Sul SOLE24ORE di oggi, 02/06/2010, a pag.1-16, il primo articolo di Christian Rocca sul quotidiano della Confindustria. L'abbiamo apprezzato quando era al FOGLIO, gli auguriamo di avere uguale libertà di manovra al Sole. In questo editoriale analizza gli avvenimenti di Gaza. Se continuerà ad occuparsene, si creerà una crepa nel monopolio della disinformazione fornita da Ugo Tramballi, che ancora oggi dà una interpretazione orientata solo a mettere sotto accusa Israele, persino il regime islamista turco ne esce indenne dalle sue responsabilità in quanto organizzatore della spedizione.
Seguono Emanuele Ottolenghi, ILSOLE24ORE, Roberto Fabbri e Gugklielmo Sasinini, IL GIORNALE, David Meghnagi, IL MATTINO
Il Sole24Ore- Christian Rocca: " A Gaza l'infinita Guerra di Israele "

Christian Rocca
Ancora una volta le parole più caute e responsabili sulla nefasta azione militare israeliana contro i militanti pro Gaza della Freedom Flotilla (9 morti e numerosi feriti) non sono arrivate dai governi europei, né da quelli arabi o islamici, ma da Washington. Gli americani hanno espresso rammarico per i morti e i feriti causati dal fuoco israeliano e hanno sottolineato le sofferenze dei palestinesi, ma non si sono spinti fino a condannare l'operato del governo di Gerusalemme.
Eppure alla Casa Bianca non c'è più il famigerato George W. Bush, il crociato pronto a sostenere ogni azione della destra israeliana, da ormai un anno e mezzo c'è il Nobel per la Pace, Barack Obama, l'uomo della speranza e del cambiamento, il presidente americano che finalmente, almeno stando ai desiderata dell' intellighentia occidentale, avrebbe dovuto ridimensionare le politiche imperialiste e guerrafondaie dello Stato ebraico. Non è andata così, come era ovvio.L'amministrazione Obama ha bloccato al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite una dura censura nei confronti di Israele chiesta da più parti e ha fatto approvare una generica e molto più tenue risoluzione di condanna degli «atti che hanno avuto come esito la perdita di vite di civili».
Alejandro Wolff, numero due americano al Palazzo di Vetro, dopo le dichiarazioni di cordoglio e la richiesta a Gerusalemme di accertare fatti e responsabilità dell'azione militare, ha rimproverato i militanti della flotta umanitaria di aver tentato di forzare il blocco navale ( «una cattiva idea») con un comportamento inappropriato e irresponsabile, perché avrebbero potuto seguire una procedura di consegna degli aiuti meno provocatoria, meno irritante e certamente più efficace. Ma non è finita. L' assistant secretary del Dipartimento di Stato, P.J. Crowley, ha riconosciuto le difficoltà delle condizioni di vita dei civili a Gaza e si è impegnato a convincere Gerusalemme ad ampliare, assieme all'Autorità palestinese,la portata dei beni umanitari per la popolazione, ma sempre «tenendo in considerazione le legittime preoccupazioni di sicurezza del governo israeliano ».
Il rappresentante del Dipartimento di Stato ha aggiunto che «l'interferenza di Hamas» e «il suo uso e sostegno della violenza» complicano, e non poco, la situazione.
Il punto è che al di là della tragedia consumata in alto mare all'alba di lunedì, Obama è ufficialmente favorevole al blocco di Gaza. Da senatore, durante la campagna presidenziale del 2008, ha sostenuto che Israele è stato costretto a bloccare le vie d'accesso a Gaza,per evitareil rifornimento dei razzi che il gruppo islamista lanciava sulle città israeliane. Dieci giorni prima del suo insediamento alla Casa Bianca, da presidente eletto, ha detto che «Hamas non è uno Stato, ma un'organizzazione terrorista » e che «non dobbiamo negoziare con un gruppo terrorista sull'intenzione di distruggere Israele, ci dobbiamo sedere a un tavolo con Hamas se rinunciasse al terrorismo, riconoscesse il diritto all'esistenza di Israele e rispettasse gli accordi passati ». Senza dimenticare che il blocco di Gaza, come ha sottolineato l'editorialista liberal di Time Joe Klein,è un'operazione congiunta israeliano- egiziana, provocato dall'intransigenza di Hamas e dal rifiuto di rilasciare il soldato israeliano Gilad Shalit.
