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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Foglio - Il Giornale - Corriere della Sera Rassegna Stampa
05.05.2010 Gli interventi occidentali nel Terzo Mondo, quasi sempre negativi
Commenti di Toni Capuozzo, Carlo Lottieri, Dambisa Moyo

Testata:Il Foglio - Il Giornale - Corriere della Sera
Autore: Toni Capuozzo - Carlo Lottieri - Dambisa Moyo
Titolo: «Come distinguere una buona missione umanitaria da una così così - La carità uccide l’Africa, il mercato la salverà - Il fabbricante di zanzariere e gli aiuti che lo fanno fallire»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 05/05/2010, a pag. 3, l'articolo di Toni Capuozzo dal titolo "Come distinguere una buona missione umanitaria da una così così". Dal GIORNALE, a pag. 27, l'articolo di Carlo Lottieri dal titolo "La carità uccide l’Africa, il mercato la salverà ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 21, l'articolo di Dambisa Moyo dal titolo " Il fabbricante di zanzariere e gli aiuti che lo fanno fallire ". Ecco i pezzi:

Il FOGLIO - Toni Capuozzo : " Come distinguere una buona missione umanitaria da una così così "


Emergency, una 'missione così così'

Giorni di dichiarazione dei redditi, e sono in tanti a bussare per il 5 per mille. Non me ne intendo, ma so che a non indicare alcuna associazione, il tuo modesto contributo sarà spalmato tra tutti. E, ovviamente, diventa un gioco della Torre di Pisa, perché le cause sono tante, e apparentemente tutte buone. Per me, in questo caso, è solo l’occasione di guardare un’altra volta al mondo del volontariato e delle organizzazioni non governative. Ne conosco alcune piuttosto da vicino, e conosco la bontà del loro lavoro. Se posso, non manco mai al premio Takunda del Cesvi, a Bergamo. Non potrò andare con l’aereo ospedale di Canguro Flights in Burkina Faso, la prima missione per curare, a bordo di un velivolo trasformato in ambulatorio oculistico, le cecità curabili. Quando vado a qualche incontro dei Lions o dei Rotary, chiedo si sottoscriva a metà per due organizzazioni. La prima è una piccola onlus che ha contribuito ad attrezzare un’area destinata, nel Centro tumori di Aviano, ai giovani troppo grandi per restare nei reparti pediatrici e troppo giovani per condividere le corsie con gli adulti e gli anziani. Una volta ho trovato la forza di andarci, in quell’area giovani, dopo aver fumato quattro cinque sigarette all’ingresso, e ne sono uscito incoraggiato dai ragazzi ricoverati, ciò che ho cercato di spiegare nella prefazione di un libro che raccoglie le loro esperienze. L’altra metà va all’associazione sarajevese Ogbh che, guidata dal vecchio e inossidabile generale Jovan Divjak, che fu il numero due dell’armata che difese la città dall’assedio, oggi si occupa dei giovani handicappati di guerra, e dei ragazzi talentuosi ma senza mezzi per studiare. Mi sono imbattuto in questa organizzazione dal basso, seguendo le sorti di un giovane sarajevese, aiutato dal vecchio combattente diventato un monaco birmano nel campo di battaglia fumante. Quando ho potuto ho cercato di aiutare organizzazioni che curano i denti dei ragazzi di strada di Bucarest, o intervengono sui labbri leporini dei bambini iracheni. Ho fatto spettacoli per l’Abruzzo del terremoto e per i grandi ustionati di Herat, e annunciato con convinzione tante raccolte di fondi via sms o attraverso la vendita di piantine nelle piazze italiane. Due settimane fa sono andato sull’Appennino pistoiese in un centro di vacanze per bambini poco fortunati, e da qualche parte su Internet c’è uno spot in cui sostengo l’attività di un’associazione di famiglie di persone autistiche. Leggo Vita, il periodico del terzo settore, e faccio quel che posso, quando mi capita. Tutto questo per dire che non sono insensibile alle buone cause, rimanendo un affezionato peccatore e affascinato dal male quanto e più che dal bene. Però ho dei criteri, in questo. Pur legato ai problemi del mondo lontano, per affetto, curiosità, gusto dell’avventura, mi piace chi si occupa anche dei problemi di casa nostra, chi sa considerare un’ingiustizia la condizione della donna afghana, ma non dimentica la vecchietta sola del piano di sotto. Mi piace chi non personalizza troppo il proprio impegno, chi non trasforma un’associazione in una