Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Preso il terrorista di Times Square Cronache e commenti di Maurizio Molinari, Guido Olimpio, Redazione del Foglio
Testata:La Stampa - Il Foglio - Corriere della Sera Autore: Maurizio Molinari - La Redazione del Foglio - Guido Olimpio Titolo: «Preso il terrorista di Times Square - La rabbia islamista di Faisal tra gli operai di Sheridan Street - Jihadista fai da te - Residenti e indottrinati all’estero. I jihadisti che spaventano l’America»
Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 05/05/2010, a pag. 15, gli articoli di Maurizio Molinari titolati " Preso il terrorista di Times Square " e " La rabbia islamista di Faisal tra gli operai di Sheridan Street ". Dal FOGLIO, a pag. 3, l'editoriale dal titolo " Jihadista fai da te ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 18, l'articolo di Guido Olimpio dal titolo " Residenti e indottrinati all’estero. I jihadisti che spaventano l’America ". Ecco i pezzi:
La STAMPA - Maurizio Molinari : " Preso il terrorista di Times Square "
Faisal Shahzad
Il terrorista di Times Square è stato catturato lunedì notte a bordo di un aereo della compagnia «Emirates» pronto a decollare dal Kennedy alla volta di Dubai, titolare di un biglietto con destinazione finale Islamabad. Faisal Shahzad è stato fatto scendere dal volo Ek202 assieme ad altre due persone - forse gli sceriffi dell’aria - al termine di un’indagine-lampo che ha visto l’Fbi e la polizia di New York identificarlo partendo dal numero di telaio della vettura che voleva far esplodere sabato notte sulla 45ª Strada. L’errore di Shahzad è stato quello di limare il numero identificativo dei veicolo solo in uno dei punti dov’è stampato: una volta recuperata la cifra, gli agenti sono risaliti al contratto di vendita avvenuta in Connecticut due settimane prima - 1300 dollari in contanti - e quindi al suo numero di telefono. Si trattava però di una tessera prepagata e dunque l’intelligence ha dovuto collezionare tutti i dati delle telefonate fatte per arrivare a costruire una rete di orari, persone e luoghi che hanno portato al nome di Faisal Shahzad, 30 anni, pakistano naturalizzato americano. Il fatto che il terrorista sia stato preso quando era già a bordo dell’aereo che rullava sulla pista lascia intendere che per la polizia si è trattato di una corsa contro il tempo. Shahzad sentiva di avere il fiato sul collo: nell’auto che aveva guidato per arrivare al Kennedy è stata trovata una pistola 9 mm con numerosi caricatori. Ora è detenuto in uno dei penitenziari di Manhattan. La sua prima dichiarazione è stata di aver «agito da solo» ma poi ha ammesso di essere stato addestrato all’uso di esplosivi in Waziristan, la roccaforte dei jihadisti pakistani. Il ministro della Giustizia Eric Holder assicura che «stiamo seguendo ogni frammento di prova per ricostruire quanto avvenuto». La cooperazione con l’intelligence di Islamabad ha già permesso di appurare che Shahzad era appena reduce da un soggiorno di cinque mesi in Pakistan, durante i quali aveva fatto sosta a Karachi, dove aveva ricevuto una carta di identità, e a Peshawar, la culla della guerriglia dei taleban. A Karachi sono state arrestate almeno otto persone, incluso quello che la polizia locale definisce «un suo amico», di nome Tauseef, e le numerose unità dell’Fbi presenti in Pakistan sono all’opera. L’ambasciata pakistana a Washington assicura che «è troppo presto per sapere quali sono stati i motivi che hanno mosso Shahzad», aggiungendo che «forse è disturbato mentalmente». Ma il linguaggio usato dalla Casa Bianca è quello della guerra contro il terrorismo iniziata l’11 settembre 2001. «Sabato notte potevano morire centinaia di americani - ha detto il presidente Barack Obama -. La nostra nazione non sarà intimidita, faremo giustizia». Holder svela il capo d’accusa di fronte al tribunale di Manhattan: «L’intenzione era uccidere cittadini americani». E’ lo stesso che pende sul capo di Khalid Sheik Mohammed, il regista degli attacchi dell’11 settembre. A New York ora si temono intolleranze verso pakistani e il sindaco Michael Bloomberg avverte: «Non saranno tollerate». \Nato in Pakistan, Faisal Shahzad (foto) è diventato cittadino americano il 17 aprile 2009. Poco dopo è tornato nel suo Paese. La moglie e almeno un figlio si trovano adesso a Karachi, presso loro parenti. Durante l’ultimo soggiorno pachistano, Shahzad sarebbe andato anche a Peshawar, vicino alle aree tribali confinanti con l’Afghanistan dove si nascondono i militanti taleban.
