Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Il ricordo dell'editore Formiggini e la sopravvivenza del Mein Kampf Gli articoli di Stefano Di Michele, Giordano Tedoldi
Testata:Il Foglio-Libero Autore: Stefano Di Michele-Giordano Tedoldi Titolo: «La burla e la morte- Il male impaginato per le masse. Storia del fascino letale di Hitler»
Due articoli apparentemente di argomento editoriale, ma che contengono invece materiale di analisi politica e storica. Su IL FOGLIO di oggi, 01/05/2010, pag. 3 dell'inserto del sabato, Stefano Di Michele ricostruisce la biografia dell'editore Angelo Fortunato Formiggini, la cui vita e la tragica morte fanno parte della storia della cultura italiana durante il ventennio fascista. Su LIBERO un articolo di Giordano Tedoldi, a pag. 31, sul destino del "Mein Kampf" di Adolf Hitler, che ci informa dei suoi attuali successi nel mondo islamico. Oltre che in Turchia, in moltissimi Paesi musulmani, il "Mein Kampf" viene esposto e venduto in tutte le librerie. Un dato di cui i fautori dell'ingresso in Europa della Turchia dovrebbero tenere conto. Ecco gli articoli:
IL FOGLIO - Stefano Di Michele: "La burla e la morte"
Angelo Fortunato Formiggini
"Ho Leopardi, ti interessa ancora Leopardi?”. Certo che sì, ma non è molto bella questa edizione, lasciamo stare. “Senti, ho tutte le poesie di Belli. Tu che sei di Roma? Almeno l’hai letto?”. Niente da fare. Il giovane bengalese è in Italia da vent’anni. Mediamente, parla l’italiano meglio di molti romani – e mediamente conosce pure molti più scrittori. Si aggira intorno alla sua bancarella di libri usati, in pieno centro. Fruga sotto un’altra pila di libri. “Guarda questi che belli, questi ti piacciono…”. Mi porge tre libri. Hanno la vecchia bellezza propria dei libri che erano stati pensati e stampati come libri belli. Un colore caldo, copertine rivestite di una carta croccante, piacevolmente rumorosa. Fregi e sigilli dappertutto. Io e il giovane amico bengalese concludiamo l’affare. Ora osservo i libri, con calma. Due sono piccoli, “graziosi volumetti elzeviriani, su carta filigranata di lusso”, coprono appena il palmo di una mano, parte di una collana che si chiamava “Profili”. Biografie, insomma, di grandi personaggi. Uno s’intitola “Gesù di Nazareth”, porta la firma di B. (sta per Baldassarre) Labanca, l’altro “Augusto”, di Marco Attilio Levi. Il terzo volume è più grande. La collana si chiama “Classici del ridere”, e appunto un classico è quello che stringo tra le mani: “Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno”, di Giulio Cesare Croce. Ha bellissime xilografie di Pietro Parigi. “A. F. Formiggini Editore In Roma”, c’è scritto sulla copertina di due volumi. “A. F. Formiggini Editore In Modena”, su quello più vecchio, stampato nel 1911 (gli altri risalgono al 1929). Sull’ultima pagina del libro di Croce, c’è impresso il simbolo di una “Biblioteca circolante”, una bestia (una lupa?) con due bimbi in groppa (Romolo e Remo?) che sventolano una penna d’oca. “A. F. Formiggini Editore In Roma. Enciclopedia delle enciclopedie. Censimento dell’Italia che legge. L’Italia che scrive. Classici del ridere. Medaglie. Profili. Lettere d’amore. Polemiche. Apologi vari”. Ma chi era questo Formiggini (o Formìggini, anzi: Formìggini di sicuro) di Modena – e che un giorno, tanti e tanti anni fa, un secolo fa, possiamo dire, il diretto interessato mutò per gioco e per personale sfottimento in “Formaggino di Modena”? Ho cercato. Ho trovato risate e risate e risate. E stupidità e stupidità e stupidità (tutte stupidità altrui). Poi una torre del Dodicesimo secolo. Una città nell’alba, avvolta nella nebbia. E poi un vecchio con la barba, che una volta rideva molto, “Risus quoque vitast”, che precipita da quella torre, urlando il nome del suo paese adesso instupidito e minaccioso. “Italia! Italia! Italia!”