Il blocco navale di Gaza, ha ricordato Klein, non è totale: cibo e assistenza umanitaria non mancano: «Il vero obiettivo della flotta era quello di drammatizzare le disumane condizioni di Gaza, ma queste condizioni sono attribuibili ai comportamenti di Hamas, in particolare il rifiuto di rilasciare Shalit e di negoziare, così come all'intransigenza di Israele». L'analista di Stratfor, George Friedman, sostiene che i militanti anti israeliani avevano il chiaro obiettivo di dividere Israele e i governi occidentali e di far cambiare l'atteggiamento dell'opinione pubblica mondia-le, ultimamente scossa dalla corsa al nucleare e dalle dichiarazioni bellicose degli ayatollah iraniani riconfermate ancora una volta ieri da un rapporto dell'Agenzia atomica dell'Onu.
Il riflesso condizionato di Israele, al di là della dinamica degli eventi accaduti lunedì mattima, ha contribuito al raggiungimento dell'obiettivo.
Il problema di Obama, così come quello dei suoi predecessori, è proprio questo: da una parte c'è chi non riconosce Israele e non è interessata alla convivenza pacifica, dall'altra c'è uno Stato democratico che in mancanza di segnali regionevoli, quale potrebbe essere la liberazione dell'ostaggio, si intestardisce e riesce a dare il peggio di sé.
Daniel Gordis, vicepresidente dello Shalem Center, ha aperto il suo nuovo libro Saving Israel: How the Jewish People Can Win a War That May Never End (Salvare Israele: come il popolo ebraico può vincere una guerra che potrebbe non finire mai) , con una citazione dal Talmud: «Chi è saggio? Colui che prevede le conseguenze». C'era certamente un modo più intelligente di fermare la nave di militanti filo palestinesi, ha scritto sul Wall Street Journal Max Boot del Council on Foreign Relations. Senza la saggezza di chi sa prevedere le conseguenze, Israele potrà certamente vincere tutte le battaglie, ma alla fine potrebbe lo stesso perdere la guerra.
Il Sole24Ore- Emanuele Ottolenghi: " Il tranello a Israele e l'inconfessabile ombra di Teheran "

Emanuele Ottolenghi
Israele è caduto nell'ennesima trappola: il convoglio navale abbordato dai commando navali israeliani era un'imboscata. Molti partecipanti erano estremisti islamici. E i cosiddetti pacifisti erano addestrati alla guerriglia urbana. Per loro l'obbiettivo,in caso di scontro, era il martirio e l'impatto mediatico e politico conseguente. Come ha detto un'attivista sulla barca in un'intervista a un network arabo, «ci aspettiamo una di due buone cose - o il martirio o di arrivare a Gaza». Abbordando la nave turca Mavi Marmara armati di proiettili di vernice, aspettandosi dei riottosi ma non agguerriti esperti di guerriglia urbana, gli israeliani hanno dato loro il martirio desiderato, il tutto filmato da una troupe di Al-Jazeera che viaggiava col convoglio.
Israele poteva evitare questo disastrodiplomatico e d'immagine? Si trattava di una situazione impossibile: lasciar passare il convoglio avrebbe reso insignificanti tutte le minacce israeliane a chi avesse forzato il blocco navale di Gaza, non solo aprendo la via a consegne di armi ed equipaggiamento ma anche dando un segnale di debolezza in una regione dove i deboli hanno vita breve. Bloccare il convoglio avrebbe creato una crisi diplomatica con la Turchia, i paesi arabi moderati e il mondo occidentale.
