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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa-L'Opinione-Libero Rassegna Stampa
02.06.2010 Turchia, addio all'Europa, di Enzo Bettiza
Le opinioni di Dimitri Buffa, Stefano Magni, Carlo Panella, Fiamma Nirenstein

Testata:La Stampa-L'Opinione-Libero
Autore: Enzo Bettiza-Dimitri Buffa-Stefano Magni-Carlo Panella
Titolo: «La Turchia più lontana dall'Europa-Ecco chi è l'Ong turca-Se Israele piange, la Turchia non ride-Coi turchi Netanyahu ha sbagliato»

Le opinioni sulle responsabilità della Turchia nell'organizzazione della spedizione a Gaza divergono. Chi giudica negativamente la " disubbidienza" israeliana nei confronti di Ankara, in nome di di un'allenaza che pare ormai svanita, e chi invece, più correttamente, secondo noi, ha ben visto l'ormai definitivo allontanamento del paese che fu di Ataturk da ogni prospettiva europea, quindi laica.  E' la tesi di Enzo Bettiza, grande conoscitore dei balcani, che condividiamo in pieno. Sulla STAMPA di oggi, 02/06/2010, a pag.1.
Riprendiamo gli articoli di Dimitri Buffa ( L'OPINIONE), Stefano Magni ( L'Opinione), Carlo Panella (LIBERO).

La Stampa-Enzo Bettiza: " La Turchia più lontana dall'Europa "

