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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - La Stampa Rassegna Stampa
01.06.2010 Israele blocca la flotilla diretta a Gaza
Cronache di Francesco Battistini, Francesca Paci

Testata:Corriere della Sera - La Stampa
Autore: Francesco Battistini - Francesca Paci
Titolo: «Massacro sulla nave degli attivisti. Lo choc del mondo - Haifa, paura della terza Intifada»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 01/06/2010, a pag. 2, la cronaca di Francesco Battistini dal titolo " Massacro sulla nave degli attivisti. Lo choc del mondo ", preceduto dal nostro commento. Dalla STAMPA, a pag. 6, l'articolo di Francesca Paci dal titolo " Haifa, paura della terza Intifada ", preceduto dal nostro commento. Ecco i due articoli:

CORRIERE della SERA - Francesco Battistini : " Massacro sulla nave degli attivisti. Lo choc del mondo "

Non è ben chiaro per quale motivo nella cronaca non venga specificato che anche i 'pacifisti' erano armati. Anche il titolo è sbilanciato pro flotilla.
Ma non viene chiarito nemmeno il fatto che Israele abbia imposto un blocco a Gaza per impedire il riarmo di Hamas. Forse, se venisse scritto negli articoli, al lettore risulterebbe più semplice comprendere la situazione. Israele non ha attaccato dei pacifisti che volevano aiutare la popolazione, ma dei sostenitori di Hamas.
Ecco l'articolo:

GERUSALEMME — Il mare color del sangue. Di notte. Senza testimoni. Non si sa con esattezza quanti morti siano, forse una decina, forse il doppio. Una trentina i feriti, soldati compresi. Non si sa bene come siano andate le cose: i pacifisti sono stati presi, rinchiusi nel porto di Ashdod, all'aeroporto Ben Gurion o nelle celle di Beersheva, probabilmente in attesa di processo. Nessun’altra versione che non sia quella ufficiale. Come promesso, Israele non fa sconti. E Free Gaza, la flottiglia composta da turchi, europei, americani, che era salpata da Cipro e che da giorni annunciava di voler rompere il blocco intorno alla Striscia, finisce sotto il fuoco in un violento blitz della Marina. Sparatoria sulla Mavi Marmara, l'ammiraglia turca: quella dell'ong Ihh, che Israele accusa di legami troppo stretti con Hamas, dove la Marina sostiene d'avere trovato armi. Vivi, ma senza che nessuno sia riuscito a contattarli, i cinque italiani a bordo. Con un'altra, sola, buona notizia: la pelle (forse) salva dello sceicco Rayed Salah, leader islamico degli arabi israeliani, per il quale i palestinesi sarebbero pronti a scatenare una nuova intifada.

Versioni incrociate, guerra di verità. E intorno il mondo sotto choc.

Prima nelle piazze, che si scaldano ad Ankara e a Istanbul (l'ambasciata e il consolato israeliani quasi assaltati) e in tutto il mondo arabo, dal Cairo ad Amman. Poi nei palazzi: l'ira di Tayyip Erdogan, il premier turco, l'amico ormai diventato ex dai tempi della guerra di Gaza, che richiama in patria il suo ambasciatore, parla di «terrorismo di Stato», ottiene una convocazione urgente della Nato perché considera violata la sua sovranità. Mezza Ue convoca gli ambasciatori israeliani per chiarimenti: Grecia, Spagna, Svezia, Paesi che avevano pacifisti nella flottiglia, chiedono un'inchiesta internazionale. Atene cancella anche le manovre militari congiunte con Israele. Si riunisce il Consiglio di sicurezza dell’Onu, il segretario generale Ban Ki-moon è «scioccato», mentre viene cancellato dall'agenda l'incontro fra Obama e il premier israeliano Netanyahu, che doveva servire a ricucire rapporti logori. Le città israeliane vicino al Libano e a Gaza sono in allerta, in tutto il Paese richiamati molti riservisti. «Un crimine di guerra», protesta l'Autorità palestinese. Sono stati proclamati tre giorni di lutto. Ma non è detto che bastino, a placare la rabbia.

La STAMPA - Francesca Paci : " Haifa, paura della terza Intifada "

Francesca Paci descrive la situazione a Gaza. Facciamo notare che anche lei attribuisce alla famosa passeggiata di Sharon sulla spianata delle Moschee la responsabilità dello scoppio della seconda intifada. " Dieci anni fa la «passeggiata» del premier Sharon sulla Spianata delle Moschee accese la sanguinosa seconda intifada. ".
La seconda intifada era organizzata da mesi. Lo ha ammesso lo stesso Arafat. Altro che Sharon, la passeggiata non è stata altro che un pretesto. Allo stesso modo, se scoppierà una terza intifada non sarà per via del blocco della flotilla, ma significherà che era organizzata da tempo.
Ecco l'articolo:


