Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
McChrystal si dimette. Lo sostituisce Petraeus Cronache e commenti di Maurizio Molinari, Daniele Raineri, redazione del Foglio
Testata:La Stampa - Il Foglio Autore: Maurizio Molinari - Daniele Raineri Titolo: «McChrystal parte. Arriva Petraeus - La nuova missione. Domare i generali - Così si è incrinato il 'team of rivals' di Obama - La guerra interna a colpi di soffiate ai giornali»
Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 24/06/2010, a pag. 14, gli articoli di Maurizio Molinari titolati " McChrystal parte. Arriva Petraeus " e " La nuova missione. Domare i generali ". Dal FOGLIO, a pag. I, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo " Così si è incrinato il 'team of rivals' di Obama " e l'articolo dal titolo " La guerra interna a colpi di soffiate ai giornali ". Ecco gli articoli:
Con una prova di forza personale e politica Barack Obama solleva dal comando in Afghanistan il generale Stanley McChrystal e lo sostituisce con il suo attuale diretto superiore: l’eroe della campagna irachena David Petraeus. Bersagliato dalle definizioni irridenti e offensive del team della Casa Bianca che gli stretti collaboratori di McChrystal hanno consegnato al magazine «Rolling Stones», Obama ha orchestrato una giornata disseminata di gesti, eventi e contenuti mirati a punire il responsabile riaffermando al tempo stesso, in maniera netta, la supremazia del potere civile sulle gerarchie militari. Il primo passo è stato il colloquio con McChrystal nello Studio Ovale: il generale si è presentato offrendo le dimissioni ma se pensava che il gesto lo avrebbe potuto salvare si è dovuto ricredere di fronte ad un presidente che, dopo aver accettato le dimissioni, per 30 minuti non ha fatto nulla per celare la propria irritazione. Entrato alle 9,39 del mattino alla Casa Bianca, McChrystal ne è uscito a testa bassa, senza fare alcuna dichiarazione, rifugiandosi in un Suv nero. Un’ora dopo è iniziata la riunione del consiglio di sicurezza nazionale sulla campagna afghana ma lui non c’era perché Obama nel frattempo aveva già convocato David Petraeus, capo del Comando Centrale di Tampa dal quale dipendono tutte le truppe impegnate dal Marocco al Pakistan, per comunicargli l’incarico di guidare la guerra ai taleban. Ignaro di quanto stava avvenendo a Washington il presidente afghano Hamid Karzai ha tentato di salvare McChrystal chiamando la Casa Bianca per confermargli «apppoggio e fiducia». Ma la telefonata ha avuto esito nullo, al pari delle dichiarazioni alle agenzie degli stretti collaboratori di McChrystal che ricordavano come «si tratta del soldato americano che ha ucciso il più alto numero di leader di Al Qaeda». Con McChrystal già lontano da Washington, il summit dei consiglieri ha preso atto della decisione di Obama che alle 13.30 ha annunciato di persona alla nazione - rimasta fino allora con il fiato in sospeso - parlando dal Giardino delle Rose della Casa Bianca con alle spalle il vicepresidente Joe Biden, il capo degli Stati Maggiori Congiunti Mike Mullen e Petraeus. «Ho accettato le dimissioni di McChrystal e nominato al suo posto Petraeus, non è stata una decisione motivata da divergenze politiche o insulti personali - ha esordito il presidente - ma dal fatto che la guerra è più grande di ognuno di noi e la condotta di McChrystal aveva messo in dubbio l’autorità civile sul potere militare». E’ la stessa motivazione con cui Obama, lo scorso autunno, rimproverò proprio a McChrystal un discorso pronunciato in pubblico a Londra nel quale criticava apertamente le idee di Biden sull’Afghanistan. Allora come adesso azioni e parole di McChrystal chiamano in causa «il controllo civile sui militari che è il fondamento della nostra democrazia» ha aggiunto il presidente, lasciando intendere di voler sfruttare la tempesta innescata dall’articolo dei «Rolling Stones» per riportare ordine fra le gerarchie militari. Al tempo stesso Obama ha rinnovato stima e apprezzamento personale per «uno dei nostri migliori soldati», sottolineando come «il cambio di personale non è un cambio di politica» e dunque l’amministrazione resta concentrata sull’obiettivo strategico di «smantellare, sconfiggere e distruggere Al Qaeda e i suoi alleati in Afghanistan». E’ un messaggio ai capi dei taleban: non pensate che l’America sia diventata più debole solo perché ha cambiato un generale.