Enzo Bettiza

Non v’è dubbio che la flottiglia che puntava su Gaza era qualcosa di più d’una semplice spedizione destinata a portare soccorso umanitario ai civili palestinesi che vivono, in condizioni spesso disperate, nella soffocante striscia invasa e colpita dagli israeliani nel 2008. I pacifisti erano in realtà attivisti filopalestinesi, legati per tanti fili all’organizzazione terroristica di Hamas. Lo scopo vero della loro traversata era dichiaratamente provocatorio: forzare l’embargo e il severo blocco marittimo imposto da Israele lungo la striscia per ostacolare l’arrivo clandestino di armi e materiali balistici ai guerriglieri locali, sostenuti soprattutto dalla Siria e dall’Iran.
Non v’è dubbio, altresì, che la reazione delle forze navali israeliane è stata eccessiva, nevrastenica, mal guidata e mal controllata. La frettolosità tecnica con cui l’hanno eseguita ha provocato un eccidio di grave danno per l’immagine di Gerusalemme già logorata nel mondo.
In sostanza, le forze speciali d’Israele hanno risposto maldestramente alla provocazione, causando un disastro di proporzioni umane e politiche che daranno facile gioco propagandistico ai pacifici alleati di Teheran, di Hamas, di Hezbollah. Al tutto si aggiunge l’isolamento del governo di Netanyahu dall’amministrazione Obama e dai Paesi dell’Unione europea, in particola-re mediterranei, lambiti dal caos alle porte di casa.
Ma al centro della situazione, estremamente complessa dopo la catastrofe, non si trovano soltanto le mosse difensive intemperanti e sbagliate di un combattivo governo di destra israeliano. Al centro direi storico, più che contingentemente politico, si trova la Turchia, il più cospicuo e potente Paese islamico del Medio Oriente. La flottiglia degli attivisti era salpata in gran parte dalle coste turche e da Cipro. Era stata progettata e finanziata principalmente dall’Ong turca «Ihh», organizzazione radicale islamica fondata nel 1992 e legata al network dei Fratelli musulmani. La nave ammiraglia della spedizione, Mavi Marmara, batteva bandiera turca, erano turchi molte centinaia di attivisti, infine erano turche tutte o quasi le nove vittime uccise dalle truppe speciali israeliane.
Si è quindi detto che è scoppiato un esordio di guerra tra Israele e la Turchia dopo circa sessant’anni d’alleanza sul piano economico, politico e perfino militare. Ma, in realtà, non è stato un esordio. E’ stato piuttosto il culmine più visibile e più clamoroso, ancorché indiretto, di una parabola da tempo negativa nei rapporti generali di Ankara, non solo col vicino Stato israeliano, ma con l’Occidente nel suo complesso. Dallo scontro letale nelle acque internazionali intorno a Gaza s’è visto emergere e prendere quasi corpo uno spostamento massiccio, un rivolgimento geopolitico, un novum pericoloso perché dilagante in uno degli scacchieri più infiammabili del globo. In definitiva stiamo assistendo al distacco dal mondo atlantico di un Paese forte e vitale di 80 milioni che costituì, per decenni, il baluardo orientale della Nato con un esercito ritenuto secondo soltanto a quello americano.
La lenta metamorfosi e il ritorno all’islam della nazione turca, tecnicamente europeizzata e laicizzata da Kemal Ataturk dopo la Grande Guerra, sono iniziati nel 1989 con il crollo del comunismo e la fine della guerra fredda. Lo scioglimento dei blocchi contrapposti hanno dato inattese e insieme ancestrali prospettive alla penetrazione egemonica di Ankara nel Caucaso, nell’Azerbaigian, nelle ex repubbliche islamiche dell’Urss. Il riavvicinamento alla Siria e i legami prima cauti, quindi palesi con l’Iran, hanno poi completato questa specie di anabasi psicologica, politica e religiosa dall’europeizzazione incompiuta alle ataviche radici dell’Asia. Il gioco si è fatto più stretto, anche se cauto e sommerso, con l’arrivo al potere nel 2002 del partito islamico moderato Akp (targato «Giustizia e Sviluppo») guidato dall’abile e arrogante Recep Tayyip Erdogan e dal suo sodale Abdullah Gül, rispettivamente capi in carica del governo e dello Stato.
Erdogan ha subito avviato una lunga e difficile trattativa per l’ingresso della Turchia nell’Unione europea che gli americani, più di tanti europei, vedevano di buon occhio e favorivano come vincolo di continuità con la Nato. Ma qui iniziava un baratto quasi contabile e assai ambiguo fra il dare e l’avere. Non si capiva bene dove Erdogan e il suo partito volessero portare la Turchia pseudomoderna. Mentre le masse anatoliche, spesso fanatizzate, davano ascolto alle sirene anche fondamentaliste, il machiavellico Erdogan concedeva a Bruxelles alcuni punti e molte promesse sulle questioni dei diritti civili in contrasto con la tradizione nazionale e nazionalista: abolizione della pena di morte, sospensione del reato d’adulterio, mano ammorbidita nei confronti dei curdi, mano tesa ai cristiani armeni memori del genocidio. L’impressione era che Erdogan e Gül, che esibivano in pubblico le loro mogli rigorosamente velate, più che desiderare l’avvicinamento all’Europa usassero l’Europa per stroncare, mediante clausole ed esigenze europee, l’incombenza dello storico potere parallelo kemalista presente fin dagli Anni Venti nelle istituzioni e nella società turche. Commissari e deputati di Bruxelles, spesso strabici esportatori di eccessivo democratismo moralistico, erano portati a scorgere soltanto una casta di golpisti nei militari e nei magistrati che nel 1960, 1971, 1980 avevano interrotto con colpi di Stato confuse e insidiose derive parlamentari istituendo governi militari di durata sempre breve e transeunte. Per Erdogan era indispensabile colpire e dimezzare con pugno di ferro il loro ruolo di garanti e custodi del lascito laico di Kemal per capovolgere e riasiatizzare, in parte, una Turchia ricollocata magari in prima fila tra i Paesi islamici della regione. Egli ha usato sovente con astuzia le regole europee per emasculare l’europeismo dalla giunta secolare. Non a caso ha fatto arrestare il 22 febbraio oltre 40 esponenti militari, fra cui 14 di altissimo rango.
A questo punto Erdogan non ha potuto che schierarsi dalla parte degli attivisti imbarcati sull’ammiraglia pacifista che esibiva soltanto due bandiere, la turca e la palestinese, condannando duramente l’attacco israeliano come «atto di pirateria» e come «terrorismo di Stato». Sarà Ankara a ricorrere per prima al Consiglio di sicurezza dell’Onu per mettere una volta di più al bando dell’ordine internazionale le azioni di Israele. Ma il vero dramma della storia in atto va ben al di là della fine del tradizionale rapporto d’amicizia tra Ankara e Gerusalemme. La verità è che siamo in presenza della più profonda crisi nelle relazioni, un tempo solide e proficue, della Turchia con l’Occidente in quanto tale. Una Turchia riallineata con forza, e perfino con pulsioni egemoniche panislamiche, ai più militanti Paesi musulmani arabi e non arabi.