Per Israele il calcolo era dunque tra il male e il peggio, e si trattava di stabilire quale opzione avrebbe causato il male minore. Chiaramente, la mediocre intelligence di cui Israele disponeva ha creato il peggiore dei risultati, visto che una miglior conoscenza dei partecipanti al convoglio, i mezzi di cui disponevano e le loro intenzioni avrebbero permesso ai commando israeliani di agire diversamente.
Il dramma umano risultante ha finora offuscato l'orizzonte strategico e il contesto geopolitico e ideologico di quest'episodio. Dietro al convoglio c'è un'organizzazione islamista turca che ha agito con la benedizione del suo governo. La Ihh - (Insani Yardim Vakfi, IHH - Humanitarian Relief Fund) ha legami stretti con la Fratellanza Musulmana e Hamas, e ha avuto un ruolo chiave nell'ingresso di Jihadisti in Bosnia negli anni Novanta. È illegale in Israele edè stata indicata come strumento per il finanziamento di Hamas da vari governi occidentali . È tutt'altro che pacifista e attiva in altri teatri salafisti, come Cecenia e Iraq.
Il convoglio è potuto partire grazie alla connivenza di Ankara che ha utilizzato il porto turco-cipriota di Famagosta – un'enclave pirata negata al legittimo governo cipriota dall'occupazione militare turca – per inviare un convoglio senza le carte in regola in piena violazione del diritto marittimo internazionale.
Ankara ora può ben sfruttare la rabbia popolare a fini elettorali in un momento di crisi del partito al governo e a fini di consolidamento interno del potere contro l'esercito (unico contraltare in Turchia all'ascendenza islamista di Erdogan) che resta l'unico potere all'interno dello stato turco a favorire rapporti cordiali con Israele. Ma dietro a tutto questo c'è un altro fattore: l'Iran e la sua ricerca di egemonia regionale. Non è un caso che il dramma si sia consumato lo stesso giorno che l'Agenzia internazionale per l'energia atomica ha fatto circolare due durissimi rapporti sull'Iran e la Siria. Il 31 maggio era l'ultimo giorno della presidenza libanese al Consiglio di sicurezza – un ostacolo al nuovo round di sanzioni Onu contro l'Iran – e si presumeva che questa settimana o la prossima l'Onu avrebbe deli-berato contro l'Iran alla vigilia dell'anniversario delle elezioni fraudolente dell'anno scorso.
In breve, il convoglio e i suoi vari complici hanno creato un brillante diversivo per l'opinione pubblica e le diplomazie internazionali. Fino alla settimana scorsa non si parlava che d'Iran,dei trasferimenti di missili a Hezbollah attraverso la Siria, della complicità turca con l'Iran nel violare le sanzioni o nell'inventare soluzioni diplomatiche inesistenti per prender tempo al programma nucleare iraniano.D'ora innanzi si parlerà di Gaza, Israele e le sue malefatte. Un'imboscata,messa a punto dai migliori giocatori di scacchi del mondo- gli iraniani che ne sono gl'inventori - nella quale i martiri e i loro compagni di viaggio sono pedine e l'isolamento d'Israele serve per fare scacco matto. Gli israeliani ci sono cascati, ma non avevano altra scelta.
Il Giornale- Roberto Fabbri: " Quegli strani pacifisti con molotov e coltelli"

Che strani pacifisti viaggiavano a bordo della «Mavi Marmara». La nave teatro dell’abbordaggio delle forze speciali israeliane conclusosi con il massacro di una decina di persone trasportava gente armata di coltelli e bastoni, che hanno usato generosamente; gente che ha lanciato bottiglie molotov; e che ha anche ferito diversi soldati israeliani, oltre a scaraventarne uno, sbarcato sul ponte della nave da un elicottero, dall’altezza di dieci metri.