setta o in un partito. L’altro giorno cercavo le tracce di chi si occupava delle donne “vetriolate” in Pakistan e Bangladesh, contando sull’aiuto di medici arricchiti dalla chirurgia estetica, ma non insensibili a richiami più urgenti e necessari. Mi hanno risposto che c’è stata una scissione, e tutto è fermo. Pur nobili che fossero i motivi della scissione, non ho voluto saperli. Mi piace chi fa delle scelte che spesso sono esistenziali ma sa tenere la sua bandiera in un angolo, come i francescani di Milano o il gruppo legato alla Compagnia delle Opere che si dà da fare nel carcere di Padova. Non mi piacciono le ong sempre pronte a sedere ai tavoli della pace – a me piace la gente che lavora sotto i tavoli, o li ribalta – e a sfilare nei cortei, come se il volontariato fosse il metadone della droga-militanza. E qui è inevitabile arrivare a Emergency, senza dover ritornare a “Un ponte per Baghdad”. Emergency, che giustamente compra pagine di giornali e spot televisivi, in vista del 5 per mille. Alcune cose, sul ruolo della “testimonianza”, le ho già dette, e qui voglio aggiungerne altre che attengono al lavoro umanitario. Quello che mi piace meno Di Emergency mi piace che non dimentichi l’Italia, avendo un centro a Palermo. Mi affascina l’idea che abbia fatto del suo centro sudanese un luogo della cardiochirurgia d’avanguardia, non destinando all’Africa gli avanzi. Mi piace l’impegno difficile di tanti medici e infermieri, anche se trasparenza vorrebbe che fosse chiaro il salario che accompagna il lavoro volontario (non c’è nessuna vergogna a essere pagati, come non c’era nessuna vergogna nella scelta professionale di Quattrocchi in Iraq, accompagnata nella tomba dal buon Vauro con una bandiera in cui a mezz’asta era il dollaro). Quello che mi piace meno è la centralità del lavoro italiano, come se i progetti servissero da sfogo a una militanza italiana, e non dovessero avere lo scopo di rendere autonomi i soggetti aiutati, e quasi eternizzassero la distinzione tra i protagonisti dell’aiuto e gli oggetti passivi dell’aiuto. So che in Thailandia Emergency fatica a chiudere l’ospedale di Battabang perché non c’è personale locale in grado di raccoglierne l’eredità. A Lashkargah, andato via il personale italiano, tutto è fermo. E tra gli ingiustamente arrestati c’era persino un infermiere italiano: e che, in dieci anni non si è riusciti a formare un infermiere afghano? A me piace chi, invece di distribuire scatolette di tonno, insegna ad adoperare la rete da pesca, e poi saluta e se ne va, lasciando uomini affrancati dalla dipendenza umanitaria. Ovvio, però, che non si è mai vista una missione cattolica dire: “Missione compiuta, andiamo altrove”, perché il core business in fondo è qualcosa di più dell’umanitario. E così per alcuni partiti che vestono i panni buoni della organizzazione non governativa. Facendo del bene, ma garantendo la propria esistenza, la propria permanenza, le proprie bandiere, invece di costruirne la provvisorietà. Visitando l’ambulatorio oculistico a bordo dell’aereoospedale ho visto un doppio binocolo nel macchinario che presiede agli interventi chirurgici. Il primo è per il medico italiano che opera, il secondo per il medico locale che impara.

Il GIORNALE - Carlo Lottieri : " La carità uccide l’Africa, il mercato la salverà "

La carità che uccide. Come gli aiuti dell'Occidente stanno devastando il Terzo mondo
Dambisa Moyo, La carità che uccide. Come gli aiuti dell'Occidente stanno devastando il Terzo Mondo (edito da Rizzoli, 260 pagine, 18,50 euro)

In principio fu Peter Bauer, un economista inglese (di origine ungherese) che nel 1983 Margaret Thatcher portò alla camera dei Lord per i suoi studi controcorrente in tema di economia dello sviluppo. A Bauer - di cui IBL Libri ha di recente pubblicato un’antologia, Dalla sussistenza allo scambio (con prefazione di Amartya Sen) - si devono i primi pionieristici studi contro gli aiuti che inondano di denaro pubblico il Terzo Mondo, causando gravissimi danni. Ma ora la lezione di Bauer inizia a dare frutti, come attesta l’emergere di intellettuali africani che vanno proponendo una via liberale alla prosperità: proponendo uno sviluppo dal basso. La ricetta, insomma, è meno aiuti e più investimenti esteri, più micro-credito, più opportunità per chi vuole esportare.

