Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Turchia sempre più islamica. Per Robert Gates è colpa dell'Europa Ma i fatti dimostrano l'esatto contrario. Cronache e commenti di Paolo Valentino, Giulio Meotti, Lorenzo De Biase, Margherita Belgiojoso
Testata:Corriere della Sera - Il Foglio Autore: Paolo Valentino - Giulio Meotti - Lorenzo De Biase - Margherita Belgiojoso Titolo: «Turchia meno occidentale per colpa dell’Ue - Dal secolarismo di Ataturk alla censura della Umma. Buio sugli scrittori - Supremazia turca - Il nuovo capo dell’intelligence turca è un altro colpo al già abbacchiato esercito»
Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 11/06/2010, a pag. 17, l'articolo di Paolo Valentino dal titolo " Turchia meno occidentale per colpa dell’Ue ", preceduto dal nostro commento. Dal FOGLIO, a pag. I, l'articolo di Giulio Meotti dal titolo " Dal secolarismo di Ataturk alla censura della Umma. Buio sugli scrittori ", l'articolo di Lorenzo De Biase dal titolo " Supremazia turca ", l'articolo di Margherita Belgiojoso dal titolo " Il nuovo capo dell’intelligence turca è un altro colpo al già abbacchiato esercito ". Ecco i pezzi:
CORRIERE della SERA - Paolo Valentino : " Turchia meno occidentale per colpa dell’Ue "
Contrariamente a quanto sostiene Robert Gates, l'islamizzazione della Turchia non dipende dal suo mancato ingresso in Europa. Semmai è l'esatto opposto. Dal 2003, anno in cui Erdogan ha preso il potere, si assiste a questo processo di trasformazione della Turchia da Stato laico a Stato islamico. Per questo motivo i negoziati per il suo ingresso in UE sono fermi. Per riaprirli ci vorrebbe la sconfitta di Erdogan alle prossime elezioni del 2011. Cosa pressochè impossibile, vista la deriva totalitaria (leggi controllo dei seggi) del suo governo Ecco l'articolo:
Robert Gates
WASHINGTON — Peserebbe sulla coscienza degli europei, se l'Occidente perdesse la Turchia. È il rifiuto dell'Europa di integrare a pieno titolo Ankara nelle sue istituzioni, a spingere i dirigenti turchi verso Oriente, cercando freneticamente rapporti più stretti con Paesi come la Russia, l'Iran, la Siria e l'Iraq.
Poche ore dopo il no della Turchia (e del Brasile) alle nuove sanzioni dell'Onu contro Teheran, il ministro della Difesa americano, Robert Gates, ha lanciato l'allarme preoccupato degli Stati Uniti. Ed è la prima volta, che un alto esponente dell'Amministrazione americana tira in ballo l'Unione europea, accusandola esplicitamente di essere all’origine della deriva che sta progressivamente facendo basculare l'asse storico della politica estera anatolica.
«Personalmente— ha detto Gates parlando con alcuni giornalisti a Londra — penso che se c'è del vero nella nozione che la Turchia stia muovendosi verso Est, sia dovuto in non piccola parte al fatto che è stata ripetutamente spinta da alcuni in Europa, i quali si sono rifiutati di darle quel legame organico con l'Occidente che Ankara cercava». Secondo il capo del Pentagono, «occorre adesso pensare a lungo e in modo approfondito sul perché in Turchia si stiano registrando questi sviluppi e sul modo in cui noi potremmo contrastarli, rendendo più evidente ai leader turchi come un più forte legame con l'Occidente sia nel loro interesse».
