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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera-Il Giornale Rassegna Stampa
03.06.2010 E in Turchia ? Sapevano tutto, Erdogan il regista
Analisi di Danielle Sussmann, Davide Frattini, Gian Micalessin

Testata:Corriere della Sera-Il Giornale
Autore: Danielle Sussmann-Davide Frattini-Gian Micalessin
Titolo: «Il boomerang della trappola islamista turca-Quei droni israeliani usati da Ankare contro i ribelli curdi- Volevano fare i martiri, in Turchia lo sapevano tutti»

E la Turchia ?  Apriamo con l'analisi di Danielle Sussmann, lunga ed accurata sui rapporti internazionali dopo Gaza, segue Davide Frattini sul CORRIERE della SERA di oggi, 03/06/2010, a pag. 2. Dal GIORNALE Gian Micalessin racconta quello che tutti dovrebbero sapere se i giornaloni non fossero caduti, loro si, nella trappola sentimentale che si associa alla parola "pacifista".
Ecco gli articoli:

Informazione Corretta- Danielle Sussmann: " Il boomerang della trappola islamista turca "

Addio Turchia laica di Ataturk !

Il boomerang della trappola islamista turca Sembrava difficile, a caldo, vedere uno spiraglio di luce nel tragico sviluppo causato dai ‘pacifisti’ del movimento “Free Gaza” e della guerriglia criminale pianificata sulla Mavi Marmara. Scoramento per quella che appariva ancora come essere una spaventosa sconfittta politica per Israele.
L’esplosione dell’odio contro Israele, a lungo trattenuto, ha nuovamente contaminato le solite piazze islamiste ed occidentali estremiste dalle forti venature antisemite.
La propaganda antisraeliana che si nutre d’ignoranza e della negazione dell’evidenza, fondamenti indispensabili per l’indottrinamento ideologico, aveva già pianificato la sua reazione perché già era stata pianificata la tragedia. Il dubbio non riguardava la certezza che questa avvenisse, ma il come. Israele è riuscito a contenerla, limitandola.
Ma procediamo con ordine.
Ancora una volta i più noti intellettuali israeliani, da Amos Oz a A.B.Yehoshua a David Grossman, hanno perso l’occasione per tacere in attesa di superare il momento emotivo. Non si chiede ad artisti e scrittori di essere analisti politici e geopolitici. Non si pretende da loro che vadano a verificare prima di sentenziare. Ma è lecito chiedere che attendano le verifiche, seguano le inchieste, prima di esprimere le loro opinioni che pesano pubblicamente come macigni, creando inoltre derive antisemite.
Secondo l’adagio: se un ebreo (o un israeliano) condanna Israele, allora sono nel giusto se lo faccio anch’io. Nessuna stupidità da parte di Israele, né assenza di intelligence. Israele è un Paese di fatto assediato da un conflitto voluto unicamente dai suoi vicini. Israele non è patologicamente affetto da paranoia: i suoi nemici sono reali. Israele si è trovato nella classica emergenza con due vie d’uscita: ha cercato il minor male, costretto a mettere a rischio i suoi soldati.
Chi ha contestato la pura azione di polizia israeliana ed invocato – con il classico senno del poi – un intervento massiccio dell’esercito, adducendo tale logica al timore del governo israeliano di doversi confrontare con un conflitto armato poi avvenuto, non si è reso conto che per il diritto internazionale, tali timori devono essere accertati con le prove e non presunti.
Una massiccia presenza dell’esercito o della Marina israeliana – su questo contava il governo turco – sarebbe stata volutamente interpretata come una dichiarazione ostile alla Turchia, considerate le già critiche relazioni. Con esiti politici devastanti per il futuro delle relazioni turco-israeliane ed anche per il solo Israele, perché il conflitto ci sarebbe stato comunque visto che un certo numero di partecipanti erano armati, ma questi ultimi avrebbero potuto invocare una qualsivoglia legittima difesa.
Sarebbe passato in secondo piano che una missione che si dichiarava umanitaria fosse armata. L’affaire Flottiglia si aggiunge ad altri innumerevoli tentativi finalizzati a distruggere lo Stato Ebraico o la sua immagine, dalle guerre al terrorismo fino alla propaganda politica.
Senza dimenticare la minaccia nucleare iraniana. Israele non poteva bloccare in mare aperto le navi turche, né le altre della missione “umanitaria”, tutte finanziate dalla consorella turca dei Fratelli Musulmani, la Ihh. Senza l’assenso del governo turco – con tanto di reazione antisraeliana guidata delle sue piazze – una missione politica (di fatto) e di tale portata non poteva essere organizzata. Ipocrita la motivazione umanitaria, per varii motivi, ma il più eclatante è che se fosse stata vera, la Flottiglia non avrebbe avuto motivo di forzare il blocco navale israeliano, ma puntare tranquillamente sull’egiziana Rafa.
