Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 10/06/2010, a pag. 13, l'articolo di Francesco Semprini dal titolo " Sanzioni all'Iran: il sì dell'Onu ", l'articolo di Marta Ottaviani dal titolo " Ankara insiste: abbiamo perso un'occasione ", preceduto dal nostro commento, a pag. 1-37, il commento di Vittorio Emanuele Parsi dal titolo " Ma ancora una volta ha vinto Teheran ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 42, il commento di Franco Venturini dal titolo "Sanzioni all'Iran poco efficaci se non colpiscono l'alleato cinese ".
Ecco gli articoli:
La STAMPA - Francesco Semprini : " Sanzioni all'Iran: il sì dell'Onu "

Onu
Nuovo giro di vite nei confronti del governo iraniano. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato ieri una serie di sanzioni con l’intento di convincere Teheran a desistere dallo sviluppo di piani nucleari a scopo militare. Le misure contenute nella risoluzione 1929, la quarta dal 2006, sono state approvate da 12 dei 15 membri. Hanno votato contro Brasile e Turchia, il Libano si è astenuto.
Secondo Susan Rice, ambasciatrice Usa all’Onu, l’Iran è «obbligato a comportarsi in modo più saggio». «Non vediamo nelle sanzioni uno strumento efficace in questo caso», avverte invece Maria Luiza Ribeiro Viotti, l’ambasciatrice brasiliana. Le fa eco il collega turco Ertugrul Apakan, secondo cui l’accordo che Ankara e Brasilia avevano siglato in maggio con Teheran «rappresentava il vero inizio di una road map iraniana», mentre le sanzioni rischiano di avere effetti controproducenti.
La 1929 parte dalla premessa che l’Iran non ha adempiuto alla richiesta di «sospendere in maniera chiara e prolungata le attività di arricchimento», e prende atto dei tentativi di mediazione di Turchia e Brasile, che tuttavia rischiano di essere un modo per far guadagnare tempo a Teheran. Il Cds chiede alla Repubblica islamica di «sospendere tutte le attività legate all’arricchimento di uranio» così come le «attività commerciali di estrazione mineraria in altri Stati». Sul lato delle sanzioni la risoluzione prevede l’embargo per armamenti pesanti, ovvero «carri armati, veicoli corazzati da combattimento, sistemi di artiglieria pesante, aerei da combattimento, elicotteri, incrociatori e sistemi missilistici», in particolare quelli «che hanno la capacità di trasportare testate nucleari».
La risoluzione autorizza, ma non obbliga, ispezioni in alto mare, di cargo in entrata o uscita dal Paese. Inoltre nella lista di individui sanzionati con il congelamento dei beni e il divieto dei viaggi viene inserito il nome del capo del centro di Isfahan dell’agenzia atomica iraniana Javad Rahiqi, 56 anni, e tra gli enti 40 società, tra cui 22 legate ad attività nucleari o balistiche, 15 ai Guardiani della Rivoluzione e tre del trasporto marittimo. Viene creata una commissione di otto esperti, con un mandato iniziale di un anno, per raccogliere informazioni sulle attività atomiche dell’Iran e sulle eventuali violazioni. Dopo 90 giorni l’Aiea dovrà fornire un primo rapporto sulle centrali iraniane.
Sono le sanzioni più pesanti «che l’Iran abbia mai visto», dice il segretario di Stato Usa Hillary Clinton, mentre la Rice sebbene parli di «impatto reale sull’economia del Paese», precisa che non si tratta di misure rivolte a punire la popolazione. «Gli Usa restano aperti al dialogo», avverte il presidente Barack Obama. Secondo la Cina lo scopo delle sanzioni è di far tornare Teheran al tavolo dei negoziati, nell’ambito dei lavori del 5+1. L’appoggio di Pechino è stato fondamentale ed è arrivato dopo un negoziato delicato in cui ha preteso il depennamento dalla lista nera di molte banche, inclusa la Banca Centrale iraniana. La Russia, in passato scettica sulle sanzioni, ha parlato di «una misura obbligata», mentre l’alto rappresentante della politica estera della Ue, Catherine Ashton, assicura di essere pronta a incontrare il negoziatore iraniano sul nucleare Said Jalili.
