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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Giornale-La Stampa Rassegna Stampa
05.07.2010 Bibi-Obama: nuovo incontro a Washington
I commenti di Fiamma Nirenstein,Maurizio Molinari

Testata:Il Giornale-La Stampa
Autore: Fiamma Nirenstein-Maurizio Molinari
Titolo: «Obama non può perdere il poker con Israele- Bibi da Obama per fare pace»

Domani martedì Bibi incontra nuovamente Obama a Washington. Malgrado siano state annunciate calorose accoglienze, le difficlotà ci sono, e visibili.
Pubblichiamo i commenti di Fiamma Nirenstein sul GIORNALE e di Maurizio Molinari sulla STAMPA. Nemmeno una riga su Corriere della Sera e Repubblica.

Il Giornale-Fiamma Nierenstein: " Obama non può perdere il poker con Israele"


Fiamma Nirenstein

Stavolta non mancherà la torta. Stavolta il presidente Obama, mentre Bibi Netanyahu vola verso Washington per incontrarlo, prepara la cena, probabilmente per domani; invece, quando a marzo il primo ministro israeliano visitò il presidente Usa, questi si alzò dalla loro gelida riunione alla Casa Bianca un minuto prima dell’ora del pasto, mettendo alla porta il collega mediorientale. E non aveva nessun altro a tavola ad aspettarlo se non la famigliola, come precisò allo stupito ospite. Fu uno scandalo, e soprattutto la prova di quanto gli Usa di Obama stessero prendendo le distanze da Israele. Adesso, alla vigilia del nuovo incontro, ci sono buone ragioni per immaginare che le cose andranno meglio, ma l’intrigo si è fatto molto più fitto e danza sempre sull’orlo del baratro.
Cosa c’è in gioco? Naturalmente il processo di pace coi i palestinesi, cui Obama tiene assai per portarne a casa almeno una nella sua tormentata politica estera. Come primo punto all’ordine del giorno per Israele per fare la pace le due parti perlomeno si devono sedere l’una di fronte all’altra e parlarsi direttamente, uscendo dall’impasse dovuta alla scelta dei palestinesi di comunicare attraverso l’inviato americano George Mitchell. È ridicolo, dice Israele, che questi compia una insensata spola fra Gerusalemme e Ramallah, attaccate l’una all’altra come sono e dopo che Bibi ha aperto i varchi di Gaza, ha sbloccato una quantità di check point, ha fatto il famoso «freezing» degli insediamenti dieci mesi fa. E l’ha anche detto: vogliamo due Stati per due popoli, ma parliamoci una buona volta. Netanyahu dunque prima di tutto chiederà a Obama di indurre Abu Mazen ad accettare di parlare direttamente delle questioni territoriali e dello status finale. Ma i palestinesi insistono che prima deve essere stabilito che gli israeliani sono disposti a lasciare tutti i territori del ’67, salvo eventuali piccoli scambi pari a poco più del 2 per cento. Insomma, vorrebbero che la trattativa la facessero gli americani, magari evitando di imporgli l’esistenza dello Stato ebraico, come richiesto da Netanyahu. Giusto due giorni fa, per dimostrare a Obama quanto sia disponibile a una politica di pace, Abu Mazen ha fatto filtrare tramite il giornale al Hayat la sua disponibilità, poi prontamente smentita ieri, a abbandonare ogni pretesa sul Muro del Pianto e sul quartiere ebraico della Città Vecchia a Gerusalemme, scambiandoli con una zona presso Hebron.
L’amo è stato calato alla stampa ebraica martedì; ma il primo ministro Salam Fayyad ha smorzato subito l’eccitazione, dicendo che per ora non vale la pena di un colloquio diretto, ognuno a casa sua. Nel frattempo della richiesta israeliana di riconoscere lo Stato ebraico non se ne parla, e la tv palestinese ufficiale seguita nella solita politica: prediche di mufti che incitano a uccidere gli ebrei, bambini indottrinati su cartine che ignorano del tutto l’esistenza di Israele. Basta vedere i documenti raccolti proprio in questi giorni dal centro studi Palestinian Media Watch.
Bibi sa che quando Obama lo incontrerà non avrà verso di lui nessuna predisposizione particolarmente affettuosa, come per esempio aveva Clinton verso Israele. Ma ha una carta in mano: lo stop imposto da lui stesso dieci mesi orsono alle costruzioni nei territori. Scade fra poche settimane, e Obama vuole fortissimamente che sia rinnovato. Ma chi assicura Bibi che questo avrebbe risultati positivi sul processo di pace, dal momento che finora è servito solo a far lievitare il prezzo richiesto da Abu Mazen per trattare direttamente? Di certo, pensa Bibi, accettando la richiesta americana sarebbe messo in questione il suo governo attuale, in cui la destra nel caso di un sì a Obama potrebbe dichiarare la crisi.
Ci sarebbe, sullo sfondo, l’opzione di disfare il governo attuale e di portare dentro il partito Kadima di Tzipi Livni: ma Tzipi per entrare vuole né più né meno che l’alternanza nel ruolo di primo ministro. Difficile da accettare, anche se Bibi non ha pregiudizi a sinistra: il suo ministro della Difesa è il socialista Ehud Barak, un tempo il primo ministro che trattò la pace fino allo spasimo a Camp David e a cui oggi sono affidati compiti di primaria importanza.
Andare d’accordo con Obama per Israele ha soprattutto uno scopo: battere, in un modo o nell’altro, la minaccia iraniana, ottenere sanzioni sempre più dure, e magari un giorno essere coperto nel caso dovesse distruggere gli impianti nucleari. Bibi, che alla fin fine è semmai disposto a cedere sul «freezing» degli insediamenti, sa che stavolta deve giocare una vera partita di poker. Infatti Obama non è nella migliore condizione per imporre a Israele di bloccare gli insediamenti senza la contropartita dei colloqui diretti garantiti: fra meno di quattro mesi ci sono le elezioni di «mid term», Obama vede dai sondaggi che l’elettorato democratico è prevalentemente filo-israeliano; i suoi sostenitori democratici ebrei, intellettuali, giornalisti, importanti «fund raiser», potrebbero abbandonarlo se Usa e Israele dovessero di nuovo arrivare ai ferri corti. A Washington assisteremo dunque a una vera disfida politica, densa di sorrisi, madida di veleni, con finale a sorpresa.

