L'articolo di Francesca Paci che segue, è il secondo dopo quello di ieri, nel quale l'inviata della STAMPA racconta una realtà smentita persino da giornali come il FINANCIAL TIMES, come ha raccontato sul LIBERO Angelo Pezzana, alcuni giorni fa. Non mettiamo in in dubbio che la Paci sia sul posto, ma non c'è peggior cieco di chi non vuol vedere. Nel pezzo di oggi, 03/06/2010 a pag. 7, con il titolo " Con i disperati in fuga dalla Striscia" ci vuol far creder che gli abitanti di Gaza vanno in Egitto spinti dalla fame, mentre è invece vero che ci vanno per continuare il contrabbando, messo in pericolo dalla costruzione del muro egiziano. Se la Paci non lo sa, qualcuno glielo dica. Quelli che si accalcano in entrata e in uscita con l'Egitto lei non li vede, ma può sempre informarsi, sempre che lo voglia. Certo, è più facile raccontare menzogne su Gaza che non la verità. Quella, per raccontarla, occorre aver coraggio.
Più serio e informato l'articolo di Lorenzo Cremonesi sul CORRIERE della SERA di oggi, che non può certo essere accusato di simpatie verso Israele. Ne racconta più Cremonesi in poche righe che Paci con tutta la sua retorica d'accatto. Si veda come Cremonesi racconta com'è Gaza, altro che "fogna a cielo aperto", altro che "affamata", era l'embargo che si voleva eliminare, altro che aiuti umanitari.
Ecco gli articoli:
La Stampa-Francesca Paci: " Con i disperati in fuga dalla Striscia "

Francesca Paci
C’è un tipo d'assalto cui i militari di Hamas a presidio del valico a Rafah non sanno rispondere.
L’anziana Kadija Salman, dopo otto ore d'attesa alla frontiera promessa, lascia il marito Abu Ala a custodia della valigia grande quanto una lavatrice e si scaglia contro di loro brandendo il bastone a mo' di clava. «Sono partita da Beit Hanoun alle 5 del mattino, la tv al Aqsa aveva detto che ci avrebbero lasciati passare, m'ero raccomandata al dottor Ahmad» urla, la faccia gonfia e rossa sotto il foulard a quadretti.
La figlia Saida, chiaramente più giovane dei 19 anni dichiarati, deve recarsi a Dubai dal futuro sposo che, per non averla mai vista, l'aspetta paziente da cinque mesi. Resteranno qui finché non verranno chiamati, giura Kadija. Il giovanotto in divisa nera e kalashnikov a tracolla scherma i colpi e prova a spiegare che, se l'accesso fosse consentito caoticamente a tutti, resterebbero indietro i malati e quelli veramente bisognosi, ma di fronte alla rabbia delle famiglie accampate sotto il sole otterrebbe più facilmente ascolto dalla sua fiammante moto Halawa parcheggiata sotto l'arco con la bandiera nera-bianca-rossa-verde.
Quando, all'indomani del blitz israeliano contro la Freedom Flottilla, il presidente Hosni Mubarak ha annunciato l'apertura del confine egiziano di Gaza, blindato con rarissime eccezioni dalla presa del potere di Hamas nel 2007, i palestinesi hanno rizzato le antenne. Più della prospettiva del viaggio, consentito alla fine a meno d'un quarto degli 800 candidati, sembrava realizzarsi il sogno d'una vittoria senza sforzo, conquistata a spese delle relazioni turco-israeliane. Non solo non erano direttamente coinvolti, ma per una volta rischiavano addirittura di guadagnarci dall'infinita guerra a bassa intensità combattuta in loro nome.
Non c'è voluto molto per ridimensionare le ambizioni, osserva l'ortopedico di Jabalya Awali Ali Nasser: «L'Egitto voleva solo riposizionarsi rispetto alla Turchia, che oggi viene santificata a Gaza insieme al premier Erdogan, ma il valico di Rafah non resterà aperto a lungo». Lui, che non usa il passaporto da oltre 15 anni, è venuto a riprendersi la moglie Shirin, partita quattro mesi fa per organizzare il matrimonio delle tre figlie in Bahrein, lontano dagli occhi ma anche dalla terra senza speranza dove oltre un ragazzo su due è disoccupato. Non potendo pianificare la mobilità, ogni lasciapassare va sfruttato al massimo: Shirin emerge sudata dai 500 metri di no man's land che separano il terminal palestinese da quello egiziano coperto di graffiti «Free Gaza», trascinandosi dietro il carretto con un frigorifero Fresh e un gigantesco ventilatore.