L'Opinione-Dimitri Buffa: " Ecco chi è l'Ong turca "

Che Israele nelle acque a largo di Gaza abbia pestato una cacca è poco ma
sicuro.  La cosa rivela anche lo scarso addestramento delle Idf che certo da
tempo non sono più quelle della guerra dei sei giorni. Ciò detto però,
vogliamo dire qualcosa su questa pseudo ong umanitaria turca che ha
organizzato la provocazione prima e la tragica trappola poi?
Basta leggere cosa scrive la cooperante Miriam Bolaffi per Secondo
Protocollo, onlus che si concentra sul monitoraggio alle ong europee in
Medio Oriente e in Africa, per capire tutto.
³La IHH è guidata da Bülent Yildirim e opera ad ampio raggio nel settore
umanitario di assistenza alle zone islamiche depresse. Tuttavia la IHH ha
anche un altro settore che, a fianco di quello umanitario, supporta
attivamente le attività terroristiche in particolare quelle di Hamas
(attraverso la Union of Good), e quelle della rete globale della Jihad
islamica. La IHH è legata a doppio filo con i Fratelli Musulmani (le
fondamenta di Hamas) e non nasconde il suo supporto al gruppo terrorista.
Questo atteggiamento a fatto si che la IHH nel 2001 venisse inserita dagli
USA nella lista delle Ong che supportano il terrorismo globale.²
E ancora: ³..secondo uno studio del 2006 condotto dal Danish Institute for
International Studies, la IHH avrebbe anche contatti con Al Qaeda attraverso
alcune fondazioni di supporto alle attività islamiche collegate o
direttamente riconducibili ad essa. Un progetto della IHH gestito dalla
Islamic Charitable Society di Hebron e dalla Al-Tadhamun a Nablus
distribuisce fondi alle famiglie dei kamikaze. Per questo in un recente
incontro avvenuto a Damasco tra Bülent Yildirim e Khaled Mashaal,
quest¹ultimo ha ringraziato sentitamente la IHH per il supporto ad Hamas.²
Mi fermo qui, ma adesso chiedo retoricamente ai tanti analisti che
straparlano di Israele: a questi li consideriamo pacifisti?

L'Opinione-Stefano Magni: " Se Israele piange, la Turchia non ride "

