Chi sta affamando davvero Gaza Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello
Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.
Perchè sarebbe un errore abbandonare l'Afghanistan Analisi di Carlo Panella, Maurizio Molinari
Testata:Libero - La Stampa Autore: Carlo Panella- Maurizio Molinari Titolo: «Altri due caduti ma bisogna restare - Un attacco contro la trattativa»
Riportiamo da LIBERO di oggi, 18/05/2010, a pag. 1-21, l'analisi di Carlo Panella dal titolo " Altri due caduti ma bisogna restare ". Dalla STAMPA, a pag. 1-45, l'editoriale di Maurizio Molinari dal titolo " Un attacco contro la trattativa ". Ecco i due articoli:
LIBERO - Carlo Panella : " Altri due caduti ma bisogna restare "
Carlo Panella
Due militari italiani uccisi in un agguato in Afghanistan, altri due gravemente feriti. Il fatto in Italia diventa immediatamente una questione politica. Per Berlusconi quella afghana rimane una «missione fondamentale », Calderoli invece si chiede: «Ma serve stare lì?». Così, per larga parte della giornata di ieri hanno titolato le prime pagine Internet dei principali quotidiani italiani. Titolazione corretta, perché mentre il governo, in tutte le sue componenti, a partire da Silvio Berlusconi, non solo ha reso omaggio alle vittime e si è stretto nel dolore ai famigliari, ma ha anche mostrato determinazione nel continuare la missione afgana, Roberto Calderoli, che è ministro – va ricordato - ha seminato dubbi: «Al di là delle vite umane che fanno spaccare il cuore, bisogna verificare se questi sacrifici servono o meno a qualcosa». Peggio ancora, Calderoli ha mostrato dinon avereun grandechiarezza sultema perché ha anche pronunciato una frase incauta: «Abbiamo spesso espresso perplessità sulla possibilità di esportare la democrazia». EQUIVOCO DI FONDO Ma la missione di cui si parla è quella in Afghanistan, in cui le truppe italiane in ambito Nato e su mandato Onu hanno la “mission” di contrastare il terrorismo islamico. Non è la missione in Iraq, da tempo conclusa dall’Italia, in cui appunto il fine dell’iniziativa degli Usa e della Coalizione dei Volonterosi era quello di “esportare la democrazia” (peral - tro con un crescente successo). Lo stesso terrorismo islamico contro cui, e giustamente, si levano gli strali della Lega anche nella sua battaglia contro il proliferare di moschee incontrollate in decine di città e paesi del Nord. Naturalmente, i dubbi “di opportunità”del ministro Calderoli, sono subito stati affiancati – e il fattononècasuale - da quelli diRosyBindichehainvocato «una riflessione politica con un serio confronto in Parlamento sulle ragioni e modalità della nostra presenza in Afghanistan». A fronte di una reazione seria e compatta di tutti gli esponenti del governo, della maggioranza, come del Pd e dell’Udc (non dell’Idv, che invoca una “exit strategy”), la posizione di Calderoli ha creato una tale crepa politica nell’ese - cutivo, che molto saggiamente Umberto Bossi ha sentito il dovere di stoppare il suo ministro con parole ferme: «Io non penso che possiamo scappare. Sarebbe una cosa sentita dal mondo occidentale come una fuga difficilmente spiegabile e che, probabilmente, avrebbe delle conseguenze gravi sul governo. Le guerre non sono certo una cosa bella, perché poi purtroppo ci sono i morti, ma questo è un governo che guarda alle cose come sono, che ha degli alleati, e che mantiene la parola data. Sono molto preoccupato e triste perché tornano i morti e quindi bisogna ricordare chi muore per una causa giusta e importante». SINDROME DELL’8 SETTEMBRE Dunque «una causa giusta e importante» e anche un richiamo fermo da parte di Bossi al contrasto a quel maledetta «sindrome dell’8 settembre» che continua a contagiare purtroppo tanta parte del nostro ceto politico (non certo le nostre Forze Armate che danno da 20 anni prova di una straordinaria professionalità e fermezza, oltre che di sacrificio, in tutte le missioni internazionali). Il tutto, non senza un saggio richiamo di Bossi alle «conseguenze gravi sul governo » che vi sarebbero se si seguisse il modo di ragionare di Calderoli. Partita chiusa? Purtroppo no, perché poche ore dopo Calderoli ha ribadito la sua posizione: «Confermo quanto ho detto questa mattina e cioè che dobbiamo ripensare le missioni militari, e sottolineo il plurale, all’estero». Sfugge dunque all’estroso ministro quello che invece è chiarissimo a Umberto Bossi e a Roberto Maroni: i nostri soldati, cosìcomei nostri carabinieri e poliziotti stanno dando eccellente prova di sé davanti al mondo, ma hanno diritto – nonsolo il legittimo desiderio - di sapere che rischiano la vita sotto un “comando politico”sicuro e solidale. Maroni, eccellente ministro degli Interni, su questo punto ha dato ottima prova e i risultati straordinari conseguiti nella lotta al crimine organizzato in questi due anni derivano anche dal fatto che ogni poliziotto e ogni carabiniere è sicuro di avere il ministro in persona al suo fianco, anche e soprattutto quando rischia la vita. Senza bisogno di equivoche “verifiche”.