L'Unione europea aveva deciso nel 2004 di aprire negoziati formali di adesione con Ankara, dopo cinquant'anni di mezze promesse, battute d'arresto e finte ripartenze, durante i quali la nazione islamica aveva cercato nell'approdo comunitario la soluzione della sua eterna ambiguità tra Est e Ovest. Ma le trattative sono andate a rilento, con buona parte dei dossier bloccati a causa del rifiuto turco di aprire i porti alle navi di Cipro. Soprattutto, sotto la pressione dell'opinione pubblica, grandi Paesi come Francia e Germania hanno più volte espresso la loro contrarietà all'adesione all'Ue della Turchia, che pure è tra i Paesi fondatori della Nato.
La reazione del governo filo-islamico di Tayyip Erdogan è stata un'offensiva diplomatica a tutto campo all'indirizzo di Paesi arabi, di Mosca, perfino del Brasile. A farne le spese è stato in primo luogo il rapporto privilegiato con Israele, che datava dai primi Anni Novanta. Il progressivo allontanamento di Ankara da Gerusalemme ha avuto il suo culmine la settimana scorsa, quando una flottiglia pacifista turca ha cercato di forzare il blocco di Gaza per portare aiuti umanitari all'enclave palestinese, innescando il raid israeliano nel quale vennero uccise nove persone.
Le parole di Gates hanno però spinto proprio Erdogan a dare una rassicurazione, sia pur polemica, sulle intenzioni del suo Paese. «Chi dice che la Turchia abbia rotto i ponti con l'Occidente è l'intermediario di una propaganda malata. Noi siamo aperti a tutte le parti del mondo», ha detto il premier turco, secondo il quale, «nessuno fa obiezioni quando la Francia investe in Siria, mentre quando la Turchia investe nei Paesi arabi, una sporca propaganda tenta di impedirlo».
Il FOGLIO - Giulio Meotti : " Dal secolarismo di Ataturk alla censura della Umma. Buio sugli scrittori "
Giulio Meotti
Roma. L’ultima vittima illustre della caccia alle streghe alimentata dal premier turco Recep Tayyip Erdogan si chiama Guillaume Apollinaire. Troppo sensuale, troppo erotico e occidentalizzante. Legata alla questione armena e alle minoranze religiose perseguitate, in testa quelle cristiane, la violazione dei diritti umani in Turchia si caratterizza soprattutto per l’impossibilità o il rischio di incorrere in sanzioni penali gravi non appena si affrontano argomenti come l’islam, lo sterminio d’inizio Novecento o gli “interessi nazionali”. Sotto il governo Erdogan si è passati dalla censura kemalista di stato, nella sua forma coercitiva e secolarista, alla censura islamica, che risulta perfino più totalitaria. Il 30 aprile 2008 il Parlamento turco ha approvato alcune modifiche al controverso articolo 301 del Codice penale. Dopo l’emendamento, la parola “identità turca” è stata sostituita da “nazione turca” e la pena massima è stata ridotta da tre a due anni. La richiesta di riforma di tale articolo era arrivata dopo l’assassinio, nel gennaio 2007, del giornalista di origine armena Hrant Dink. Quest’intellettuale martirizzato era stato condannato a sei mesi di reclusione per suoi articoli sui fatti avvenuti tra il 1890 e il 1917 in cui denunciava il genocidio armeno. L’articolo 301 del Codice penale era stato poi utilizzato per processare il premio Nobel Orhan Pamuk e tanti altri intellettuali. Ma nonostante la riforma di facciata, fatta per ammansire l’Unione europea, negli ultimi anni centinaia di persone in Turchia sono state processate. Poco è infatti cambiato dopo la riforma. Nel 2005 Orhan Pamuk è stato processato per offesa alla dignità nazionale perché in un’intervista alla rivista svizzera “Das Magazin” aveva detto che “abbiamo ucciso trentamila curdi e un milione di armeni e nessuno in Turchia osa parlarne. Io lo faccio. Per questo mi odiano”. Poi c’era stato il caso della scrittrice Elif Shafak