Una tra le espressioni migliori di questa nuova Africa vogliosa di mercato è una ricercatrice originaria dello Zambia, Dambisa Moyo, che dopo gli studi a Harvard e Oxford ha lavorato alla Goldman Sachs e ora ha pubblicato un volume intitolato La carità che uccide. Come gli aiuti dell'Occidente stanno devastando il Terzo Mondo (edito da Rizzoli, 260 pagine, 18,50 euro), che punta il dito anche contro le star dell’assistenzialismo planetario.

La Moyo, che lunedì sarà a Milano su invito dell’Istituto Bruno Leoni per presentare il proprio libro e difendere la sua visione di un’Africa aperta al capitalismo, non a caso ha dedicato il testo a Bauer, che per primo ebbe il merito di denunciare come il sistema degli aiuti rafforzi i regimi dispotici, affievolisca gli incentivi a intraprendere e ad ampliare gli spazi di mercato, proietti le economie più povere verso una totale passività. Senza considerare che in genere il trasferimento prende la forma del prestito di favore e in tal modo trascina le nazioni più derelitte nella spirale perversa di un indebitamento destinato a crescere esponenzialmente. Quasi senza accorgersene, ci si trova intrappolati e senza futuro.

La Moyo non teme di mettere in discussione molti miti: a partire da quello dello Stato democratico. Quando in Occidente si parla dei Paesi in via di sviluppo sembra che la prima urgenza non consista nel radicarvi la proprietà privata e il mercato, ma invece nel trapiantare a quelle latitudini un modello politico che è stato il frutto di un’evoluzione tipicamente europea e durata molti secoli. In altre parole, per la studiosa zambiese in Africa c’è primariamente bisogno di meno Stato, e non già di più democrazia: soprattutto se si considera che le nostre istituzioni sono limitate nella loro capacità di fare danni da un complesso di relazioni economiche e da una rete di istituzioni sociali le quali impediscono al potere di assorbire in sé ogni cosa.

In Africa, però, la società è molto più frammentata: per ragioni etniche, ma anche per le caratteristiche dell’economia e dei sistemi di comunicazione. Paracadutare lì lo Stato di tradizione francese ha posto le premesse per regimi spesso criminali. D’altra parte, nemmeno gli stessi programmi di aiuto hanno ignorato la Liberia di Samuel Doe, lo Zimbabwe di Robert Mugabe, l’Uganda di Idi Min o la Repubblica Centrafricana di Bokassa, a cui Werner Herzog vent’anni fa dedicò un film eccezionale, in cui compaiono formidabili sequenze su quell’incoronazione del 1977 che costò la bellezza di 22 milioni di dollari. Naturalmente la Moyo non demonizza gli aiuti privati. La sua attenzione, invece, è tutta per i programmi degli Stati occidentali e delle organizzazioni internazionali, che hanno l’effetto di rafforzare ulteriormente quel potere politico che già controlla tutto. Perché i finanziamenti da Stato a Stato consolidano proprio i regimi che sbarrano la strada a chi vuole intraprendere: si pensi che, in Africa, molto spesso ci vogliono due anni per ottenere una semplice licenza necessaria a lavorare.

All’assistenzialismo di Europa e Nord America, la Moyo contrappone lo spirito imprenditoriale dei cinesi, che stanno percorrendo in lungo e in largo l’Africa sub-sahariana non certo per distribuire regali, ma solo spinti da concretissimi interessi. Essi investono nella convinzione di fare profitti, ritenendo che in Africa ci siano non soltanto quelle materie prime di cui hanno bisogno, ma anche interlocutori interessanti e business attraenti.

Mentre i politici caritatevoli dell’Occidente hanno fallito, gli investitori cinesi (ma ormai anche indiani, turchi, brasiliani...) stanno aprendo strade nuove. Significativo è il caso del Botswana, che ha compiuto una netta liberalizzazione economica, ridotto la quota di aiuti e attirato investimenti stranieri. Come rileva la studiosa africana, questo Paese «ha perseguito con determinazione numerose opzioni economiche di mercato, che sono state la chiave del suo successo» e ha raggiunto tale risultato «smettendo di dipendere dagli altri».
Nell’Africa contemporanea la Moyo rappresenta un’avanguardia, ma non è sola. Di questa pattuglia fanno parte Thompson Ayodele (della Nigeria), June Arunga (del Kenya), Mamadou Koulibaly (della Costa d’Avorio), Franklin Cudjoe (del Ghana) e altri ancora, tutti persuasi che l’Africa debba tornare agli africani e che questi ultimi debbano essere attori, e non semplici spettatori. Fino ad oggi, tale continente è stato spesso una realtà passiva: di cui si occupano cantanti rock irlandesi come Bono o politici statunitensi come Al Gore. Non ha una voce propria, perché solo di rado ha saputo esprimere un dinamismo creativo tutto suo.