La STAMPA - Maurizio Molinari : " Un attacco contro la trattativa "
Maurizio Molinari
L’attentato nel quale sono morti due militari italiani dimostra la volontà dei taleban di tenere sotto pressione la Nato nell’incombere dei due eventi che possono decidere le sorti dell’Afghanistan: l’assemblea dei capi tribali e l’offensiva di Kandahar in estate. Per il 29 maggio il presidente Karzai ha convocato la tradizionale Loya Jirga sulla quale conta per coinvolgere nell’apparato di governo i taleban pronti a voltare le spalle al Mullah Omar, a Osama bin Laden e alla lotta armata. La scelta è di Karzai, ma Washington la sostiene come è emerso dal summit della scorsa settimana nello Studio Ovale e come confermano episodi come quello che ha visto il colonnello dell’Us Army Robert Brown scrivere di proprio pugno una lettera al capo guerrigliero Mullah Sadiq - ricercato dalla Cia dal 2005 e nascosto ai confini con il Pakistan - per invitarlo a partecipare alla ricostruzione dell’Afghanistan. La mano tesa ai taleban punta a ridurne la resistenza quando McChrystal darà il via libera all’offensiva di Kandahar - in una finestra di tempo che si apre a giugno - puntando a eliminare le roccaforti dei guerriglieri irriducibili, alimentate da armi, volontari e rifornimenti che arrivano dalle aree tribali del Pakistan. Questa strategia fatta di offerte di pace e preparativi di guerra punta a «modificare la situazione sul terreno», come dice il presidente americano Barack Obama, per arrivare al luglio 2011 in una condizione di sicurezza tale da consentire l’inizio del passaggio delle consegne di singoli distretti territoriali fra militari Nato e truppe regolari afghane. Ma a questa direzione di marcia, che Obama condivide con Karzai e la Nato, i taleban oppongono la loro. Tornano a piccoli gruppi a Marjah, la città riconquistata dai marines a febbraio, per terrorizzare di notte gli agricoltori che al mattino salutano i soldati americani. Bersagliano Kabul di attentati preferendo gli obiettivi governativi per palesare la debolezza di Karzai, obbligato a muoversi protetto da nugoli di guardie del corpo. Effettuano incursioni nei distretti a ridosso della capitale ripetendo la strategia con cui i mujaheddin islamici sconfissero l’Armata Rossa. Consolidano le basi nel Waziristan pakistano evadendo la caccia dei droni della Cia e beffandosi dei militari di Islamabad. E adoperano i potenti ordigni «Ied» lasciati lungo il ciglio delle strade contando di uccidere più soldati Nato possibile, ostacolando i movimenti di mezzi fra le diverse basi per paralizzare le operazioni. Se l’Alleanza Atlantica ha una strategia che punta ad accelerare i tempi della ricostruzione civile, i taleban puntano invece alla guerra infinita consapevoli che le opinioni pubbliche dei Paesi occidentali non riescono neanche a immaginare un simile scenario. Il paradosso è che a decidere chi prevarrà potrebbero essere un pugno di comandanti taleban. «Ci troviamo in un momento di passaggio - riassume Stephen Biddle, veterano della guerra al terrorismo che adesso indossa giacca e cravatta dietro una scrivania del Council on Foreign Relations di Washington - nel quale quanto avverrà dipende dalle decisioni che saranno prese da un ristretto numero di capi taleban». Si tratta di guerrieri delle montagne che vivono isolati con i propri uomini, dei quali in Occidente si ignorano anche i nomi, fedeli a nessuno, sempre pronti a cambiare alleato per sfruttare l’opzione migliore ma molto legati al territorio e capaci di sfuggire ai droni passando giorni interi senza muoversi, parlando a monosillabi per non farsi identificare dai sensori più sofisticati. Karzai è convinto di riuscire a convincerne una buona parte a venire alla Loya Jirga in cambio della promessa di condividere il potere e l’intelligence britannica crede che abbia qualche possibilità di riuscirci davvero, ma a Washington c’è più cautela e, comunque andrà l’assemblea tribale, McChrystal si prepara a dar luce verde all’assalto a Kandahar. Nella convinzione che la fine del conflitto non è ancora vicina. E’ un’orizzonte di guerra che preannuncia per la Nato un delicato summit a Lisbona: la riunione autunnale immaginata per concordare il nuovo concetto strategico, imperniato sulla necessità di affrontare le nuove minacce del XXI secolo, potrebbe doversi confrontare con la perdurante sfida di una guerriglia medioevale capace di resistere per quasi dieci anni all’armata più potente del Pianeta. Forse non è un caso che in queste settimane i diplomatici al lavoro sull’agenda del vertice sono tornati a discutere di Afghanistan, dopo aver tanto trattato di lotta alla proliferazione.
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