Dura la risposta di Teheran: il presidente Mahmoud Ahmadinejad parla di «risoluzione spazzatura», mentre l’ambasciatore presso l’Aeia Ali Asghar Soltanieh assicura che l’arricchimento continuerà. Il collega all’Onu Mohammed Khazai, dopo una lunga requisitoria sulle ingiustizie subite negli ultimi decenni dall’Iran, dice di essere sorpreso di vedere l’aula così affollata e tanta gente interessata all’Iran. «Tutto ciò mi ricorda la partita dei Mondiali del 1998, tra Iran e Stati Uniti»: quella sera di giugno a Lione la nazionale della Repubblica islamica vinse per 2 a 1.
La STAMPA - Marta Ottaviani : " Ankara insiste: abbiamo perso un'occasione "

Erdogan
Ricordiamo a Marta Ottaviani che la capitale di Israele è Gerusalemme, non Tel Aviv. Sennò dovrebbe scrivere Istanbul e non Ankara.
Tutto il pezzo è sbilanciato a favore della Turchia, come se Ottaviani l'avesse scritto per ottenere l'approvazione di Erdogan. Non è ben chiaro il motivo, dato che la Turchia si è appena schierata a favore del nucleare iraniano e continua ad attaccare Israele, unica democrazia del Medio Oriente.
Consigliamo alla Otavviani di leggersi il pezzo di Parsi, sempre sulla STAMPA, così ne capisce un po' di Turchia.
Invitiamo i lettori di IC a scrivere alla Stampa (direttore@lastampa.it ) per chiedere spiegazioni circa la deriva filo islamica della corrispondente dalla Turchia.
Ecco l'articolo:
La Turchia è preoccupata che la decisione del Consiglio di sicurezza possa nuocere agli sforzi diplomatici e alla finestra di opportunità per una soluzione pacifica sulla questione del programma nucleare iraniano». Così Ankara giustifica il suo no, con il timore che le sanzioni possano portare a una radicalizzazione del contenzioso piuttosto che alla sua soluzione come invece ha cercato di fare l’iniziativa turco-brasiliana. Da tempo il premier turco, Recep Tayyip Erdogan, diceva che nuovi provvedimenti restrittivi non erano il modo migliore per risolvere la situazione e aveva auto-candidato la Turchia come mediatore per raggiungere un accordo.
Il no turco è stato l’unico voto contrario insieme con quello del Brasile. Il Libano, l’altra voce mediorientale nel Consiglio di Sicurezza di ieri, ha scelto l’astensione. Ad andare contro sono stati quindi solo i due Stati che il 17 maggio scorso avevano firmato con l’Iran un’intesa che prevedeva lo scambio di uranio leggermente arricchito con combustibile nucleare, in modo tale che Teheran potesse continuare il suo programma di sviluppo a fini civili, senza preoccupare la comunità internazionale. Ma l’accordo non ha convinto né Washington, che al contrario caso mai ne è stata infastidita, né gli altri stati con diritto di veto al Consiglio di Sicurezza Russia, Cina, Gran Bretagna e Francia che hanno fatto sapere ieri all’Aiea di non approvarlo.
Troppo perché la Turchia potesse sopportare. L’accordo, nei piani di Ankara doveva non solo porre fine in modo indolore al problema del nucleare iraniano, ma anche lanciare definitivamente la Turchia nel novero delle grandi potenze internazionali. L'intesa era stata salutata dai media del Paese della Mezzaluna come «storica», solo dopo qualche giorno ci si è resi conto che Ankara e Brasilia stavano correndo da sole. Con la scelta di mirare a nuove sanzioni il governo Erdogan ha visto i suoi sforzi non riconosciuti, quasi ignorati e si è comportato di conseguenza.
Il problema ora è capire quale sarà il prossimo passo di questa escalation. A impensierire Washington soprattutto ci sono i rapporti fra Ankara e Tel Aviv. Il ministro della Difesa americano Robert Gates, da Bruxelles, si è detto «preoccupato» per la situazione e non ha tutti i torti. Ieri il premier turco Erdogan, prima dell’annuncio delle sanzioni, è tornato a puntare il dito sul nucleare israeliano. «La comunità internazionale, che dimostra una legittima sensibilità sul pericolo che l’Iran si doti di armi nucleari, dovrebbe avere la stessa reazione al fatto che altri paesi della regione abbiano questo tipo di armi», ha detto il premier, che poche settimane fa si era già scagliato contro il nucleare israeliano anche durante un’intervista con la Bbc.