Haifa

Nonostante l’attentato israeliano alla pace lo sceicco è vivo, insciallah» dice Assad Khalalk, imam della moschea Istiklal, marciando insieme a 300 persone lungo Shabtail Levi street, nel sobborgo arabo Hagefen. Lo sceicco, al secolo Raed Sallah, è il leader del Movimento islamico israeliano, un gruppo massimalista vicino ad Hamas, a bordo della Marmara al momento del blitz e inizialmente dato per agonizzante. Per ore, temendolo moribondo, i simpatizzanti si sono scontrati con gli agenti a Um el-Fahem, sua città d’origine a 60 chilometri da Tel Aviv. Sapere che Sallah è vivo placa le fiamme ma non spegne l’incendio. Se tra i minareti di Haifa pacifisti e comunisti israeliani sfilano dietro chierici intonanti «Allah uakbar», Allah è grande, davanti all’ospedale Rambam, dove sono ricoverati i militari israeliani feriti nell’attacco, Avital, sandali e fazzoletto caratteristico dei coloni, brandisce il cartello «Uccidete tutti gli arabi».
Quando nel 1961 lasciò la Birmania per trasferirsi a Tel Aviv, il professor Hubert Loyon non immaginava di ritrovarsi un giorno in una piazza di Haifa a sventolare la bandiera palestinese «in memoria delle vittime dell’assalto israeliano alla nave dei militanti internazionali». Per lui, non ebreo, la terra promessa era quella del socialismo dal volto umano. Ora, capelli bianchi arruffati, scandisce slogan in arabo a pochi passi dall’ateneo dove fino a ieri ha insegnato urbanistica, indifferente all’afa che gl’incolla addosso la maglietta di Gush Shalom, il movimento pacifista fondato da Uri Avnery: «Capii presto che la realtà era diversa, ma le cose sono peggiorate negli anni. Man mano che Israele, sempre più forte, rinunciava a negoziare, lo Stato nato come un’utopia antinazista diventava totalitario». Il blitz sulla Marmara, urla, mentre il megafono ripete il mantra «Gaza libera», è la prova: «Il ritorno di Netanyahu dall’America dimostra che per la prima volta il governo israeliano sa di aver messo il suo popolo contro il mondo: non potrà continuare a lungo».
Se mai è veramente esistito, l’armistizio tra il governo di Gerusalemme e il milione e trecentomila arabi-israeliani che rapresentano il 20% della popolazione sembra avere i minuti contati. Mentre da Nazareth al Negev riecheggia il tam tam dello sciopero generale indetto per oggi, Haifa, la capitale della minoranza più riottosa d’Israele, tira fuori la rabbia sepolta sotto il quotidiano esercizio della convivenza. «Basta vedere come erano armati i sedicenti pacifisti per capire che si tratta d’una provocazione araba» borbotta Lihi, titolare del cafè Mary, piccola friggitoria sotto l’insegna con le falafel e la stella di David, vicino al porto. Dall’altro lato della strada Mahmoud ripone in negozio i boxer da mare a 20 shekel e rimugina una teoria analoga e simmetrica «E’ una provocazione israeliana, vogliono portarci alla terza intifada per colpirci a morte come fecero dopo la seconda». Davanti a lui, alla fermata del 331, dove ogni indicazione è ripetuta in due lingue, mamma Fatima, velata, tiene per mano il piccolo Tawfik con la t-shirt di Arafat, morto a novembre del 2004, un mese prima che lui nascesse.
«E’ presto per capire ma i presupposti sono preoccupanti perché i giovani arabi-israeliani sono più radicali dei genitori» osserva Gabriel Ben-Dor, direttore del National Security Studies Center dell’università di Haifa. Secondo il sociologo Sami Smooha il 70% degli eredi dei palestinesi finiti al di qua della partizione del ‘48 accetta l’identità ebraica d'Israele ma ne rifiuta quella sionista definendola «razzista». Gli israeliani, d’altro canto, li considerano la terza colonna del terrorismo, almeno demografico: cellule dormienti in attesa del giorno del giudizio.
«Abbiamo il passaporto ma siamo cittadini di serie B, mentre tutti i palazzi di Haifa abitati da ebrei hanno i rifugi antiaerei nei quartieri arabi c’è n’è a malapena uno nelle scuole principali» accusa il ventiduenne Omar Somri, studente di legge e membro di Hadash, il partito comunista israeliano. I viali del campus ingombri di bottiglie testimoniano la guerriglia contro la polizia. Con i compagni dalle maglie piene di citazioni, da Mandela al Che, distribuisce volantini sullo sciopero di oggi: «Il raid può essere l’ultimo atto della guerra civile in corso dentro Israele dal ‘48». Basta contare i blindati per le strade per capire il livello d’allerta esploso dopo mesi di tensione per la proposta del governo d’un giuramento di lealtà allo Stato ebraico. Dieci anni fa la «passeggiata» del premier Sharon sulla Spianata delle Moschee accese la sanguinosa seconda intifada.
«Chi vuole la convivenza avrà ragione della follia del mio governo, ebrei e arabi-israeliani raziocinanti condividono troppo per abbandonarsi alla rabbia» confida Dudu Amitai, portavoce di Givat Haviva, l’associazione israeliana che si occupa della minoranza araba. Sarhan Mahmed, il Patch Adams arabo che si veste da clown per far ridere i piccoli malati degli ospedali israeliani, gira il Paese fotografando quelli che manifestano mano nella mano per la rivista bilingue al Sennara. Meglio insieme per la pace che divisi sulla guerra. Peccato che le due narrative non siano mai state tanto distanti come oggi.

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