per il romanzo “La bastarda di Istanbul” nel quale si trattava della questione armena tramite il racconto dei nipoti di sopravvissuti al genocidio. Se i processi contro Pamuk e la Shafak riguardavano l’attacco all’identità turca, il 5 maggio 2009 con l’avvio del processo a carico di Nedim Gursel, professore di Letteratura alla Sorbona di Parigi, a causa del suo romanzo “Le figlie di Allah”, tutto è cambiato. Stavolta l’accusa non riguarda più il fondamento dello stato kemalista, ma la religione islamica. Il solo titolo, “Le figlie di Allah”, ha fatto gridare allo scandalo, perché nel monoteismo islamico il concetto di “figlio di Dio” è rifiutato come blasfemia della peggior specie. L’accusa di cui ha dovuto rispondere Gursel è stato di “oltraggio all’islam e incitazione all’odio”. Perihan Magden è invece l’autrice del romanzo “In fuga”, racconta di una madre troppo protettiva verso la figlia. I gendarmi turchi hanno voluto vedere in questa storia di una madre possessiva la metafora di una patria soffocante al punto da mettere in pericolo la vita dei suoi figli. Non è certo un caso che in Turchia si sia assistito a una simile esplosione di oscurantismo censorio. A capo della Organizzazione della Conferenza islamica, il più potente blocco di votanti alle Nazioni Unite, c’è oggi un turco, Ekmeleddin Ihsanoglu. L’Organizzazione, fondata nel 1970 a Gedda in Arabia Saudita, è una potenza unica al mondo. Il suo fine è quello di imporre all’occidente leggi che criminalizzino l’islamofobia e la blasfemia (sua è la recente risoluzione dell’Onu che penalizza la “critica alla religione”). Da quando dal 2004 Ihsanoglu è a capo dell’Organizzazione della Conferenza Islamica si susseguono segnali di un radicale cedimento della Turchia alle sue politiche. E’ lo stesso Ihsanoglu ad aver dichiarato che il caos provocato dalle caricature danesi fosse paragonabile a un “nuovo 11 settembre antimusulmano”. Non a caso il 18 dicembre 2009 il primo ministro turco Erdogan in visita in Siria ha affermato che l’islamofobia è un “crimine contro l’umanità”. A capo della protesta contro Erdogan c’è l’Associazione dei giornalisti turchi. Mentre Kemal Kerincsiz, che pilota la sedicente Unione dei giuristi, è il capofila di questa guerra oscurantista che ha lo scopo di intimidire scrittori, editori, giornalisti. Tutto è iniziato quando Erdogan ha avviato azioni giudiziarie contro il celebre caricaturista Musa Kart, che l’aveva dipinto come un gatto invischiato in un gomitolo di lana. A processo è finita poi la scrittrice Ipek Calishar, inquisita per aver scritto un libro sull’ex moglie di Ataturk, un tabù per il popolo anatolico. La scrittrice Perihan Magden è andata davanti ai giudici per aver difeso l’obiezione di coscienza sulla leva militare obbligatoria. L’anziana archeologa Muazzez Ilmiye Çig è stata perseguitata invece con l’accusa di aver “insultato l’islam” sostenendo che l’uso del velo da parte delle donne è tradizione antecedente a Maometto, risale a 5.000 anni fa. Muazzez Ilmiye Çig ha pubblicato un libro in cui afferma che in Mesopotamia, tremila anni prima della nascita di Cristo, il velo era portato dalle sacerdotesse preposte a iniziare i giovani sumeri al sesso. Viaggia sotto scorta il direttore del quotidiano liberale Radikal, Ismet Berkan. Come lui tanti altri giornalisti. Semplicemente colpevoli magari di rievocare le migliaia di armeni affondati su enormi barconi al largo di Trebisonda, gli sgozzati di Ak-Hissar, le barbare esecuzioni a Bitlis, a Sasun, a Erzurum, la speciale pulizia etnica riservata alla Cilicia, lo sterminio di massa nell’Anatolia, il massacro di madri e figli nel cortile della scuola tedesca di Aleppo, oppure gli orfani rifugiati nel Caucaso e buttati nei fiumi come inermi palloncini.