Non solo. Sempre ieri la Turchia è tornata a definire «insufficienti» le misure adottate sulla Striscia di Gaza per allentare l’embargo, dove ora è consentito l’ingresso di alcuni generi alimentari e per la cura della persona. Anche da parte israeliana non sembrano propensi a una riconciliazione con la Mezzaluna. Il ministro degli Esteri di Israele, Avigdor Lieberman,ha parlato di politica anti-israeliana del governo di Ankara, spiegando che non ci sono i margini per una riconciliazione e aggiungendo che questa «svolta profonda» riguarda non solo il governo ma anche la società turca.
La STAMPA - Vittorio Emanuele Parsi : " Ma ancora una volta ha vinto Teheran "

Vittorio Emanuele Parsi
Alla fine il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha approvato il quarto round di sanzioni nei confronti dell’Iran. Almeno due considerazioni meritano di essere svolte: la prima in ordine a chi non le ha votate, la seconda circa la loro possibile efficacia. Come avevano peraltro anticipato, né Brasile né Turchia hanno appoggiato l’inasprimento delle sanzioni. E’ la conferma che sulla questione della proliferazione nucleare il punto di vista euro-americano fa sempre più fatica a imporsi e ad attrarre consensi. Annacquandone molto l’asprezza, Washington è riuscita a portare dalla sua parte Cina e Russia, che con Parigi e Londra appartengono al ristretto club delle potenze nucleari «legittime» e detengono il potere di veto in Consiglio; ma non un Paese amico e grande potenza emergente (come il Brasile) e neppure un alleato e sedicesima economia mondiale (come la Turchia).
Da un punto di vista più generale, siamo alla replica, appena attenuata, della frattura che si produsse in Consiglio di Sicurezza diversi anni fa, in occasione della decisione occidentale di combattere in Kosovo contro la Serbia di Milosevic. Allora non si andò al voto proprio perché Cina e Russia, ma anche Brasile e India fecero pubblicamente sapere che avrebbero fatto mancare il loro appoggio. Allora proprio l’opposizione delle due «grandi democrazie del Sud» fece più scalpore della scontata opposizione russo-cinese. Era il primo scricchiolio di un ipotetico fronte comune delle democrazie del pianeta di fronte alle sfide del mondo post-bipolare. Oggi il diniego brasiliano e turco quasi «oscura» l’accordo raggiunto fra i 5 Grandi, e testimonia la rapida erosione del soft power degli Usa (nonostante Obama, ma qualcuno inizia a pensare anche grazie a Obama) e la crescente de-occidentalizzazione del sistema internazionale.
Più in particolare, desta scalpore la presa di posizione turca, perché costituisce l’ennesimo strappo rispetto alla solidarietà atlantica e occidentale su un tema quale la sicurezza collettiva degli Stati membri e i rischi a cui essa è esposta dalla proliferazione nucleare e dalla perdita di prestigio degli Usa. Ancorché la proliferazione non sia di stretta competenza della Nato, proprio il documento elaborato il 17 maggio di quest’anno dal cosiddetto «Comitato dei saggi» - costituito per ridefinire il nuovo «concetto strategico dell’Alleanza», adeguandolo al mutamento dello scenario internazionale - indicava nella proliferazione nucleare una minaccia maggiore, e nella capacità della Nato di fornire risposte efficaci e condivise un test decisivo di adeguatezza. A neppure una settimana dal pasticcio della «freedom flotilla», la Turchia compie un altro passo che la colloca oggettivamente ai margini dell’Alleanza e ne accredita la sempre più blanda appartenenza allo «schieramento occidentale».
Tutto ciò accade a meno di 24 ore dall’annuncio iraniano di voler impiegare proprie unità navali «civili» in un nuovo pericolosissimo tentativo di forzare il blocco di Gaza: un’operazione che salda, per mano iraniana, la vicenda di Gaza con quella del programma nucleare di Teheran. Un incidente tra unità israeliane e iraniane al largo di Gaza sarebbe di per sé già gravissimo, perché materializzerebbe lo spettro israeliano di dover fronteggiare la possibile minaccia iraniana su due fronti: in Libano attraverso Hezbollah, e a Gaza attraverso Hamas. In una simile prospettiva la possibilità che Israele non decida un’azione contro l’Iran prima che esso divenga una potenza nucleare dipende solo dall’efficacia delle sanzioni approvate ieri. Ed ecco il secondo punto della nostra analisi. Le nuove sanzioni non sono quelle che gli Stati Uniti auspicavano: erano il massimo che si poteva ottenere, ma il massimo è probabilmente meno del minimo necessario. Esse non colpiscono i veri interessi vitali dell’Iran (idrocarburi), né impediscono all’Iran di aggirare i vincoli internazionali vecchi e nuovi. Finora il governo iraniano ha dimostrato di essere disposto a pagare (e far pagare al suo popolo) un prezzo economico alto in cambio di un ricavo politico ritenuto maggiore. Se non si modifica tale trade-off (e non mi pare che le nuove sanzioni lo facciano), Ahmadinejad non ha ragione di cambiare politica.