Erdogan, Ahmadinejad

Passata l’emozione del momento, ridotto il numero delle vittime da 19 (secondo le prime notizie) a 9 (secondo le stime più recenti), il Consiglio di Sicurezza dell’Onu si è riunito per deliberare sulla tragedia a Gaza. Non ne è scaturita una condanna a Israele, ma solo alla sua azione. Non si è decretata l’illegittimità del blocco israelo-egiziano imposto a Gaza, né si è chiesta la sua rimozione. L’unica azione concreta che l’Onu chiede è un’inchiesta per far luce sull’intercettazione della “Freedom Flotilla” da parte della marina israeliana e il rilascio delle navi sequestrate. Quella dell’Onu è una dichiarazione equilibrata, accettata immediatamente anche dal governo italiano. Il grande sconfitto della sessione del Consiglio di Sicurezza non è tanto Israele. E’ la Turchia, membro a rotazione che ne aveva chiesto la riunione d’emergenza. Il governo di Recep Tayyip Erdogan si era distinto già nel gennaio del 2009 quando, durante la guerra a Gaza, aveva condannato “senza se e senza ma” l’intervento militare israeliano, mentre sdoganava politicamente il governo jihadista illegale di Hamas, al potere dopo un golpe nel 2007. Sempre Erdogan si era distinto anche due settimane fa, quando ha cercato di spezzare, assieme al Brasile, il fronte anti-Iran: promuovendo un accordo che ha l’unico scopo di risparmiare al regime islamico di Teheran nuove sanzioni. Il governo islamico di Ankara è alle spalle di gran parte della spedizione della “Freedom Flotilla” a Gaza, il cui intento esplicito era quello di rompere il blocco navale imposto da Israele alla città controllata da Hamas. Il convoglio umanitario è stato assemblato in Turchia. E’ stato organizzato da associazione internazionali, fra cui, in prima fila si schierava l’Ihh, una Ong islamica turca, nel mirino dei precedenti governi laici di Ankara, ma pienamente legittimata da quando alla guida dell’esecutivo c’è Erdogan. La sua missione, sbarcare aiuti umanitari direttamente a Gaza, nelle mani di Hamas è ottenuto l’esplicito sostegno di Erdogan l’11 maggio scorso. Il 24 maggio, con una missiva al governo israeliano, è sempre l’esecutivo Erdogan che ha minacciato “ritorsioni serie” in caso di azione contro la “Flotilla” da parte della marina dello Stato ebraico. Dopo che questo tentativo “pacifico” di forzare il blocco è finito nel sangue lunedì mattina, la Turchia ha provato ancora ad ottenere con mezzi politici, al Consiglio di Sicurezza, quel che non le era riuscito in mare: rimuovere l’embargo a Gaza. Ahmet Davutoglu, ministro turco degli esteri ha definito il raid israeliano un “assassinio compiuto da uno Stato” (Erdogan aveva usato termini più duri: “terrorismo di Stato”) e ha chiesto le scuse ufficiali di Israele. Oltre all’inchiesta e un’azione legale internazionale contro le autorità di Tel Aviv, egli domandava anche la fine del blocco a Gaza. La sua richiesta non è stata recepita, anche perché Israele si è difesa bene. In sede Onu sono stati mostrati i filmati dell’Idf in cui si vedono i “pacifisti”, a bordo della Mavi Marmara, che assaltano a sprangate i militari israeliani, con l’intento di ucciderli o di prenderli in ostaggio. E’ risultato chiaro a tutti che di manifestazione pacifica non si trattava, bensì di una provocazione. Anche se i pacifisti occidentali, evidentemente, non se ne sono ancora accorti. Dopo questo incidente l’immagine di Israele è stata, comunque, gravemente danneggiata. Per lo Stato ebraico è sempre pronta l’accusa europea di “reazione sproporzionata”. Ma se Gerusalemme piange, Ankara non ride.

Libero-Carlo Panella: "  Coi turchi Netanyahu ha sbagliato "

 