La STAMPA - Maurizio Molinari : " La rabbia islamista di Faisal tra gli operai di Sheridan Street "
Maurizio Molinari
Finestre con le bandiere cubane al posto dei vetri mancanti, spazzatura rovesciata, in strada contenitori in metallo per raccogliere abiti usati, un «deli» che vende carte telefoniche e un cartellone che invita ad arruolarsi nel corpo dei Marines.
Questa è Sheridan Street, la strada dove il trentenne jihadista pachistano Faisal Shahzad viveva nella casa biancastra di due piani al numero 202-204 in un quartiere senza nome, costruito trenta anni fa per ospitare gli operai di una fabbrica della General Electric oramai chiusa e adesso abitato da immigrati ispanici, orientali e caraibici «che in comune fra loro hanno il fatto di essere poveri e vandalici» come dice la quarantenne Linda, titolare di un negozio su Boston Avenue che vende a prezzi stracciati moquette di seconda mano. Per avere un’idea di cosa intende per «vandalici» basta aspettare le 13, quando escono dal liceo Warren i figli dei resistenti di Sheridan Street e dintorni: la polizia schiera pattuglie a cavallo per intimorirli e scongiurare il rischio quotidiano di risse in strada, che finiscono spesso per invadere case e piccoli negozi. Ma per Shahzad questo quartiere povero immerso nella ricchezza del Connecticut era il punto di arrivo dell’integrazione in America: è qui che aveva scelto di vivere nel febbraio dello scorso anno prendendo un mutuo di 65 mila dollari dalla banca Wachovia per essere titolare della casa dove dal 17 aprile 2009 risiedeva come cittadino statunitense a tutti gli effetti dopo aver giurato fedeltà alla bandiera nelle mani del giudice locale Holly Fitzsimmons. L’arrivo in Connecticut risale al 2000 per studiare nell’ateneo di Bridgeport che poi abbandona per ritornarvi e prendere il Master nel 2005, diventando anche uno dei protagonisti della «graduation» perché quando venne chiamato sul palco per ritirare il diploma il padre, arrivato con la moglie appositamente dal Pakistan, si fece notare gridando ad alta voce un «That’s him!» (È lui!) in maniera assai poco anglosassone. La corsa verso l’integrazione in America sembrava essere il suo unico intento e i molteplici cambi di residenza negli ultimi cinque anni suggeriscono il desiderio di andare sempre in un posto migliore dell’altro. Esponendosi anche a un indebitamento crescente, come dimostra il fatto che nel 2004 aveva comprato una prima casa a Long Hill Avenue, nel quartiere operaio di Shelton, assumendosi l’onere di quasi 220 mila dollari, da Chase Bank che ancora doveva restituire. Perché il pachistano abbia deciso di avere due case è uno degli interrogativi a cui gli investigatori tentano di rispondere. Comunque, a sentire i racconti dei vicini di casa lungo Sheridan Street, il trentenne musulmano dal look occidentale si faceva vedere assai poco. «Era molto appartato, viveva chiuso in casa», dice Brenda Thurman, che racconta di aver saputo che il pachistano «aveva moglie e due figli» ma di essere stata sempre incerta su cosa faceva perché «ad alcuni raccontava che lavorava a Wall Street e ad altri che invece era impiegato all’aeroporto di Newark». In un quartiere di immigrati dove le donne sono in gran parte cameriere e gli uomini operai edili con contratti giornalieri, silenzi e stranezze di Shahzad non colpivano più di tanto. Ciò che invece si notò fu la sua totale scomparsa, da un giorno all’altro, quando si recò per lunghi mesi in Pakistan. «Nessuno sapeva bene dove fosse finito», dice Brenda Thurman, ammettendo di essere tornata a sentire il suo nome solo quando le macchine della polizia e i camion delle maggiori tv hanno invaso Sheridan Street all’alba di ieri. La parabola del giovane pachistano che prima sceglie l’America e poi la vuole colpire a morte ricorda da vicino la storia di Najibullah Zazi, l’afghano residente in un anonimo sobborgo di Denver in Colorado, arrestato per aver pianificato di attaccare nel settembre del 2009 la metro di New York con armi di distruzione di massa, come anche il maggiore Nidal Malik Hasan, cresciuto in Virginia in una famiglia della classe media di origine giordano-palestinese, per poi decidere di fare strage di commilitoni nella base texana di Fort Hood il 5 novembre del 2005 su ordine di un imam del New Mexico fuggito in Yemen. Sono storie parallele della Jihad a stelle e strisce che venne prevista da Steven Emerson nel documentario «Terrorist Among Us» nel ’94 - l’anno dopo il primo attacco alle Torri Gemelle - descrivendo quella che si sta dimostrando come la maggiore minaccia alla sicurezza dell’America di Obama.