L’Ihh e i suoi sodali, oltre a chi ingenuamente (ma pur sempre indottrinato contro Israele) ha aderito a tale iniziativa, cercava solo lo scontro con Israele certo di conseguenze politiche penalizzanti a caldo per lo Stato ebraico. E per due giorni l’abbiamo temuto in tanti.
Netta e chiara è stata la posizione del Ministro Ronchi che offriva ad Israele: non il banco degli imputati, ma la piena garanzia all’accusato a potersi difendere legittimamente. E il governo italiano, pur se titubante in un primo momento, ha dato una grande prova di coerenza e di coraggio nell’opporre il suo no all’ipocrita proposta d’inchiesta delle Nazioni Unite. Gli Stati Uniti – salvo quella che potrebbe essere solo un’esaltata titolazione di un quotidiano online su una pretesa dichiarazione/affondo di Hilary Clinton ad Israele, nell’esortarlo a togliere subito il blocco a Gaza – hanno offerto anch’essi piena fiducia ad Israele nel chiedergli di chiarire quanto successo, ma hanno anche condannato l’intenzione di forzatura del blocco navale israeliano da parte della Flottiglia, la plateale provocazione nel portare aiuti umanitari e la violenza di alcuni suoi partecipanti.
Perché la Turchia di Erdogan ha dato il semaforo verde all’Ihh per l’organizzazione della Flottiglia internazionale pro-Hamas? L’Ihh è segnalato nella lista nera del terrorismo USA; fu indagato ed emarginato dai precedenti governi laici turchi; è noto come la consorella turca dei Fratelli Musulmani; più volte suoi aderenti sono stati espulsi da Israele perché intercettati a contrabbandare armi per Gaza.
Possibile che le personalità politiche presenti e il Premio Nobel irlandese non si fossero precedentemente informati su chi legittimavano e di cui diventavano complici partecipando a quella missione filo-terrorista? All’irlandese Maired Corrigan-Maguire, non importa e lo dimostra tornando a sfidare la coerenza umanitaria. E meno male che ha ottenuto il Premio Nobel per la Pace! Le saranno davvero grati i palestinesi della Striscia di Gaza che vivono sotto il giogo di Hamas!
Se l’affaire Flottiglia dovrà avere necessarie ripercussioni sulle reali motivazioni umanitarie di certe organizzazioni, la più importante a parer mio riguarderà la Turchia di Erdogan.
Di fatto, la complicità del suo governo con l’Ihh e l’azione di guerriglia perpetrata a danno dei marinai israeliani che eseguivano una legittima azione di polizia, appare come un’azione “disperata” dell’attuale governo di Ankara che, nella sua tardiva avventura pan-islamica non può evitare la ricerca di un’ancor più ampia legittimazione islamista, e si è esposto in modo politicamente suicida. Non è stata certo priva di conseguenza la decapitazione dei vertici militari turchi. Né l’esercito – garante della laicità turca con buona parte della Turchia geopoliticamente europea – l’ha digerita. Anzi: il nodo centrale per il governo di Ankara è proprio questo.
La Ue ha preteso dalla Turchia alcune norme giuridiche e politiche per consentirle l’accesso nell’Unione.
Tra queste, l’abolizione del potere all’esercito.
Un’aberrazione che si è rivelata penalizzante per le relazioni turco-europee, e ha offerto ad Erdogan e al suo partito islamico il pretesto per affermarsi e puntare ad una nuova strategia politica islamica in Asia (grazie anche alla dissoluzione dell’Unione Sovietica) e Medio Oriente.
E’ per i sostegni ricevuti nel rafforzarsi in questo senso che Erdogan non poteva esimersi dal pagare il prezzo del ricatto islamista pro-Hamas? ha creduto che fosse l’occasione giusta – grazie alla legittimazione internazionale di chi ha partecipato alla missione – per affermare ancor più il suo potere in Turchia, cercando l’incidente internazionale per poi sollevare ad arte le piazze islamiche contro Israele?
In entrambi i casi, ritengo che Erdogan abbia fallito. Non potrà nascondere a lungo le responsabilità del suo governo a fronte di un’inchiesta internazionale imparziale e trasparente. Peggio ancora, non potrà più legittimare in ambito nazionale le sue politiche contro l’esercito turco visto che meno che mai oggi la Turchia – con le sue derive islamiste - può ambire ad entrare nell’Unione Europea.
Mi attendo un colpo di stato in Turchia causato dai conflitti con l’esercito, dalle minacce all’interrruzione della decennale quanto reciprocamente vantaggiosa collaborazione economico-militare turco-israeliana ed – ultima goccia – dalla suicida complicità del governo turco nella missione pro-Hamas che sposta la Turchia nel nucleo dei paesi sostenitori del terrorismo. Un boomerang per l’appunto.
Danielle Sussmann