È una lotta contro il tempo, in cui le carte buone le ha l’Iran e il tempo gioca a suo favore. Tra l’altro, sanzioni inefficaci non sono solo inutili, ma anche dannose, perché fanno il gioco del regime, alimentando la mentalità da stato di assedio che lo aiuta a radicalizzare il clima interno e massacrare le opposizioni (solo nella giornata di ieri ci sono state 15 impiccagioni). Colpisce, infine, il fatto che gli Usa sembra non riescano a capire se è possibile (e se conviene loro) trasformare il proprio ruolo di protettori di un ordine mediorientale (sempre più fragile) fondato sul predominio israeliano in quello di garante di un nuovo ordine più equo e stabile, ma forse impossibile da raggiungere in queste condizioni.
CORRIERE della SERA - Franco Venturini : " Sanzioni all'Iran poco efficaci se non colpiscono l'alleato cinese "

Franco Venturini
La politica, soprattutto quando viene fatta all’Onu, somiglia alle illusioni ottiche. Con le sanzioni più severe approvate contro Teheran, i programmi nucleari iraniani dovrebbero trovarsi con le spalle al muro. La realtà è invece che l’Iran, pur avendo ricevuto un ulteriore colpo, sembra perfettamente in grado di procedere con l’arricchimento dell’uranio senza strapparsi troppi capelli. Con il risultato di spingere la comunità internazionale (a cominciare da Israele) verso il last resort che si voleva evitare: l’uso della forza. Intendiamoci, nessuna delle restrizioni approvate dal Consiglio di Sicurezza potrà far piacere agli iraniani. La vita diventerà più difficile per i Guardiani della rivoluzione, molti commerci dovranno trasformarsi in contrabbando, sarà più difficile comprare armi convenzionali, le navi dovranno fare i conti con più controlli. Ma Teheran è da tempo attrezzata per far fronte a questi inconvenienti, e il grosso dell’economia iraniana esce quasi indenne dalle nuove sanzioni.
La spiegazione c’è. Dopo aver abbandonato la sua strategia della mano tesa, Barack Obama ha voluto recuperare prestigio (e rintuzzare le ambizioni degli emergenti Brasile e Turchia) portando la Russia e la Cina ad appoggiare le sanzioni. Così Mosca e soprattutto Pechino hanno potuto barattare il loro voto con un sostanziale svuotamento delle sanzioni. La Russia, che ha in Iran interessi rilevanti, ha smussato tutto quel che poteva minacciarli. La Cina, che importa dall’Iran l’11 per cento del suo fabbisogno petrolifero e intrattiene con Teheran un flusso di scambi in rapida crescita, ha fatto escludere dalle sanzioni il settore energetico, l’unico che avrebbe potuto rendere Teheran davvero vulnerabile.
Obama, a conti fatti, ha pagato un alto prezzo nel tentativo di riaffermare la leadership americana e di far schierare contro l’Iran tutti i membri del Consiglio di Sicurezza dotati del diritto di veto. Mentre Ahmadinejad, in quella che sembra essere una coerente richiesta di attacco finalizzata al suo potere personale, avrà gioco ancor più facile nell’alimentare la sua intransigenza e le sue ricorrenti docce scozzesi diplomatiche. Resta una possibilità, ed è qui che forse il testo varato ieri può rappresentare un successo. Gli Usa e l’Europa, separatamente e fuori dalla cornice Onu, possono far riferimento alla risoluzione per colpire davvero dove ieri si è dovuto glissare: l’energia, la Banca centrale, i commerci, la finanza. Ma prendere di petto il settore energetico, per dirne una, vorrebbe dire colpire conclamati interessi cinesi, e non più soltanto iraniani. Lo si farà egualmente? La vera partita è ancora aperta, e le opzioni dell’Occidente sono sempre di meno.
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