La STAMPA - Maurizio Molinari : "La nuova missione. Domare i generali "
Gen. Petraeus
La missione che David Petraeus ha ricevuto da Barack Obama comporta un doppio incarico: vincere in fretta la guerra in Afghanistan e riportare all’ordine gli alti ufficiali che guidano la campagna. Per l’eroe del conflitto in Iraq, riuscito fra il 2005 e il 2007 a sconfiggere Al Qaeda ed espugnare il Triangolo Sunnita, si tratta di un difficile ritorno al fronte dopo aver passato l’ultimo anno a mezzo alla guida del Comando Centrale di Tampa fra la pianificazione della lotta globale alla Jihad, i test dei nuovi droni e il corteggiamento dei repubblicani che lo vorrebbero candidare alle presidenziali del 2012. Se Obama si affida a lui è perché lo ritiene l’uomo migliore per entrambe le missioni: sul fronte delle operazioni militari afghane la strategia anti-insurrezionale che Stanley McChrystal stava applicando con i rinforzi di truppe è la ripetizione di quanto a lui riuscì in Iraq mentre all’interno del Pentagono gode del prestigio necessario per poter ripristinare «il rispetto per l’autorità del potere civile», come chiede la Casa Bianca. Ma la maggiore difficoltà per il generale formatosi all’ateneo di Princeton viene dal dover svolgere i due compiti sullo stesso teatro afghano. E se i nemici taleban e jihadisti sono dichiarati e visibili altrettanto non si può dire per gli ufficiali che criticano l’amministrazione. Non è un caso che l’articolo del «Rolling Stones» è una collezione di dichiarazioni anti-Obama da parte di «collaboratori del generale» tutti rigorosamente autonomi. Il sospetto di Obama, che Petraeus dovrà appurare, è che dietro quelle frasi ostili e irridenti nei confronti della Casa Bianca vi siano alcuni dei più stretti collaboratori di McChrystal ovvero ufficiali di primo piano nella guida delle operazioni, come potrebbe essere il suo vice David Rodriguez. A confermare il peso politico degli anonimi autori di questi attacchi c’è quanto avvenuto nelle ultime 24 ore a Washington, dove analisti di area democratica con rapporti stretti con il Pentagono si sono pronunciati per McChrystal: Michael O’Hanlon della «Brookings Institution» in ragione della «sua insostituibilità» e Max Boot del «Council on Foreign Relations» per la «validità del suo piano militare». Sul fronte conservatore a dare voce al malessere degli alti ufficiali sono stati Thomas Donnelly e Bill Kristol con un articolo sul «Weekly Standard» nel quale si sfida Obama a «non sciupare questa crisi andando fino in fondo» liberandosi «non solo di McChrystal ma anche dell’ambasciatore a Kabul Karl Eikenberry e dell’inviato Richard Holbrooke» ovvero dei principali bersagli delle dichiarazioni pubblicate sul «Rollings Stones». Le fibrillazioni che trapelano dagli ambienti militari si devono al fatto che gli ufficiali alla guida delle operazioni in Afghanistan vorrebbero da Obama la stessa libertà d’azione che i loro parigrado ebbero da Bush nell’ultima fase della guerra in Iraq mentre la Casa Bianca oggi vuole avere - soprattutto su pressione di Joe Biden - un più rigido controllo su quanto avviene al fronte. Ne sa qualcosa Raymond Odierno, l’attuale comandante delle truppe in Iraq che la Casa Bianca ha ripreso per aver ipotizzato uno slittamento del ritiro delle truppe combattenti. Senza contare che Mike Mullen, capo degli Stati Maggiori Congiunti, non ha esitato a contraddire Obama al Congresso sulla necessità di consentire ai gay di servire in divisa senza alcuna limitazione di comportamento. Come se non bastasse, a complicare la missione di Petraeus ci sono le voci sulle possibili dimissioni del ministro della Difesa Robert Gates che a fine anno potrebbe lasciare il timone a Hillary Clinton, data per uscente dal Dipartimento di Stato senza che sia ancora emerso un nome per il successore.
