Acquario verde Avraham Sutzkever
a cura di Marisa Ines Romano
Giuntina Euro 14
Il tramonto stria di tinte tenui il cielo dolente. E’ ormai quasi notte sul mar Rosso, “Quando vengono/al palazzo d’acqua – innocenti e rosati / i nobili cervi a calmare la sete”. Chissà da dove arrivano in cerca di frescura, “con visi lunghi a forma di violino”. S’abbeverano, e al poeta basta osservarli per abbandonarsi a una quiete che sconfina nella smemoratezza.
Eppure qualcosa non torna. Come mai i cerbiatti devono acqua salata? Ed è mai possibile che il sole tramonti sul Mar Rosso che, visto da Israele, si stende a Sud?
Sono solo un riflesso, le bestiole, che “lasciano le seriche ombre sul bordo / e leccano in riva al Mar Rosso i cerchi di frescura”. Hanno fatto un lungo viaggio, dai boschi della Lituania e forse ancor più lontano, dalla Siberia dell’infanzia. Oppure no, giungono da una terra vicinissima ma irraggiungibile, dal paese dei morti, “leccano il silenzio di quelli che non sono più qui”.
In questa, che è una delle più belle poesie del Novecento, la natura è a un tempo promessa di consolazione e cifra tragica di spaesamento. Sono parole leggere-pesanti nella loro materia, il nucleo tedesco ricoperto da lava semitica. Avraham Sutzkever, morto a novantasette anni all’inizio del 2010, era forse l’ultimo sommo cantore yiddish.
Dalla Bielorussia, in cui era nato nel 1913, a Vilna, dove riuscì a sopravvivere all’occupazione nazista e anzi divenne eroe della resistenza, allo Stato ebraico, in cui emigrò nel 1947, Sutzkever s’inoltrò in un itinerario biografico affollato di sconfitte e dolorose separazioni. Fu soprattutto un demiurgo della parola, troppo esteta per piacere davvero ai sovietici, abbastanza orgoglioso per non piegarsi alla rassegnazione anche durante i giorni più cupi della Shoah, testardo nel restare fedele al suo yiddish in un Israele sempre più immerso nell’ebraico.
Sostantivi che si animano trasformandosi in verbi, e verbi che, al contrario, s’irrigidiscono in nomi, vitree paludi scosse dal grido rauco di uccelli e da secche raffiche di mitragliatrice, e poi una febbrile sensibilità cromatica: “regns fun farbn un lumen”, piogge di colori e fiori – come recita il titolo di una sua poesia – che ammantano indifferentemente amore e orrore.
Anche Acquario verde, poema in prosa tradotto impeccabilmente da Marisa Ines Romano, scende per la via dei colori verso il perduto per sempre. Il nemico è quello strano gaglioffo dell’angelo della poesia, che dev’essere fratello o compare dell’altro ceffo, l’angelo della morte. Come Orfeo, Sutzkever sa di non potersi voltare indietro, e per questo, quando decide di farlo, è consapevole che i suoi versi andranno in mille frammenti. A noi non resta che raccogliere schegge iridescenti di suono.
Giulio Busi
Il Sole 24 Ore