Il FOGLIO - Lorenzo De Biase : " Supremazia turca"
Recep Erdogan
Sincan è un distretto tranquillo di Ankara. Non ha monumenti famosi, ma possiede un posto speciale nella storia della Turchia. Lo ricordano per “La notte di al Quds”, il nome arabo di Gerusalemme, una marcia che ha gonfiato il sobborgo all’inizio del 1997. Quell’anno, migliaia di persone scesero in strada per protestare contro Israele. Fra loro c’era anche un ambasciatore iraniano, che chiese alla Turchia di “obbedire ai precetti dell’islam”, ovvero di rompere i rapporti con lo stato ebraico. La folla rispose coprendo le piazze con i manifesti di Hamas, di Hezbollah e di altri gruppi paramilitari del medio oriente. Fu allora che arrivarono i carri dell’esercito turco. Oggi chi parla di Sincan parla dell’ultimo golpe nella storia del paese, un “coup postmoderno”, perché i soldati non hanno avuto bisogno di sparare per raggiungere il loro obiettivo: la parata alla periferia di Ankara bastò a convincere il premier, Necmettin Erbakan, che era arrivato il momento di lasciare; il suo partito, il Partito del benessere (Rp), sparì pochi mesi più tardi. Nel ’97, Recep Tayyip Erdogan era il sindaco di Istanbul e aveva rapporti intensi con Erbakan. Ora è capo del governo e affronta una crisi simile alla sua. La scorsa settimana, una nave turca diretta a Gaza è stata fermata dall’esercito israeliano con una operazione che è costata la vita a nove civili. L’opinione pubblica è ancora scossa, il premier chiede una punizione severa per Gerusalemme e i rapporti fra i due paesi sono di fatto congelati. Eppure, nessuno pensa che i militari avrebbero il coraggio di intervenire. Il partito di Erdogan, Giustizia e sviluppo (Akp), è il primo in Turchia. Domina la scena dal 2003 grazie ai voti che arrivano dall’Anatolia, la parte più povera e più religiosa del paese. In cambio, ha offerto alle città d’oriente misure adeguate per sostenere il loro progresso, un’occasione che nessuno, in passato, aveva potuto garantire. “Molte cose sono cambiate negli ultimi anni – dice al Foglio Wolfango Piccoli, un analista del think tank americano Eurasia Group – L’Akp è sempre più popolare grazie ai traguardi raggiunti in campo economico, per rendersene conto basta guardare i numeri: nel ’97 l’inflazione era al 120 per cento, oggi è ferma al 10; gli investimenti stranieri non superavano il miliardo all’anno, ora sono venti volte tanto. E’ normale che la gente non abbia voglia di cambiare”. Erdogan è conservatore e filo islamico, ma la sua esperienza al governo è segnata da misure liberiste che hanno favorito la nascita di una nuova classe dirigente. Un grande aiuto all’Akp arriva dagli imprenditori musulmani, uomini d’affari che seguono le regole del Corano, ma hanno un approccio spregiudicato in campo economico. La loro ascesa ha aperto uno scontro con la classe dirigente cha ha governato per settant’anni lo sviluppo del paese. Il partito che perde è quello dei kemalisti, rappresentato in Parlamento dal Partito repubblicano popolare (Chp), un gruppo di centrosinistra nato negli anni Trenta intorno ad Ataturk. Per il Chp, lo stato deve mantenere vivi i principi sui quali è fondata la Turchia moderna: il suo simbolo, sei frecce rosse, rappresenta i pilastri della dottrina elaborata da Mustafa Kemal. Molti storici hanno messo in discussione le reali conquiste di questo partito. Secondo Hakan Yavuz, che ha