 Corriere della Sera- Davide Frattini: " Quei droni israeliani usati da Ankare contro i ribelli curdi"

ISTANBUL— I politici minacciano, i generali si telefonano. In nome di un’intesa strategica che (per ora) i due Paesi non vogliono vedere affondare al largo di Gaza. La crisi diplomatica non ha fermato i contatti tra Ilker Basbug, capo di stato maggiore turco, e il parigrado israeliano Gabi Ashkenazi, che si sono sentiti a poche ore dall’arrembaggio delle forze speciali. Perché la relazione è proficua: le industrie israeliane vendono, il ministero della Difesa ad Ankara compra. Tecnologia avanzata, armi, istruttori.

L’accordo di cooperazione militare firmato nel 1996 sembra blindato, anche se ieri il parlamento ha approvato (per alzata di mano) un documento che chiede al governo di Recep Tayyip Erdogan la revisione di tutti i rapporti con Israele. Il valore dei tredici progetti condivisi in questi anni ha toccato i due miliardi di dollari. Sei sono ancora da completare e Vecdi Gonul, ministro della Difesa, si è affrettato a precisare lunedì che la Turchia attende la consegna degli ultimi droni prenotati e pagati. «Il piano va avanti, non può essere fermato dai contrasti e dalle divisioni».

L’esercito ha aspettato a lungo di poter far decollare gli aerei senza pilota prodotti dalle Israel Aerospace Industries e dalla Elbit, valore del contratto 185 milioni di dollari. Ordinati nel 2005, i primi velivoli (sei su dieci) sono arrivati così in ritardo che tra i due Paesi si era aperta anche allora una crisi. Gli israeliani hanno offerto come risarcimento di dare in affitto i droni (per 10 milioni di dollari) e di «prestare» i loro aviatori per aiutare le forze armate turche. I consiglieri della Iai— ha rivelato il Turkish Daily News tre anni fa — avrebbero affiancato le missioni dei jet telecomandati contro i ribelli curdi nel nord dell’Iraq.

I droni Heron sono gli stessi che Tsahal usa sopra i cieli della Striscia di Gaza. Di quarta generazione, decollo e atterraggio automatici, i sistemi a bordo possono fornire intelligence in tempo reale giorno e notte, l’autonomia è di ventiquattro ore. Sono disarmati: in battaglia servono per monitorare i movimenti del nemico e i turchi li usano per recuperare informazioni sulle postazioni e i leader del Pkk, il partito dei lavoratori del Kurdistan.

«I progetti più importanti tra i due Paesi sono conclusi— commenta Ozgur Eksi, analista per il quotidiano Hürriyet — e il nostro stato maggiore è preoccupato che gli israeliani rallentino la cooperazione, perché in questo settore saremmo noi a perderci di più». Per un miliardo di dollari in totale, le società israeliane hanno appena finito di modernizzare i tank M60 e i jet F4 turchi. Stanno concorrendo nelle gare d’appalto per un sistema missilistico a corto raggio e a un radar di sorveglianza costiera. Anche le relazioni (e gli scambi di dossier) tra i due servizi segreti sono robusti e dovrebbero reggere agli scossoni geopolitici.