Carlo Panella

Non sono poche le voci dei più sinceri e sicuri amici del popolo ebraico che si sono levate a criticare non certo il diritto di Israele di bloccare la flottiglia di pseudo pacifisti che si apprestava a sbarcare a Gaza, ma il modo - che rasenta e supera il dilettantismo - con cui l’operazione è stata condotta. Dilettantismo sul piano tecnico- militare che discendeda una serie di errori politici. Il primo dei quali è ritenere che Israele sia perfettamente autosufficiente dal punto di vista politicomilitare e che possa quindi permettersi di confrontarsi da solo con l’ostilità più o meno armata dei Paesi arabi, e anche con un crescente isolamento da parte dell’Europa (da sempre comunque ignava), e persino da parte degli Usa. Il secondo errore - omogeneo a questo - è l’evidente scelta del governo Netanyahu di allargare ulteriormente il fossato che ormai separa Israele dal suo più forte alleato nell’area: la Turchia. Nel 2006, con la guerra del Libano, maturò una svolta epocale nella sessantennale strategia israeliana: Gerusalemme nell’accettare la risoluzione 1701 dell’Onu che affidava all’Unifil il compito di vigilare sul sud Libano, cedette per la prima volta parte della propria sicurezza nazionale a forze esterne, in particolare ai militari italiani e francesi. Una decisione frutto di una “non vittoria” nella guerra del Libano contro Hezbollah, provocata da marchiani errori militari israeliani. Errori militari, a loro volta prodotti da errori di analisi politica (e di Intelligence) circa la capacità di Hezbollah di resistere alla offensiva di Tshaal. Allora, Netanyahu, criticò la scelta di Olmert di accettare la forza d’interdizione Onu e si dichiarò a favore di una continuazione della guerra sino a quando Hezbollah non fosse stato sconfitto. Oggi, il suo governo sviluppa quella linea oltranzista e nell’eser - citare il legittimo diritto di difendere la sua sicurezza (che la flottiglia di pacifisti mescolati a falsi pacifisti voleva irridere e violare), dimostra di non tenere in nessun conto un effetto pericolosissimo: l’isolamento e le critiche anche da parte dei più fedeli e certi alleati. Vedi le accorate ma dure critiche di un sincero indubitabile amico di Franco Frattini, l’artefice della messa fuori legge da parte dell’Ue di Hamas, strategico contributo alla sicurezza di Israele. Questa scelta di isolamento, di autosufficienza, non solo indebolisce Israele in una trattativa con Abu Mazen che comunque non decollava, ma può risultare pericolosissima nell’eventualità di quel nuovo conflitto col Libano, che sembra sempre più concretizzarsi. In questo contesto l’azione contro la Mavi Marmara risulta non solo ben più grave nel suo dilettantismo, ma addirittura autolesionista. È infatti fuori di dubbio che il deterioramento delle relazioni tra Gerusalemmee Ankara - prezioso alleato da 50 anni - sia stato sempre più voluto da Erdogan, esattamente come è indubbia la volontà dei “pacifisti con la sciabola” della Mavi Marmara di provocare un incidente violento. Ma è altrettanto certo che il governo Netanyahu invece di tentare di bloccare Erdogan su questa strada, sta facendo di tutto per troncare ogni tipo di relazione con la Turchia. Un paese Nato, non va dimenticato, che dalla caduta dello Scià garantisce a Gerusalemme l’approvvigiona - mento di petrolio, che compra e vende a Israele elicotteri e carri armati (che coprono larga parte di un interscambio di 2,5 miliradi di dollari), che collabora da decenni col Mossad contro il terrorismo curdo e islamico e che addirittura - contratto firmato da Erdogan - rifornisce Israele di ben 50 milioni di metri cubi d’acqua l’anno. Tanto quanto Erdogan si erge e difensore dell’Islam - e traffica con Ahmadinejad e con Hamas in modo equivoco e vischioso - altrettanto Netanyhau lo spinge sempre di più su questa strada, con buona dose di cecità strategica. Sino a violare il territorio turco - tale è la Marvi Marmara - con un blitz militare, in acque internazionali, dando il pieno pretesto formale a Erdogan di chiedere alla Nato di intervenire militarmente contro Israele per aver subìto un attacco militare. Alla irresponsabile deriva islamista di Erdogan che punta a rompere ogni rapporto con Israele, Netanyhau risponde con una cieca deriva militarista che rischia di indebolire la sicurezza di Israele sul piano politico e anche su quello militare.

 

Il Foglio: "Erdogan ha un piano turco neo-ottomano che passa anche per Gaza "

 