scritto un libro interessante sul rapporto fra lo stato e la società turca (“Islam and political identity in Turkey”, Oxford University Press 2003), i repubblicani hanno trasformato il kemalismo in una religione, bloccando lo sviluppo del paese. Anche Erik Zürcher, autore di una nota “Storia della Turchia” (Donzelli, 2007), è sulla stessa posizione. Nel 1992, il Chp è passato sotto la guida di Deniz Baykal, un politico che ha ricoperto molti incarichi nel governo. La sua epoca non sarà ricordata con orgoglio dai repubblicani: il partito affronta una crisi profonda, non è riuscito a risalire neppure alle elezioni del 2007, quando il tasso di disoccupazione è balzato in pochi mesi sopra al venti per cento. Baykal ha lasciato l’incarico il mese scorso. La sua decisione non è arrivata dopo un voto di sfiducia, ma per uno scandalo a luci rosse che lo ha coinvolto assieme a una collega del Chp. Il nuovo leader si chiama Kemal Kilicdaroglu ed è considerato una specie di Gandhi turco. Il soprannome non deve trarre in inganno: Kilicdaroglu ha appena lanciato una campagna di attacchi personali contro Erdogan, il che rappresenta una novità per gli elettori repubblicani. Secondo Piccoli, Kilicdaroglu ha un’unica possibilità per interrompere il dominio dei filo islamici: “Deve riportare il partito alla realtà, deve compiere la stessa impresa portata a termine da David Cameron in Inghilterra. Il Chp continua a puntare su questioni come la laicità dello stato, ma la gente vuole parlare di economia, di rapporti con i paesi stranieri e di terrorismo curdo”. A causa della propria debolezza, il Chp non ha mai rappresentato un ostacolo serio per il governo. La vera opposizione è quella compiuta dai magistrati della Corte suprema e dai saggi della Corte costituzionale. I primi hanno cercato di sciogliere l’Akp con un procedimento legale che è terminato nel 2007 senza conseguenze gravi. Gli altri hanno impedito a Erdogan di introdurre un paio di norme ispirate all’islam, come quella che avrebbe permesso alle donne di portare il velo nelle università. L’altro grande scoglio è costituito dall’esercito. Per la tradizione turca, i militari sono i custodi del kemalismo, ma la loro fama è crollata negli ultimi anni a causa di una serie di scandali che hanno coinvolto i massimi esponenti delle Forze armate. In primavera, la polizia ha arrestato una cinquantina di ufficiali che sarebbero coinvolti in un piano per rovesciare il governo. Anche per questo, il sostegno popolare nei loro confronti è più basso rispetto al passato e pochi vedrebbero positivamente un’operazione come quella di Sincan. In otto anni di potere, l’Akp è riuscito a ridurre l’influenza dei kemalisti sulle istituzioni, ma la svolta più grande è quella che riguarda la politica internazionale, cominciata quando Ahmet Davutoglu è stato scelto per guidare il ministero degli Esteri. Davutoglu è nato a Konya, nella parte centrale dell’Anatolia, e ha costruito la propria reputazione all’Università Bilkent di Istanbul. Siede fra i ministri del governo da meno di un anno, ma ha sempre avuto un ruolo decisivo nello staff di Erdogan. La sua dottrina è scritta in un libro, “Profondità strategica”, che ispira ogni mossa dell’Akp. Il principio guida ha una logica netta: per acquisire peso sulla scena internazionale, Ankara deve risolvere i conflitti nel “cortile di casa”. Si tratta di una regola scontata per la