Solo spezzando la catena degli aiuti si può aiutare l’Africa a crescere: come sottolinea la Moyo, è quello che è già successo in larga parte dell’Asia più povera e ci sono davvero buone ragioni per credere che possa ripetersi anche altrove.

CORRIERE della SERA - Dambisa Moyo : "Il fabbricante di zanzariere e gli aiuti che lo fanno fallire "


Dambisa Moyo

In Africa c’è un fabbricante di zanzariere che ne produce circa cinquecento la settimana. Dà lavoro a dieci persone, ognuna delle quali (come in molti Paesi africani) deve mantenere fino a quindici famigliari. Per quanto lavorino sodo, la loro produzione non è sufficiente per combattere gli insetti portatori di malaria. Entra in scena un divo di Hollywood che fa un gran chiasso per mobilitare le masse e incitare i governi occidentali a raccogliere e inviare centomila zanzariere nella regione infestata dalla malattia, al costo di un milione di dollari. Le zanzariere arrivano e vengono distribuite: davvero una «buona azione». Col mercato inondato dalle zanzariere estere, però, il nostro fabbricante viene immediatamente estromesso dal mercato, i suoi dieci operai non possono più mantenere le centocinquanta persone che dipendono da loro (e sono ora costrette ad affidarsi alle elemosine), e, fatto non trascurabile, entro cinque anni al massimo la maggior parte delle zanzariere importate sarà lacera, danneggiata e inutilizzabile. Questo è il paradosso micro-macro: un intervento efficace a breve termine può apportare pochi benefici tangibili e di lunga durata; peggio ancora, può involontariamente minare ogni fragile possibilità di sviluppo già esistente. (...)

I fautori degli aiuti sono convinti della loro utilità, ma a loro parere i Paesi più ricchi non ne hanno elargiti a sufficienza. Sostengono che con una «grossa spinta» — un considerevole aumento degli aiuti destinati a investimenti in settori chiave — l’Africa può sfuggire alla trappola della perdurante povertà; che quello di cui ha bisogno è una quantità di aiuti maggiore, molto maggiore, di massiccia entità. Solo allora la situazione comincerà davvero a migliorare. (...) L’idea della «grossa spinta» trascura uno dei problemi fondamentali degli aiuti, cioè che siano fungibili: è facile che il denaro accantonato per uno scopo sia dirottato verso un altro, non però uno qualsiasi, ma verso programmi a volte inutili per la crescita, se non addirittura nocivi. Gli stessi sostenitori hanno riconosciuto che gli aiuti erogati in modo incondizionato presentano sempre il pericolo di venire sconsideratamente dissipati invece che investiti, di finire nelle tasche di privati, invece che nel patrimonio pubblico. Quando ciò si verifica, e accade spesso, non vengono mai inflitte vere punizioni o sanzioni; quindi, più sovvenzioni equivalgono a più corruzione. (...)

Per la maggior parte dei Paesi, una conseguenza diretta degli interventi basati sugli aiuti è stata un drastico aumento della povertà. Mentre prima degli anni Settanta la maggior parte degli indicatori economici dello Zambia era in salita, dopo un decennio la sua economia era in rovina. Bill Easterly (...), ex economista della Banca Mondiale, sottolinea che se questo Paese avesse trasformato in investimenti tutti gli aiuti ricevuti dal 1960 convogliandoli verso la crescita, all’inizio degli anni Novanta avrebbe registrato un Pil pro capite di circa 20.000 dollari, mentre ora era inferiore ai 500, un valore più basso che nel 1960; di fatto, il Pil dello Zambia dovrebbe essere almeno trenta volte quello attuale. E tra il 1970 e il 1998, quando l’erogazione di aiuti era al culmine, in Africa la povertà salì dall’11 per cento a uno sbalorditivo 66 per cento. (...) Quindi ecco qui: sessant’anni, oltre un trilione di dollari di aiuti all’Africa, e non molti risultati positivi da mostrare. Il problema è che gli aiuti non fanno più parte della potenziale soluzione del problema... ma sono il problema stesso.

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