 Ataturk dimenticato

Istanbul. Il premier turco, Recep Tayyip Erdogan, ha riferito all’Assemblea nazionale sul caso della Mavi Marmara, la nave fermata lunedì mattina dall’esercito israeliano a settanta chilometri da Gaza. Il raid è costato la vita a nove civili, centinaia sarebbero nel carcere di Beersheba, a sud di Gerusalemme, in attesa dell’espatrio. “Quel massacro merita ogni tipo di maledizione”, ha detto Erdogan di fronte ai deputati. Dallo stesso scranno, tre anni fa, Shimon Peres lanciò un messaggio di amicizia al popolo turco. Nessun presidente di Israele ha mai avuto un’opportunità simile in un paese musulmano, ma oggi quei tempi sono lontanissimi. Erdogan è deciso a rivedere i rapporti con Gerusalemme e questa non è una buona notizia per l’occidente. Il suo ministro degli esteri, Ahmet Davutoglu, ha incontrato ieri il segretario di stato americano, Hillary Clinton, per spiegare che i fatti degli ultimi giorni “avranno ripercussioni su tutto il medio oriente”. Questa grande manovra è cominciata molto tempo prima che le squadre dell’Idf atterrassero sul ponte della Mavi Marmara: alla fine degli anni Novanta, poche capitali garantivano alla Nato la stessa affidabilità di Ankara, ma oggi il governo ha la forza necessaria per allontanarsi dalle posizioni di Washington e Gerusalemme, che hanno rappresentato a lungo i cardini della sua politica estera. Nel 2003, Erdogan ha impedito alle truppe americane di entrare in Iraq passando per il territorio turco. I problemi con Israele sono cominciati nel 2008, quando il premier ha criticato Peres per la campagna su Gaza di fronte al pubblico del summit di Davos. La svolta ha coinciso con l’ascesa di Giustizia e sviluppo (Akp), il movimento filo islamico al quale appartengono sia Erdogan, sia il presidente della Repubblica, Abdullah Gül. La loro epoca dura da otto anni e questo periodo di stabilità ha avuto ripercussioni positive sull’industria: le imprese turche sono in salute nonostante la crisi globale e conquistano spazio sui mercati europei. Secondo Wolfango Piccoli, un analista del think tank Eurasia Group, “il paese cerca ora di allargare la propria influenza sulla regione grazie alla nuova fiducia nei propri mezzi. Il governo di Ankara vuole diventare un protagonista e la presenza di un partito filo islamico come l’Akp facilita questo compito nel medio oriente”. Combustibile per due bombe nucleari Questa strategia, che alcuni studiosi definiscono “neo ottomana”, ha ricadute profonde sulla politica estera. Erdogan vuole partecipare alle decisioni che riguardano i confini del vecchio impero e cerca di raggiungere l’obiettivo con il soft power che l’economia turca e il prestigio del suo mandato gli permettono di usare: chiede ruolo nei colloqui di pace fra Israele e la Siria, porta la questione di Gaza in cima alla lista delle priorità, apre una trattativa con l’Iran sul dossier nucleare. Due settimane fa è riuscito a firmare un’intesa che permetterebbe alla Repubblica islamica di arricchire all’estero l’uranio per le sue centrali. Il documento ha sollevato sospetto a Washington come a Gerusalemme, tanto che, nel giro di poche ore, la Casa Bianca ha annunciato un nuovo round di sanzioni contro gli ayatollah. Oggi, l’agenzia dell’Onu per l’energia atomica (Aiea) dice che gli scienziati iraniani hanno il combustibile necessario ad armare due bombe nucleari. Tuttavia, spiega Piccoli, sarebbe un errore confondere i due paesi. La logica di Teheran è basata sul fondamentalismo, risponde a regole che non hanno nulla a che vedere con le regole della comunità internazionale. Ankara segue un progetto di leadership che risponde alle esigenze di una economia in espansione e impone nuove scelte in fatto di partner: “I rapporti con Gerusalemme sono peggiorati – dice l’analista di Eurasia – ma il governo turco non ha un approccio antisemita”.

Fiamma Nirenstein ci invia da Parigi:

mercoledì 2 giugno 2010

Ieri si è svolta a Parigi una sessione della Commissione Politica del Consiglio d’Europa. Abbiamo discusso tanti argomenti, fra cui quello dello sviluppo della democrazia, la situazione in Kosovo e nel Caucaso e molti altri argomenti complessi. Ma non poteva mancare una discussione urgente sullo scontro nel Mediterraneo e il presidente della sotto-Commissione Medio Oriente, lo spagnolo De Puig, l’ha introdotta con inequivocabili toni di scandalo e di condanna, senza concedere a Israele nemmeno il beneficio del dubbio. Il delegato turco ha a sua volta preso la parola per accusare Israele di essere un criminale stragista, di aver perpetrato un crimine contro innocenti denominati “civili” e “pacifisti”, due parole magiche ai nostri giorni. Il palestinese ha aspettato dopo il mio intervento per ripetere a sua volta gli stessi concetti, ribadendo che l’Autorità Palestinese e Hamas sono uniti nella condanna internazionale contro Israele. Io ho detto le cose che sapete, elencando le verità che si conoscono dai video e dalle testimonianze. Appena disponibile il verbale, metteremo sul sito la discussione. Il collega turco era stupefatto e ha tentato di interrompermi più volte. Io sono andata avanti lentamente e senza farmi impressionare, e sui volti dei delegati provenienti da tutti i Paesi d’Europa e oltre, ho visto almeno interessamento per qualcosa che ignoravano completamente. Ciò che sapevano, e che l'osservatore palestinese ha ribadito, è solo che Israele ha attaccato dei poveri civili pacifisti che volevano rompere l’assedio a un popolo affamato. Nient'altro.
www.fiammanirenstein.com

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