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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Libero - Il Foglio Rassegna Stampa
29.06.2010 L'Iran continua a costruire la bomba e Israele è sempre più isolato
La strategia di Obama non funziona. Commenti di Carlo Panella, redazione del Foglio

Testata:Libero - Il Foglio
Autore: Carlo Panella - La redazione del Foglio
Titolo: «Pure Ahmadinejad dà ragione alla Cia. Guerra inevitabile - La diplomazia fatta a faglie»

Riportiamo da LIBERO di oggi, 29/06/2010, a pag. 18, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " Pure Ahmadinejad dà ragione alla Cia. Guerra inevitabile ". Dal FOGLIO, a pag. 3, l'editoriale dal titolo " La diplomazia fatta a faglie ".
Ecco i due pezzi:

LIBERO - Carlo Panella : " Pure Ahmadinejad dà ragione alla Cia. Guerra inevitabile "

 
Carlo Panella

«Abbiamo deciso una punizione per insegnare all’Occidente come si dialoga con le altre nazioni»: i disastri provocati dalla fallimentare strategia del dialogo con l’Iran di Barack Obama noncessano mai. Dopo aver verificato che le sanzioni deliberate dall’Onu sono solo di facciata, dopo aver visto che al G8 Obama non è riuscito che a far uscire il solito comunicato contro l’Iran pieno di aria fritta, Ahmadinejad si sente ora tanto forte da bacchettare sulle dita Obama “punendolo”, prospettandogli un nuovo “dialogo”, ma non prima di due mesi. Ahmadinejad, aggiunge che, per punire gli Usa e l’Occidente per la loro “cattiva educazione”, l’Iran ha deciso di imporre nuove condizioni per la trattativa: «In primo luogo l’Occidente deve dichiarare la posizione in merito alle armi nucleari del regime sionista, poi deve chiarire se è disposto a impegnarsi con le norme del trattato Tnp e infine se vuole arrivare a un risultato di amicizia o inimicizia con questo dialogo che deve avere per base la “Dichiarazione di Teheran”di Iran, Turchia e Brasile». Scherno che si somma a scherno, perché la “Dichiarazione di Teheran” era una palese presa in giro, perché il meccanismo di trasferimento all’estero del materiale nucleare deciso con Lula e Erdogan facilitava, anziché impedire, l’arricchimento al 90% dell’uranio e quindi la costruzione dell’atomica. Prospettiva ormai concretissima tanto che due giorni fa il capo dei servizi segreti americani Leon Panetta ha ammesso che l’Iran «potrebbe impiegare un anno ad arricchire ulteriormente l’uranio e a fabbricare la bomba e un altro anno a sviluppare un sistema operativo per utilizzare quest’arma. Tutto sta a prendere la decisione operativa, su cui Usa e di Israele divergono: gli israeliani sono più convinti di noi che Teheran abbia deciso di procedere con la bomba, anche se hanno accettato nonattaccare per darci iltempo di far funzionare la diplomazia». Il dramma è che - con ogni evidenza - la strategia diplomatica scelta da Obama, non accompagnata - come faceva Bush - né da una rigida scansione dei tempi (Obama accetta continue dilazioni), né da una concreta minaccia militare Usa, ha sinora permesso a Teheran di sviluppare indisturbata i suoi programmi, senza pagare alcuno scotto. Ora, i due nuovi mesi di dilazione per i nuovi contatti sanciti come “punizione” da Ahmadinejad, avvicinano ancora più la “dead line” di 24 mesi indicati da Panetta, mentre vale sempre l’allarme lanciato mesi fa dal vicepresidente Usa Biden: «Nei confronti dell’Iran non abbiamo un piano B». Peggio ancora, i generali americani hanno avuto l’ordine di preparare piani militari d’attacco ai siti iraniani, ma Obama si guarda bene di supportarli con una apposita strategia politica. È evidente infatti che un’azione militareUsa contro l’Iran andrebbe preparata - come fece George W. Bush con l’Iraq - costruendo una “Coali - tion of Willing”, un gruppo di nazioni democratiche che - essendo impossibile ottenere il via dall’Onu per un’azione del genere - si facciano carico di impedire con la forza che Teheran possa disporre di una o più bombe atomiche per “distrug - gere Israele” come afferma di voler fare. Ma una Coalizione di questo tipo necessita di una piattaforma politica, di una “visione” e Obama non ha né l’una, né l’al - tra. Peggio ancora: Obama con ogni evidenza non punta a formare questa Coalition of Willing, per non sporcarsi l’imma - gine, perché pensa di essere tirato fuori dai guai da Israele, e fa di tutto perché sia Israele a incaricarsi del bombardamento dei siti iraniani. Uno scaricabarile immondo, che permette però a Obama, premio Nobel per la Pace, di “non sporcarsi le mani” e che ha per lui il vantaggio di scaricare su Gerusalemme e non sugli Usa la reazione violenta del mondo. Inclusi i tanti regimi arabi che in cuor loro plaudiranno ai bombardamenti israeliani dell’Iran (e ne saranno magari complici materiali come l’Egitto e l’Arabia Saudita), ma che pubblicamente li condanneranno attirando ancora più su Israele odio e rancore.

Il FOGLIO - " La diplomazia fatta a faglie "


Benyamin Netanyahu, Barack Obama

Tectonic rift”, Israele e l’America sono come due faglie che si stanno staccando, “non si tratta di una crisi, perché in una crisi ci sono momenti buoni e momenti cattivi”, è molto di più, una frattura insanabile, “due continenti alla deriva”. Così ha parlato Michael Oren, ambasciatore israeliano a Washington, secondo indiscrezioni trapelate sui giornali israeliani. Il diplomatico ha poi smentito, così come aveva fatto qualche mese fa quando si era lasciato sfuggire che mai, in trent’anni, Israele e America si erano trovati tanto distanti. Tra i calcoli freddi con cui il presidente Obama tende a gestire la politica estera e le pressioni interne al governo di Gerusalemme, la tensione tra i due paesi è sempre meno governabile. Il 6 luglio Bibi Netanyahu torna a Washington per prendere le misure con un’Amministrazione piena “di ebrei che si auto odiano”, come ebbe a dire il premier israeliano nell’estate scorsa – scrisse Haaretz – salvo poi smentire. Nel frattempo ci sono nuovi elementi che complicano “l’amicizia indistruttibile”, secondo la definizione di Hillary Clinton: la Turchia, che ha annunciato la chiusura degli spazi aerei per i mezzi israeliani; l’Iran: secondo il capo della Cia Leon Panetta, Teheran ha quantità d’uranio sufficiente per costruire un’atomica entro due anni; il “prezzo” del caporale Shalit sempre più alto, come dice Hamas. All’aumentare della minaccia iraniana aumenta il chiacchiericcio su un’operazione di Israele contro i siti atomici. Il capo di stato maggiore americano Mullen è volato in Israele a dimostrazione del fatto che, sul campo, la collaborazione non si è affievolita. Ma il consenso internazionale, di fronte a questioni come la corsa nucleare iraniana o l’embargo a Gaza, si fonda su responsabilità assunte insieme, a testa alta, su una visione del mondo condivisa, su valori e priorità che non possono essere messi in discussione da perenni fughe di notizie. Diversamente anche le amicizie indistruttibili finiscono alla deriva.

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