Il FOGLIO - Daniele Raineri : "Così si è incrinato il 'team of rivals' di Obama "
Gen. McChrystal
Roma. Ora lo staff ribelle e innovativo di maniaci del lavoro, e supertalentuosi nei loro settori, assemblato nel giro di un anno dal generale Stanley McChrystal per vincere la guerra in Afghanistan sarà cancellato, assieme al suo comandante. I commenti contro l’Amministrazione raccolti dal free lance Michael Hastings e poi finiti su Rolling Stone sono al limite dell’insubordinazione e danno un’idea fin troppo realistica dell’aria che fino a ieri si respirava dentro The Machine, il salone di Kabul ricoperto di schermi e computer dove il gruppo – che ama definirsi Team America, come la creazione degli autori di South Park – lavorava senza fermarsi mai. Aria chiara anche nel titolo del pezzo: il Team America cerca una soluzione alla guerra contro i talebani “senza staccare gli occhi dal vero nemico: i mollaccioni dentro la Casa Bianca”. Se si è arrivati a questa spaccatura tra leadership militare sul campo e autorità civile a casa, negli Stati Uniti, tra il Team America e i “wimps”, è per un’idea forte che ha ispirato il presidente Barack Obama fin dalla campagna elettorale. Ovviamente per il candidato democratico il modello negativo, il più tenuto in spregio e dal quale era necessario distinguersi, era la Casa Bianca di George W. Bush anno 2003, l’anno dell’invasione in Iraq. Un’Amministrazione ben piantata che macinava senza pietà qualsiasi voce di dissenso interno e che spingeva anche i personaggi più indipendenti, come il segretario di stato Colin Powell, ad assecondare la linea. Thomas Ricks, giornalista del Washington Post e scrittore, racconta di generali che al Pentagono “se la facevano addosso” soltanto all’idea di contrariare il segretario alla Difesa, Donald Rumsfeld – che in realtà però non ha mai licenziato nessun generale, a differenza del suo successore finto soave, Bob Gates . Obama ha invece pensato di ricalcare un modello nobilissimo, il “Team of Rivals”, la squadra di rivali creata dal repubblicano Abraham Lincoln. Nel 1861 il presidente nominò alcuni dei suoi più acerrimi avversari a posti cruciali dentro l’esecutivo, compreso un segretario alla Difesa che durante la campagna elettorale lo aveva chiamato “una scimmia con le braccia lunghe” che “non sa nulla e non può fare nulla di bene”. L’idea è quella di avere un coro di voci dissonanti, difficile da tenere assieme ma plasticamente prontissimo a reagire agli imprevisti proprio perché i suoi componenti la pensano in modo diverso e non hanno paura di dirlo. “Avevamo bisogno degli uomini più forti – disse Lincoln – e questi erano veramente i più forti. Non avevo il diritto di privare il paese dei loro servizi”. Durante la campagna elettorale Obama, che tiene in grande considerazione Lincoln, citava “Team of Rivals”, il libro della storica Doris Kearns Goodwin, e così faceva anche la sua diretta avversaria fino alle primarie, Hillary Clinton , entrambi con in testa l’idea di includere il rivale in un futuro esecutivo – poi ce l’ha fatta Obama. Il problema di Obama è che il Team of Rivals è un motore formidabile, ma da maneggiare con cura. Invece che metterli in riga, il presidente ha lasciato che si facessero la guerra, sottraendo tempo ed energie preziose alla lotta contro i talebani e al Qaida. Il Team America chiedeva più truppe e di scommettere ancora su Karzai, leader poco affidabile, ma la counterinsurgency si fa con quello che c’è. Invece l’Amministrazione lo ha fatto competere e lottare con altre iniziative parallele e logoranti, che minacciavano di aggirare sui fianchi tutta la strategia di McChrystal. Il generale chiedeva fiducia per Karzai e invece ha assistito a un massacro delegittimante. Il vicepresidente Biden – o Bite me, e anche se Team America va a casa il soprannome gli resterà appiccicato a lungo – ha rivelato ai giornali di avere troncato a metà una cena con l’afghano per non sentire altri argomenti pretestuosi sulla corruzione. L’inviato speciale per l’Afghanistan, Richard Holbrooke, dopo le elezioni ha fatto una famosa piazzata dentro l’ufficio del presidente afghano ed è uscito sbattendo la porta. Il suo uomo alle Nazioni Unite di Kabul, Peter Galbraith, ha montato una campagna devastante contro Karzai “il drogato”, tanto da essere licenziato. L’ambasciatore, Karl Eikenberry, ha passato al New York Times un dispaccio segreto sulla poca affidabilità di Karzai. E il giornale liberal ha condotto una campagna dura contro il leader, con un paio di imbeccate provenienti da dentro l’Amministrazione. Il generale chiedeva una strategia impegnativa, un investimento sulla ricostruzione del paese partendo da zero, e Biden controproponeva una strategia light, poche truppe con compiti di polizia e tanti droni e commandos a eliminare i nidi di al Qaida, ogni volta se ne fosse presentata l’occasione. Alla fine, dopo un’attesa ingiustificata durata mesi, Team America aveva prevalso con le sue idee. Ma poi s’è fatto fregare al completo da un giornalista più bravo e fortunato degli altri.