Il FOGLIO - " Jihadista fai da te "
Shahzad Faisal era rientrato in Connecticut poco tempo fa dal Pakistan: era andato a trovare sua moglie e la famiglia che ancora vivono là. Lui è naturalizzato americano, ha trent’anni, lavora già da qualche anno negli Stati Uniti, ma di ritorno dall’ultimo viaggio ha messo a punto un piano per far scoppiare una bomba a Times Square. Secondo l’Fbi, Shahzad Faisal è “inesperto” e l’ordigno “non era sofisticato”, ma intanto il ministro della Giustizia Holder l’ha accusato di terrorismo, lui sta collaborando, e in base alle sue indicazioni le autorità di Islamabad hanno arrestato due complici in Pakistan. Il copione è più o meno lo stesso di quello dell’attentatore nigeriano del volo per Detroit a Natale scorso: Abdulmutallab era cresciuto nel Regno Unito, poi era andato a studiare in Yemen, era venuto a contatto con un ideologo di al Qaida e infine aveva deciso di salire a bordo di un aereo con dell’esplosivo nelle mutande. L’identikit perfetto del jihadista “homegrown”. Un terrorista “cresciuto in casa” che il Regno Unito conosceva già fin troppo bene – il 7 luglio nella metropolitana di Londra colpirono quattro ragazzi, di cui tre nati in Inghilterra – e che ora è sempre più presente anche negli Stati Uniti. Per ora non ci sono state conseguenze, ma cresce la paura. Obama fa il decisionista, in qualche ora ha messo in piedi una task force che sta facendo chiarezza sul caso di Times Square in tempo record, ma la sua politica ondivaga sulla lotta al terrorismo non contribuisce ad aumentare il senso di sicurezza degli americani.
CORRIERE della SERA - Guido Olimpio : " Residenti e indottrinati all’estero. I jihadisti che spaventano l’America "
Guido Olimpio
WASHINGTON — Non è più un caso isolato. Ma una tendenza, marcata da arresti di terroristi dal medesimo profilo. Residenti negli Usa, origine nordafricana o asiatica, cittadini americani, di fede musulmana. A un punto della loro vita si trasformano in guerrieri, più o meno preparati. Spesso una «conversione» avvenuta dopo un viaggio nella terra d’origine. Soggiorni per vedere i familiari ma anche per seguire lezioni di indottrinamento e ricevere un training sommario. Un «corso di studi» jihadista che viene poi mantenuto via Internet una volta che la recluta fa rientro negli Usa. È così che si preparano all’azione, compensando la scarsa manualità nel preparare le bombe con una determinazione assoluta.
Prima di Faisal Shahzad ci sono stati diversi casi eclatanti. Bryant Neal Vinas, un convertito che sognava di diventare martire. David Headley, un quarantenne cresciuto tra Chicago e Filadelfia, trasformatosi in una specie di 007 del terrore. Pronto ad assassinare un vignettista danese e poi decisivo nella preparazione della strage di Mumbai (novembre 2008). L’afghano Najibullah Zazi che voleva fare strage nel metrò di New York con la «madre di Satana», zainetti bomba confezionati con acetone e fertilizzante. Raja Khan, tassista pachistano ma con cittadinanza Usa, che voleva attaccare uno stadio di Chicago. Infine cinque ragazzi della Virginia, partiti per l’area tribale dove li attendeva un misterioso Saifullah.
In apparenza «cani sciolti», terroristi «fai-da-te», radicalizzatisi in Occidente e non in un rifugio qaedista. In realtà dietro gli aspiranti mujahedin ci sono dei referenti. Non sono dei veri solitari. Estremisti kashmiri, islamisti uzbeki e arabi, qualche capo talebano. Per alcune fonti dietro la falange trapiantata in America potrebbe esserci la mano della Brigata 313 di Ilyas Kashmiri o del Laskhar E Toiba, organizzazioni che uniscono agenda locale e obiettivi internazionali. Per l’antiterrorismo vi sono prove di un sostegno diretto a singoli o gruppi di individui che vivono in Occidente. In sostanza avrebbero sostituito Al Qaeda come cinghia di trasmissione del fronte jihadista. Non sono in concorrenza con la casa madre, bensì collaborano disponendo di uomini un po’ ovunque. Ispirano, a volte coprono le spese, garantiscono supporto. Affidano a emissari il compito di portare ordini e denaro. Organizzano meeting in Paesi terzi per allontanare i sospetti. Ilyas Kashmiri, che oggi guida un movimento sunnita diviso tra Pakistan e Kashmir, ha guidato la mano di Headley e del tassista di Chicago. Lo dicono le carte delle inchieste. Non essendo in grado di mandare commando verso il fronte Ovest, i terroristi si affidano a una larva di organizzazione. Flessibile e mobile. La cellula può avere due o tre elementi ma può anche essere individuale. E li scopri solo quando vanno all’assalto. Il timore è che oggi negli Usa vi siano decine di Faisal Shahzad.
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