Strani pacifisti davvero. Preparati a usare una violenza brutale, tanto da prendere di sorpresa gli incursori della marina israeliana che si aspettavano di dover contrastare al massimo qualche forma di resistenza più o meno passiva. E invece no. «Quelli volevano ammazzarci - ha detto ai media israeliani “capitano R.”, un membro del secondo commando che si è calato dall’elicottero sulla nave turca -. Ognuno di loro che ci si avvicinava voleva ammazzarci».
Capitano R. ha raccontato una storia drammatica, sostenendo che i tre quarti dei “pacifisti” ha partecipato a quello che la marina israeliana ha definito «un linciaggio». «Mi sono calato con la corda per secondo - ha ricostruito -. Il mio commilitone che è sceso per primo è stato circondato da un gruppo di persone. All’inizio era una lotta uno contro uno, poi ne sono arrivati sempre di più. Ho dovuto affrontare terroristi armati di coltelli e bastoni. Quando uno di loro è venuto verso di me con un coltello ho dovuto sparare».
L’ufficiale racconta come sia poi stato scagliato sul ponte sottostante. «A quel punto una ventina di persone sono venute su di me da ogni direzione. Mi sono saltati addosso e mi hanno gettato di sotto (un’immagine tratta da un filmato documenta questo fatto, ndr)». Ma anche lì la situazione aveva poco a che fare con la resistenza passiva in stile gandhiano dei pacifisti: «Ho sentito la lama di un coltello nello stomaco. Con un altro soldato siamo riusciti a saltare in mare».
Un filmato dell’esercito diffuso dalla Tv israeliana mostra l’esplosione a bordo di una bottiglia molotov. E la ricostruzione parla di attivisti in attesa con spranghe dei soldati che si calavano dagli elicotteri. Le corde gettate dall’alto sono state legate all’antenna per mettere in difficoltà gli elicotteri e i soldati gettati a terra e colpiti anche con coltelli e biglie di vetro. Un militare ha detto che gli attivisti filo-palestinesi hanno anche sparato contro il commando.
Tutt’altri i contenuti dei racconti dei “pacifisti” della Marmara. «Non avevamo armi a bordo», dice la deputata arabo-israeliana Hanin Zuabi. Non spiega, però, come è possibile che sette militari israeliani siano rimasti feriti, due gravemente. Norman Paech, ex deputato del partito tedesco di estrema sinistra «Die Linke», assicura di aver «visto personalmente» che a bordo sono stati usati «per difesa» solo bastoni di legno. Un vero pacifista, anche lui.
Il Giornale-Guglielmo Sasinini: " Macchè disarmati, sparavano dai boccaporti 
Come capita molto spesso nelle famiglie israeliane, la storia e le esperienze dei padri finiscono col coinvolgere anche i figli. Il mio amico Hfrem, autorevole giornalista di un importante quotidiano di Tel Aviv, nell'ottobre del 2000, mentre era impegnato come ufficiale della riserva nei territori palestinesi, si trovò a vivere l'orrore di Ramallah, quando due giovani riservisti disarmati vennero catturati, letteralmente massacrati di botte e i loro corpi maciullati furono gettati da una finestra della locale stazione della polizia palestinese, sotto l'occhio delle telecamere.
Un orrore indicibile, una barbarie e uno scempio inammissibile per chiunque, tanto più inaccettabile per la cultura e la religiosità ebraica. E quello stesso incubo ha avvolto lunedì notte Itai, il più giovane dei figli di Hfrem, incursore dell'S'13 (HaShayetet, le forze speciali della marina israeliana).
«Vedevamo attraverso i binocoli all'infrarosso le navi avvicinarsi, incuranti dei nostri avvertimenti», racconta Itai, rileggendo l'ultimo appello radio del suo comandante: «Nave Mavi Marmara, vi state avvicinando a un'area di ostilità che è sotto blocco navale. L'area di Gaza, la regione costiera e il porto di Gaza sono chiusi a tutto il traffico marittimo. Vi invitiamo a dirigervi immediatamente verso il porto di Ashdod, per i controlli del vostro carico, dopo di che la consegna delle forniture umanitarie avverrà attraverso i valichi ufficiali via terra, e sotto il vostro controllo». La risposta è stata: «Negativo, negativo. La nostra destinazione è Gaza. Nessuno ci fermerà».