Il FOGLIO - " La guerra interna a colpi di soffiate ai giornali"
Nel gergo politico si chiamano “leak”, letteralmente perdite, fuoriuscite di informazioni riservate che finiscono nelle mani di giornalisti per assolvere un preciso compito politico. La diffusione di segreti legati al governo è una pratica vecchia quanto l’esistenza stessa dei governi e dei segreti, ed è uno degli strumenti più efficaci per mantenere gli equilibri di potere in quegli angoli in penombra dove le voci ufficiali non possono permettersi di parlare in modo chiaro. Laddove il comunicato è imbarazzante o politicamente dannoso, si passa tutto al cronista di riferimento e il gioco è fatto. I grandi giornali americani vivono di documenti segreti, memo riservati, carte passate da talpe travestite da rappresentazioni di giornalismo sbrigliato d’altri tempi. L’essenza dell’operazione consiste nell’ambiguità dell’ispiratore: gli indizi sulla talpa ci sono sempre, ma il buon leaker ha generalmente la cura di intorbidire le acque, di lasciare spazio alle interpretazioni che indicano lui ma anche il suo peggiore nemico come possibili fonti della fuoriuscita. Di solito, se il leak è confezionato secondo le regole non scritte di Washington, non ha vere conseguenze: nessuno ordina indagini per trovare il colpevole, nessuno smentisce in modo chiaro, perché è così che le cose devono andare. Ma è anche una certa mancanza di ambiguità nello spifferare informazioni che ha reso cruenta la guerra fra il generale Stanley McChrystal e i suoi avversari nell’Amministrazione Obama. Come nella più ovvia delle partiture, la battaglia dei leak è iniziata con Bob Woodward, la vecchia gloria del Washington Post che con lo scandalo Watergate ha portato Nixon alle dimissioni e da lì direttamente nella pattumiera della storia americana. Il 21 settembre dell’anno scorso Woodward ha potuto vedere in anteprima e spiegare ai lettori del Post il documento di 66 pagine con cui McChrystal spiegava alla Casa Bianca che servivano più truppe in Afghanistan, altrimenti la missione rischiava il “fallimento”. Quella parola, “fallimento”, ha fatto irritare molti uomini di Obama, specialmente per il tempismo con cui era stata recapitata a un giornalista e quindi diffusa ovunque nel giro di poche ore. In quel momento il documento strategico che invocava più soldati e promuoveva la pacificazione con Karzai come mezzo necessario per aggiustare una situazione “molto seria” in cui la vittoria era tuttavia “raggiungibile” era già passato al vaglio del segretario della Difesa, Bob Gates, ed era arrivato da poche settimane alla Casa Bianca per la più delicata delle revisioni. Era esattamente il momento in cui Obama non avrebbe gradito che le valutazioni del generale arrivassero al pubblico. Quando è uscito l’articolo di Woodward tutti hanno pensato la stessa cosa: McChrystal ha spifferato ogni cosa per mettere pressione su Obama e costringerlo ad accettare le sue richieste ardite e necessarie. McChrystal ha smentito ogni speculazione sulla fuoriuscita non autorizzata, ma meno di due mesi più tardi ha trovato sul Washington Post la vendetta. L’articolo faceva riferimento a due note riservate inviate dall’ambasciatore americano a Kabul, Karl Ei0kenberry, alla Casa Bianca, in cui si diceva che l’idea di mandare nuove truppe era sbagliata, Karzai un partner inaffidabile e si contestava l’idea che la presenza in Afghanistan fosse a tempo indeterminato: l’esatto contrario della dottrina Mc- Chrystal. Per questo nell’articolo apparso su Rolling Stone, le fonti dicono che abbia parlato di “tradimento”. E anche questo cade sotto la categoria “leak”, strumento potente che nel mondo stratificato della strategia militare vale più della parola detta fuori dai denti, come successo per il disaccordo strategico fra Mc- Chrystal e il vicepresidente Joe Biden. La sua visione ha “il fiato corto”, aveva detto il generale. Se l’avesse spifferato a un giornale le conseguenze sarebbero state anche meno gestibili.
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