas al governo di Gaza non ci sarà alcuno stato palestinese (lo ribadiva ancora ieri Peter Beinart, ex direttore di New Republic, uno dei più mordaci sostenitori dell’inconciliabilità strategica tra Obama e Netanyahu).Il tempo, come spesso accade in medio oriente, non gioca a favore di Washington e Gerusalemme, anzi c’è chi addirittura prevede una “tempesta perfetta” in arrivo per settembre, come ha spiegato il Wall Street Journal. Oltre ai sempre più insistenti preparativi di guerra (vedi inserto I) ci sono alcuni processi in scadenza dopo l’estate: da una parte la Lega araba che ha dato tempo fino a settembre ai colloqui indiretti tra palestinesi e israeliani “per mostrare risultati”, dopo di che il rais dell’Autorità palestinese, Abu Mazen, dovrà aspettare un altro endorsement dai leader arabi per continuare il dialogo con Israele. I colloqui diretti sono stati sospesi nel 2008: è dall’inizio degli anni Novanta che le due parti non negoziano direttamente per così tanto tempo. I colloqui indiretti procedono a rilento, nel sospetto reciproco, e continuano ad arrivare nuove richieste rivolte a Israele. A settembre poi la Turchia prenderà la presidenza del Consiglio di sicurezza dell’Onu, e mai tempismo poteva essere tanto ostile a Gerusalemme: la crisi con Ankara è ormai un dato di fatto, e le ripercussioni sulla corsa atomica di Teheran non si faranno attendere. A settembre è in programma anche una conferenza dell’Agenzia atomica dell’Onu durante la quale si discuterà dello stato d’avanzamento del nucleare iraniano, e persino nell’Aiea è sempre più corposa la corrente di chi pensa che i ritmi di Teheran siano ben più rapidi di quanto si possa immaginare.

 

 

 

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