Dopo l’assalto alla Flotta della libertà, Ankara ha cancellato tre manovre militari congiunte. «Non è una grande ritorsione, una mossa più d’immagine che strategica. Possono trovare un altro partner», spiega Eksi. Nell’ottobre 2009, il governo aveva escluso Israele dalle esercitazioni aeronautiche Nato (operazione Aquila dell’Anatolia) in risposta ai ventidue giorni di offensiva contro Gaza. «Com’è possibile che voli nei nostri cieli chi ha bombardato i palestinesi?», chiedeva nell’editoriale un giornale turco. Eppure gli stessi droni volano sopra le sabbie della Striscia a caccia dei miliziani di Hamas e tra le montagne all’inseguimento dei combattenti

Il Giornale-Gian Micalessin: " Volevano fare i martiri, in Turchia lo sapevano tutti "

Erdogan, il regista

Ora è tutto chiaro. Ora anche l’ultimo tassello del trappolone costato la gogna internazionale ad Israele è evidente. Mentre in Israele l’intelligence indaga sull’identità di 50 misteriosi attivisti tutti senza documenti, ma tutti con in tasca qualche migliaio di dollari in biglietti dello stesso taglio, a Istanbul i giornalisti hanno già la risposta. Quei cinquanta uomini senza nome catturati a bordo dell’ammiraglia della spedizione per Gaza sono probabilmente - come le nove vittime dell’incidente (quattro dei quali turchi) - militanti islamici reclutati dall’organizzazione “umanitaria” turca Ihh (Insani Yardim Vakfi”, - “Fondo di aiuto umanitario”) proprietaria della nave ammiraglia e di due mercantili utilizzati per la spedizione su Gaza.

Un’organizzazione sospettata, come già scritto dal Giornale, di pesanti collusioni con Hamas e con i gruppi dell’internazionale jihadista. Un’organizzazione umanitaria pronta sin dalle prime ore a trasformare la tragedia in opportunità, come spiega al Giornale Menachem Genz, l’inviato del quotidiano israeliano Yediot Ahronot arrivato a Istanbul lunedì mattina. «Il clima nella sede dell’Ihh era surreale, nessuno sembrava sconvolto, nessuno si preoccupava, come sarebbe umano, di sapere chi e quanti fossero i morti... l’unico obbiettivo era usare al meglio l’opportunità mediatica, concedere interviste, ripetere gli stessi slogan e amplificare al massimo la portata dei fatti. Sembrava quasi un film... nulla succedeva per caso.... tutta quella gente recitava una parte studiata a lungo e preparata accuratamente». L’incontro con Isat Yilmanz, un militante dell’organizzazione convinto che suo fratello Ilyas fosse morto sulla nave, contribuisce a rafforzare l’impressione del giornalista. «Io gli chiedevo perché ne fosse così certo e lui continuava a spiegarmi che suo fratello era partito con la precisa intenzione di morire martire per la Palestina». Il racconto di Genz è confermato anche da altri parenti delle vittime turche, tutti concordi nello spiegare ai giornali locali che i loro cari «cercavano il martirio».

«Prima di imbarcarsi mi ha ripetuto più volte di voler diventare un martire, lo desiderava tanto», racconta al quotidiano Milliyet Sabir Ceylan, amico del 39enne Ali Haydar Bengi, proprietario di un negozio di cellulari di Diyarbakir inserito nell’elenco dei quattro morti turchi. «Aiutava gli oppressi. Da anni desiderava andare in Palestina e pregava Allah di farlo diventare un martire», conferma la moglie di Bengi rimasta sola con quattro figli. Anche Ali Ekber Yaratilmis, 55 anni, padre di cinque figli e volontario dell’Ihh, «desiderava da sempre una morte da martire», spiega al quotidiano Sabah l’amico Mehmet Faruk Cevher. Una terza vittima turca, il 61enne Ibrahim Bilgen, originario del sud est del Paese e militante di un partito legato al fondamentalismo islamico viene descritto dal cognato Nuri come «un uomo e un filantropo esemplare... il martirio gli si addiceva proprio... Allah gli ha concesso la morte che desiderava».
Sulla base di queste dichiarazioni riprese dai quotidiani turchi anche il mistero dei cinquanta uomini senza nome nelle mani degli israeliani risulta più chiaro. La somma di qualche migliaio di dollari in biglietti dallo stesso taglio trovata nelle tasche di ciascuno di loro era la ricompensa riconosciuta dall’Ihh alla punta di lancia della spedizione. Una sorta di paga anticipata destinata a chi aveva il compito di mettere a repentaglio la propria vita per innescare una reazione israeliana e costringere i soldati di Tsahal ad aprire il fuoco. Quell’avanguardia “kamikaze” strutturata come la punta di lancia della spedizione aveva visori notturni per individuare i movimenti degli israeliani, giubbotti antiproiettile per sopravvivere alle prime fasi dello scontro, spranghe, biglie d’acciaio e coltelli per massacrare i soldati scesi sulle navi e indurre i loro colleghi ad aprire il fuoco per salvarli. Un film scritto in anticipo e trasformato in realtà all’alba di lunedì.

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