La Stampa-Maurizio Molinari: " Bibi da Obama per fare pace"


Maurizio Molinari

Messaggi rassicuranti in superficie e tensioni dietro le quinte accompagnano la preparazione della visita a Washington del premier israeliano Benjamin Netanyahu, atteso domani alla Casa Bianca per il quinto incontro con il presidente Obama. A far trapelare i messaggi rassicuranti è la Casa Bianca attraverso Ben Rhodes, il consigliere che scrive i discorsi di politica estera del presidente, e Dan Shapiro, direttore per il Medio Oriente del Consiglio per la sicurezza nazionale. Rhodes illustra i dettagli del cerimoniale, tesi a far dimenticare il burrascoso incontro di marzo, quando Obama lasciò solo Netanyahu nella Roosevelt Room ritirandosi a cena nella East Wing, negando all’ospite anche la fotografia ufficiale. «Si vedranno nello Studio Ovale e faranno poi commenti alla stampa» anticipa Rhodes, aggiungendo che «vi sarà un pranzo di lavoro fra le delegazioni». Insomma, una cornice da alleati. Alla quale si deve aggiungere che la First Lady Michelle offrirà un tè pomeridiano a Sara Netanyahu.
Shapiro invece parla di politica, sottolineando che «le differenze fra israeliani e palestinesi sono molto diminuite negli ultimi due mesi» e definendo «importante il congelamento degli insediamenti» applicato da Israele dall’inizio dell’anno. «Con Israele abbiamo interessi e valori comuni, e molto lavoro da fare assieme» aggiunge, lasciando intendere che l’Amministrazione punta a un’atmosfera distesa per ottenere dall’ospite il via libera ai «colloqui diretti» con i palestinesi, già discussi con il presidente dell’Anp, Abu Mazen, e il re saudita Abdullah.
Ma le indiscrezioni da Washington descrivono perduranti fibrillazioni. Per il «New York Times» riguardano l’arsenale nucleare israeliano, dopo che Gerusalemme si è sentita tradita dall’avallo di Washington alle conclusioni della Conferenza sul trattato anti-proliferazione che - su pressione araba - includono la richiesta a Israele di ispezioni al reattore di Dimona. Per «Haaretz», invece, a rendere rovente la vigilia sarebbe l’intenzione Usa di consegnare all’Arabia Saudita il modello più avanzato dei caccia F-15 in funzione anti-Iran. Il ministro della Difesa, Ehud Barak, ha fatto conoscere al Pentagono il timore che «un giorno potrebbero essere usati contro di noi». Aperture pubbliche e disaccordi privati fanno da corollario a un’agenda incentrata su due temi: l’intenzione Usa di accelerare i colloqui diretti Israele-Anp e la volontà di Netanyahu di decidere le prossime mosse contro l’Iran.

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