maggior parte dei paesi europei, ma i vicini della Turchia sono l’Iran, l’Iraq e la Siria. “Negli anni della Guerra fredda eravamo la periferia del mondo e dovevamo usare la forza per difendere i nostri confini – dice al Foglio Rashat Arim, un collega di Davutoglu alla Bilkent – Oggi abbiamo un nuovo ruolo e gli strumenti necessari ad allargare la nostra influenza. Israele è sempre nostro alleato, ma questo non significa che non possiamo criticarlo. Siamo l’unico paese d’Europa in grado di trattare con tutti: l’occidente non può fare a meno di noi”. Davutoglu ha un grande merito, quello di avere descritto le nuove ambizioni del dapaese al momento giusto, ma le radici del processo sono lontane. Carlo Frappi, un esperto dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), dice al Foglio che “la svolta turca è cominciata quindici anni fa, molto tempo prima che l’Akp nascesse. Il paese è stato a lungo una specie di ponte fra l’Europa e il medio oriente, ma questa metafora non è adeguata ai nostri tempi. Oggi il governo turco non vuole unire due periferie: vuole essere il centro”. L’ascesa di Davutoglu ha molte cose in comune con quella di un altro ministro turco, Ismail Cem, che è stato in ufficio alla fine degli anni Novanta. Cem era un giornalista brillante passato al governo con la tessera del Demokratik Sol Parti (Dsp), un movimento di centrosinistra. Anche lui sosteneva l’esigenza di avere buone relazioni con i paesi di confine per migliorare lo status della Turchia sul piano internazionale. Nel 1999 è volato su un’isola greca per incontrare il collega di Atene, George Papandreou: erano anni che i due paesi non avevano incontri ufficiali. L’operazione ha portato grande popolarità a Cem, e ha permesso al suo governo di ottenere il via libera per l’iter di adesione all’Ue, ma non ha salvato il ministro dagli intrighi di palazzo. Nel 2002, Cem ha dovuto lasciare il Dsp per un contrasto con il leader del partito e ha lasciato la carriera politica poco tempo più tardi. Secondo Ian Lesser, un analista del German Marshall Fund, il parallelo fra l’epoca di Cem e l’era Davutoglu serve a comprendere un principio: la politica estera della Turchia non dipende soltanto dal partito che governa. “Non credo che le cose sarebbero diverse se al potere ci fosse il Chp – spiega al Foglio – Probabilmente, altri leader adotterebbero toni diversi rispetto a quelli di Erdogan, mostrerebbero meno trasporto per la causa della Palestina o per il dossier iraniano, ma l’approccio sarebbe più o meno lo stesso. Il paese ha una grande fiducia in se stesso e vuole un ruolo di leadership nella regione. E’ una richiesta che arriva dall’opinione pubblica, a prescindere dal partito che ha la maggioranza”. In Turchia, nessun movimento filo islamico è rimasto al potere quanto l’Akp. I suoi antenati, a partire dal Partito del benessere di Erbakan, sono scomparsi in fretta per l’intervento dei giudici o dei militari. I poteri di questi due organismi potrebbero diminuire ancora il 20 settembre, quando i cittadini decideranno il futuro della riforma costituzionale che ha già superato l’esame del Parlamento. Il governo ha scelto una data particolare per il referendum: lo stesso giorno del 1980, l’esercito turco portò a termine l’ultimo vero golpe nella storia del paese, niente a che vedere con i fatti di Sincan. Quella volta, i generali rimasero al potere per tre anni.