«Da quel momento - prosegue Itai - tutto si è accelerato, ci siamo imbarcati sugli elicotteri con il preciso ordine di abbordare la Mavi Marmara e di convincere, ma senza alcun atteggiamento aggressivo, il comandante a fermare subito le macchine. In ogni caso non eravamo autorizzati a fare ricorso alle armi, se non in caso estremo. Il mio team aveva fucili caricati con proiettili di gomma e gas antisommossa».
«Quando siamo arrivati sulla verticale della Mavi Marmara abbiamo visto che la nostra prima squadra che si era calata sul ponte era letteralmente circondata da decine di individui armati di spranghe di ferro, coltelli, asce, catene, una folla urlante che aggrediva i nostri soldati con una violenza spaventosa. Abbiamo visto lanciare oltre la murata uno dei nostri, non sapevamo se era vivo o morto. Tre commilitoni giacevano sul ponte, in una enorme pozza di sangue, nonostante fossero esanimi continuavano ad essere brutalmente picchiati con degli idranti. A quel punto siamo intervenuti, ci siamo calati sul ponte e lì abbiamo visto che il gruppo dei cosiddetti pacifisti era molto numeroso e ben organizzato».
Itai, che finora ha parlato tutto d'un fiato, fa una lunga pausa. Per poi riprendere: «Ho avuto la sensazione di rivivere l'incubo di mio padre, il linciaggio di Ramallah. Ognuno dei miei compagni appena calato dall'elicottero veniva circondato da tre o quattro di loro, lo afferravano, lo isolavano in un angolo della nave e quindi lo picchiavano selvaggiamente, altri cercavano di trascinare i nostri sotto coperta. Come tutti quelli che erano scesi con me, eravamo a mani nude coi nostri fucili caricati con proiettili di gomma».
«Ho cercato di impugnare il mio fucile ma un colpo ha spezzato la mano che teneva l'arma, poi hanno iniziato a spararci addosso con armi da fuoco, erano proiettili veri e provenivano da vari boccaporti della nave. Ho impugnato la pistola con la sinistra e ho sparato in quella direzione. Poi ho visto calare dall'alto decine di miei commilitoni... Altro che pacifisti: quelli sono chiaramente dei provocatori, organizzati, venuti per attaccarci, ed io...».
Hfrem interrompe con un sorriso dolce il figlio, invitandolo ad andare a riposare. «Sai - mi dice -, si deve riprendere dallo shock, sapessi quanto ci ho messo io dopo Ramallah...».
Il Mattino-David Meghnagi: " Alla pace non serve un capro espiatorio"

David Meghnagi
Ridurre ad una matrice unica quanto accade a Teheran e a Kabul, a Karachi e nel Sudan meridionale con ciò che accade a Tel Aviv e nei territori palestinesi è un’offesa alla ragione e al buon senso. È un atto di diniego di fronte a problemi che abbracciano aree più ampie, dalla questione kurda alla tragedia armena, dal problema irrisolto di Cipro al dramma dei copti in Egitto e delle popolazioni animiste e cristiane del Sudan. Per non parlare del conflitto per l’acqua che può avere conseguenze devastanti e dell’arbitraria divisione dei confini sanciti dalle potenze coloniali, della mancata definizione di uno statuto di protezione di ciò che resta delle civiltà religiose esistenti prima delle invasioni islamiche. Un milione e mezzo di armeni sono stati uccisi. Tutto questo è avvenuto molto prima che lo Stato d’Israele nascesse. Il dolore per la perdita di vite umane non può essere a senso unico. La compassione deve estendersi a tutti. Altrimenti si è dei calcolati cinici, cannibali mascherati che si nutrono delle tragedie altrui e che strumentalmente parlano di pace e fratellanza. Nel dibattito politico sul Vicino Oriente è già accaduto molte volte e continuerà purtroppo ad accadere anche in futuro. Nel rispetto per il dolore delle vite umane, bisogna essere chiari, chiamare le cose per nome. L’azione contro il blocco navale israeliano non era un’azione umanitaria volta a migliorare