«La politica del Cairo non cambierà nonostante occasionali tatticismi mordi e fuggi, perché Mubarak non ha nessuna intenzione di agevolare i collegamenti tra Hamas e i Fratelli Musulmani» nota Ely Karmon, analista dell'International Institute for Counter-Terrorism, Policy and Strategy di Herzlyia, a Nord di Tel Aviv. Se mai ne avesse avuto bisogno, continua, avrebbe trovato conferma nel rigoroso filtraggio di Rafah: «Mi risulta che il ministro dell'Agricoltura di Hamas ma non sia riuscito a ottenere il permesso per uscire, l'apertura durerà pochi giorni». L'Egitto accusa la pressione dei 22 Paesi della Lega Araba, concordi nel criticarne le misure restrittive ai danni di Gaza, compresa la barriera metallica costruita per bloccare il mercato nero dei tunnel fiorito all'ombra dell'embargo. Ma finora, più preoccupato dalla minaccia islamista in casa e al confine, Mubarak s'è limitato a iniziative di facciata, come quella della first lady Suzanne, che ieri ha spedito a Rafah un convoglio della Mezzaluna rossa carico d'aiuti per i palestinesi «assediati a Gaza».
Alle quattro e mezza, mentre i due chioschi traforati di proiettili vecchi e nuovi a ridosso della frontiera cominciano a esaurire le scorte di birra analcolica Amstel, un camion egiziano con sopra quattro generatori d'energia elettrica supera con successo i controlli della security di Hamas e si allontana nel polverone alla volta di Gaza City. Uno dopo l'altro ne passano una decina, s'intravedono coperte, tende, scatole con simboli farmaceutici.
«Bei fratelli che abbiamo al Cairo, con una mano ci tirano su e con l'altra ci affogano» dice Rizik Abudakka, indicando con l'indice tremante l'enorme scavatrice che svetta al di là del filo spinato, il terrore delle gallerie ramificate sotto il confine. L'unica speranza d'arginare l'avanzata del morbo di Parkinson che non gli consente più di lavorare in falegnameria è nel reparto specialistico di un ospedale del Cairo e, sebbene non sia nella lista vistata dal ministero, conta d'impietosire i militari. Almeno quelli palestinesi: «Gli egiziani si comportano peggio degli israeliani con noi». Se non riuscirà a uscire oggi, tornerà domani, come mamma Samira Siam che tiene per mano il piccolo Yussuf affetto da una forma rara di cancro alla pelle.
«La crisi delle navi assaltate dalle teste di cuoio israeliane s'è risolta a vantaggio di Hamas - spiega un politologo dell'Università Al-Azhar, chiedendo di non essere citato per i suoi legami con al Fatah -. Se i miliziani armati non commettono sciocchezze lanciando razzi inutili verso il Negev, il partito di Haneya può amministrare un buon successo d'immagine». Quanto durerà? A giudicare dall'umore di quelli affluiti a Rafah, non oltre l'apertura del valico. Secondo Khalil Qudeh, muratore sessantenne diretto al Cairo per incontrare il figlio che da tre anni studia ingegneria lontano da casa, l'oltranzismo non pagherà: «Anche chi ha votato Hamas non può non ricordare che prima che vincesse le elezioni, tra il ritiro israeliano del 2005 e il 2007, il confine con l'Egitto era praticamente inesistente, andavamo e venivamo a piacere». Sembra il paradiso, ma a Gaza il passato è sempre più rosa del presente.
Corriere della Sera-Lorenzo Cremonesi: " Gaza si prepara all'arrivo di altre navi, e Hamas spera nel grande rilancio "

Possibile che i giornalisti non vedano mai uno ?
GAZA — Il piano era che i pescatori dovessero uscire dal porto per andare incontro alla flottiglia di «amici della pace», come si legge sui manifesti addobbati con i colori della bandiera palestinese e turca. Un centinaio tra i loro vecchi barconi in legno era già stato preparato per l’avvenimento. Invano. Ieri pomeriggio il porto voluto da Arafat 15 anni fa era gremito di imbarcazioni alla fonda. Come fosse un giorno normale. E i pescatori si preparavano per la consueta pesca notturna entro poche miglia dalla costa. Chi sgarra viene catturato o peggio mitragliato dalle motovedette israeliane sulla base di provvedimenti militari imposti sin dagli anni Novanta.
(Ap, Reuters) Contro Bambini di Gaza portano il modellino di una nave turca con le bandiere palestinese e turca. In alto un soldato israeliano
Attende la gente di Gaza. Ha seguito sulle reti internazionali gli eventi degli ultimi giorni. Laggiù, lontano oltre l'orizzonte, in acque internazionali. «I primi arrivi di pacifisti dall’estero avevano suscitato un mucchio d'eccitazione. Migliaia di persone erano venute ad accoglierli nel 2008. Ma poi la curiosità era diminuita. Chi è dopo tutto questa gente? Molti sono solo avventurieri. Robin Hood del Duemila. Vengono qui, prendono il sole, si eccitano per aver sfidato i soldati israeliani, mangiano hummus e pesce sulla spiaggia, poi se ne vanno contenti di pensare di averci aiutato. Mentre qui non cambia nulla. Ma questa volta è stato diverso. I nove morti in alto mare hanno davvero smosso i nostri cuori. L'interesse per loro è tornato ad essere popolare», dice Khaled Abu Ghali, un infermiere di Rafah venuto al porto di Gaza munito di macchina fotografica e tanta curiosità.