Il FOGLIO - Margherita Belgiojoso : " Il nuovo capo dell’intelligence turca è un altro colpo al già abbacchiato esercito "
Hakan Fidan, nuovo capo dell'intelligence turca
Istanbul. Il pericolo è il suo mestiere, e Hakan Fidan, 42 anni, ancirano di nascita, neocapo dei servizi segreti di Turchia, non ha l’aria di chi si tira indietro. La sua carriera inizia ventiquattro anni fa, quando serve come sergente nell’esercito turco. Vi rimane 15 anni, e intanto lavora alla Nato in Germania, poi studia Management e Scienze politiche in un’Università del Maryland, e consegue master e dottorato alla prestigiosa Università Bilkent di Ankara. Ma il giovane Fidan già guarda ai servizi, visto che sceglie come argomento della tesi proprio un confronto tra i sistemi di intelligence americano, britannico e turco. Brillante e determinato, il minimo cui può aspirare, con un curriculum così, è la direzione dell’Agenzia turca per lo Sviluppo e la cooperazione (Tika), uno degli strumenti strategici della diplomazia turca. Obiettivo principale: ampliare l’influenza di Ankara su paesi vicini e lontani. La Tika cresce, conquista i vuoti dell’Africa lasciati liberi dalle potenze occidentali, s’infiltra in quel territorio turco per vocazione a sud dell’impero sovietico in frantumi. In pochi anni Fidan sa tutto degli interessi turchi all’estero, finché il premier, Recep Tayyip Erdogan, non lo nomina suo sottosegretario. Continua a viaggiare, questa volta assieme a Ahmet Davutoglu, oggi ministro degli Esteri. Se proprio a quei tempi sia nata quella che i media occidentali hanno battezzato la politica estera “neo ottomana” non si sa, fatto sta che Fidan già allora spiegava ai suoi che la Turchia era il naturale mediatore tra Iran e occidente. Dalla primavera 2010 il suo nome circola come candidato al vertice dei servizi: il 26 maggio è stato ufficialmente nominato. La maggioranza dei giornali turchi vede positivamente la sua nomina, convinta che possa contribuire positivamente alla trasformazione del Mit. Sua missione principale dovrebbe essere la creazione di un ramo internazionale che si occupi di intelligence all’estero, e lo scorporo di un ramo nazionale dedicato al terrorismo interno. Ma con un curriculum così non sfugge a nessuno quale sarà il più grande grattacapo di Fidan: è un esterno, e nel sistema Turchia, fortemente gerarchico, basato su legami tra famiglie, associazioni, scuole e circoli, il signor Fidan è chiaramente un outsider. Un secchione. In più, esterofilo. Dovrà combattere con la resistenza, passiva e attiva, di chi la riforma non la vuole, e le critiche di chi lo considera inadatto. Fidan sa tutto di tecnologie e trattati internazionali, ha vissuto sui laghi di Ginevra e assaggiato le torte di Vienna, ma potrebbe ignorare una delle questioni che le spie di Turchia devono conoscere a menadito: il dossier curdo. Il confronto col suo predecessore sarà bruciante, in quanto Emre Taner a Diyarbakir è nato, e sotto la sua leadership la gestione del problema curdo è diventato il fiore all’occhiello del Mit. C’è anche un altro problema: il neodirettore è un civile in un’organizzazione che tradizionalmente è guidata da militari. Secondo gli analisti la nomina di Fidan è un altro colpo al potere dell’esercito da parte del partito al governo. Un’altra mossa nella partita, che dura da anni, e che vede i due fronteggiarsi per il controllo del paese. Poter contare sulla fedeltà del capo del Mit significa sapere che nessun kompromat uscirà dai cassetti sbagliati al momento sbagliato: cosa che qui, dove si è appena dimesso il capo del partito kemalista a causa di un video erotico, è roba di tutti i giorni. C’è anche la vicenda Ergenekon, uno scandalo che angustia da anni il paese, con personaggi molto in vista invischiati in pesanti accuse eversive. In più le implicazioni della nomina di Fidan in politica estera danneggiano gli interessi dell’esercito: sembra che Fidan appoggiasse l’operazione della Peace flotilla a Gaza, e che spinga per una linea dura con Israele. L’amicizia con Gerusalemme è invece una pietra miliare dell’attività dell’esercito, che con gli israeliani ha sempre condiviso tutto. La crisi di questi giorni significa dire addio a esercitazioni congiunte. Addio alla preziosa tecnologia militare israeliana, addio allo scambio di intelligence. E quindi un ulteriore indebolimento del già battagliato esercito.
Per inviare la propria opinione a Corriere della Sera e Foglio, cliccare sulle e-mail sottostanti