le condizioni di vita dei palestinesi. Se era questo l’obiettivo dei “pacifisti”, vi erano molti altri modi. Chi ha organizzato il viaggio cercava lo scontro e vi si era accuratamente preparato sapendo che avrebbe pagato di più nella guerra mediatica condotta contro Israele. Chi cercava lo scontro fisico vi si era preparato sapendo che se ci scappava il morto, era una “vittoria”. I video parlano ormai disponibili su Internet sono chiari. Un soldato è stato gettato in mare. Si può discutere sui modi in cui gli israeliani hanno gestito l’intera operazione. Avrebbero dovuto essere più accorti, mobilitare più forze per controllare meglio la situazione ed evitare di dover rispondere con le armi per difendere la vita. Ma questo è un altro problema. Per essere moralmente e politicamente credibile, chi si oppone al blocco dovrebbe spiegare anche in quale maniera si procederà per evitare che a Gaza si ripeta quanto è già accaduto in Libano dove gli iraniani hanno fatto schierare missili in grado di colpire Haifa e Tel Aviv. Dovrebbe avere l’onestà di riconoscere che a Gaza è al potere un’organizzazione (Hamas) antisemita che ha come programma la distruzione di Israele e che dopo essere giunta al potere ha eliminato ogni forma di dissenso, assassinato e costretto alla fuga gli oppositori. Bisogna spiegare perché i campi agricoli coltivati con cura dagli israeliani, dopo il ritiro sono diventati sterpaglia per volontà di Hamas. Se non si riconosce questo, vuol dire che si è in malafede e che l’obiettivo non è la composizione politica del conflitto, ma la trasformazione di Israele nel capro espiatorio di tutto ciò che non funziona nel mondo, appunto uno stato paria. Non a caso coloro che chiedono il boicottaggio delle università israeliane, tacciono o sono reticenti quando si tratta di prendere posizione contro la tortura e la violazione dei diritti umani nei principali Stati arabi della regione. Per non parlare dello sfruttamento minorile, dell’oppressione delle donne, del deterioramento delle condizioni di vita delle minoranze cristiane. Il tentativo di forzare il blocco è stato il frutto di una regia articolata messa in opera da organizzazioni che mettono in discussione il diritto di Israele a esistere, con il sostegno e la compiacenza di Stati che non eccellono certo per il rispetto della democrazia e dei diritti umani dove uno scrittore può essere minacciato di morte per avere scritto un romanzo in cui si ricorda il dolore del popolo armeno. Una breve cronistoria delle ultime settimane potrebbe essere d’aiuto. Dapprima c’è stato il boicottaggio delle università con la moltiplicazione di iniziative per l’interruzione dei rapporti con le università israeliane. Poi è arrivata la campagna per il boicottaggio dei prodotti israeliani, cosa che è già avvenuta impunemente con atti di intimidazione documentati su Yu tube in alcuni supermercati di Parigi. Infine c’è stata l’azione congiunta turco egiziana alle Nazioni Unite per chiedere a Israele di dichiarare se ha o meno armi nucleari. Tutto questo mentre l’Iran procede rapidamente a dotarsi armamenti nucleari e minaccia Israele di distruzione. Il boicottaggio degli accademici e dei prodotti israeliani non ha avuto successo, ma ha sortito i suoi effetti perversi costringendo chi è vi si oppone a giocare in difesa, a dover spiegare ciò che dovrebbe essere scontato. Non avere compresso che la campagna per il boicottaggio è parte di una strategia più ampia con attori diversi che giocano in proprio, è stato per gli israeliani un errore politico e culturale. Nel mondo odierno le guerre si combattono su molti fronti diversi. Accanto alla forza militare e alle ragioni della politica, bisogna inventare un modo per comunicare e per spiegare.
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