Nell'attesa Hamas capitalizza in pubblicità. Sulle facciate in pietra bianca degli alti palazzi che si affacciano sul mare, costruiti nei primi anni Novanta con i fondi dei palestinesi immigrati nei Paesi del Golfo speranzosi nel processo di pace avviato dagli accordi di Oslo, sventolano pigramente alla brezza gigantesche lenzuola con la scritta: «Rompiamo l'assedio». E sul molo, proprio nei pressi dei pescherecci più capienti, ancora gli attivisti del movimento islamico hanno montato un grande tendone anch'esso coperto di slogan contro Israele e inni di amicizia con il popolo turco. «Benvenuti gli eroi della flottiglia della libertà», riporta uno. «Condanniamo la pirateria israeliana contro le navi della pace», si legge su di un altro sovrastato dalle foto del premier e del presidente turchi. La gente arriva, chiacchiera sulle sedie in plastica bianca e beve caffè turco molto zuccherato. Verso le diciassette scoppia però un piccolo tafferuglio. Uno strano tizio dalla lunga barba grigia e occhialini da sole tipo John Lennon appende il suo personale manifesto tra la foresta degli altri in cui è disegnata una nave sulle cui vele bianche si distinguono chiaramente le foto del presidente palestinese, Abu Mazen, e del leader locale di Hamas, Ismail Haniyeh. «Solo la barca dell'unità può condurre alla pace», si legge. È la mosca bianca. Qui i «traditori dell'Olp, e del loro capo», come urla minaccioso un miliziano armato, non sono accetti.
Vietato parlare di Olp, tabù nominare i suoi capi. Un agente dei servizi segreti di Hamas filma la scena, e riprende specie chiunque osi avvicinarsi all'eccentrico manifestante. Non è un mistero che centinaia di attivisti dell'Olp sono ancora in cella a Gaza. Come del resto lo sono quelli di Hamas nelle prigioni dell'Olp in Cisgiordania. È il segnale più concreto di quanto le due anime del fronte palestinese siano ancora distanti.
Da Ramallah, Abu Mazen pronuncia parole di fuoco contro l'azione dei commando israeliani. I suoi portavoce accennano alla possibilità della ripresa di contatti con Hamas al Cairo per cercare di ricomporre le diversità cresciute dopo gli scontri armati e lamini guerra civile dell'estate 2007. Ma in effetti la situazione resta bloccata. «Noi giornalisti a Gaza abbiamo ben poca libertà di raccontarlo sui media locali. Però è ovvio che le due parti rimangono profondamente divise. Non si sono rappacificate al tempo dell'aggressione israeliana contro Gaza nel gennaio 2009. Non saranno certo ora poche navi di pacifisti stranieri a cambiare le cose», dice Sami Abu Salem, noto reporter locale. Prova ne sono i continui e confusi rinvii delle elezioni per il rinnovo del parlamento nazionale palestinese. Avrebbero dovuto tenersi in gennaio. Ma nessuna data è stata decisa. «Non possiamo andare al voto oggi. Hamas perderebbe quasi certamente. La nostra popolarità è in calo. Dobbiamo attendere la ricostruzione delle abitazioni distrutte nel 2009 e la fine del blocco economico», ha ammesso lo stesso Mahmoud Zahar, ministro degli Esteri ombra del gabinetto a Gaza, durante alcune riunioni riservate nelle ultime settimane.
Resta invece calda la questione del blocco di Gaza. Non tanto per i beni di consumo, quanto per le persone. Gaza non muore di fame: si trovano medicine, auto, cibo, i mercati sono ricchi. Dai tunnel che collegano con l'Egitto passa di tutto. Ultimamente sono riusciti a importare persino decine di auto giapponesi e sudcoreane nuove di pacca. Il problema però è la chiusura per i suoi abitanti. «Siamo in una gigantesca prigione a cielo aperto», ripetono in coro. Colpevole Israele. Ma anche l'Egitto fa la sua parte. Ieri pomeriggio il valico meridionale di Rafah che collega con il deserto del Sinai è stato parzialmente riaperto. «Speriamo non sia solo la consueta mossa propagandistica egiziana per non essere associati a Israele», dicono scettici i portavoce di Hamas. Non è un mistero che al Cairo fanno passare le cose con il contagocce: i palestinesi sono scomodi.
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