. Un cadavere che la sbirreria impaurita fa scomparire in fretta – gli stupidi di nero incamiciati provano imbarazzo per il suo gesto; con il suo gesto lui comunica loro il suo disprezzo: non se ne potranno liberare mai più. L’ultimo, amaro sberleffo – lo sberleffo rimane, quando non è più possibile ridere davvero. A un certo punto, a certe vite, succede di dover fare un biglietto di sola andata – nessun ritorno previsto, sai che ogni gesto che fai lo fai per l’ultima volta. Prendere il treno, andare in un albergo, guardare la nebbia, mangiare dei tartufi, stringere una mano, vedere un’altra che si sottrae, il titolo di un giornale, il rumore dei passi. Ancora una risata – l’ultima. Del pianto – l’ultimo, speriamo, anche quello. Nel pomeriggio del 28 novembre 1938 un treno arriva a Modena da Roma. Ne scende un uomo. Ha sessant’anni, una valigia di cuoio, una faccia curiosa, ecco, teatrale si direbbe. La valigia è piena di lettere – una valigia carica di addii. Mancano una notte e alcune ore: Angelo Fortunato Formìggini ha cominciato a compiere quelli che sa essere i suoi ultimi gesti. E’ un ebreo, ma non ha mai dato molta importanza, durante la sua vita, al fatto di essere ebreo. Era stato anche un ammiratore del fascismo e di Mussolini, Formìggini, quando pensava che l’Italia dovesse ridere, ché “ridere è amore di vita”, e al Duce lo confidava, quando ancora il fascismo pareva cosa buona o cosa da operetta, ma scarseggiava in tragedia: “Voi dite, Eccellenza, che gli Italiani dovrebbero stare allegri. L’unico editore che vi dà una mano in questo credo proprio di essere io”. E quello, dal maschio mascellone, cosa rispose? “Il Duce, benignamente assentì” – e al suo fianco, amabilmente, si fece fotografare insieme al re non ancora imperatore. Si dovrebbe poter ridere sempre, e un mondo predisposto al buonumore sarebbe un po’ meno disponibile alle carognate. Ma se il fascismo concedeva ancora qualche risata (e molte staraciamente ne procurava, saltando nel fuoco, romanamente salutando e buffamente appellando spaesati cittadini col virile voi), con gli anni quelle risate gli incamiciati mutarono in ghigno. “Il fascismo – aveva ironicamente annotato l’uomo che si preparava al suicidio – è una gran bella cosa vista dall’alto; ma visto standoci sotto fa un effetto tutto diverso”. E ora gli stava addosso – lo schiacciava. L’operetta buffa mussoliniana si era mutata in aperta tragedia pochi mesi prima, il 14 luglio del 1938, quando sul Giornale d’Italia apparve l’articolo “Il fascismo e i problemi della razza”. Il re, adesso pure imperatore – e qui siamo ancora nel campo dell’opera buffa – s’affrettò a firmare il disgustoso provvedimento. Non bastava più lo slogan sfottente che a volte appariva, irrispettoso e appropriato, sui muri dell’università, “Starace chi legge”: i lupi avevano preso il posto degli asini – e seppure gli asini, s’intende, avevano qualcosa da insegnare a certi tronfi federali. Formìggini continuò a ridere – e capì che doveva pensare a come morire. Perché, purtroppo, non era il mondo come lui lo sognava, “nel mare della vita tutto è pesce d’aprile”. La valigia che nella sera fredda e piena di nebbia di Modena si tira dietro, Formìggini l’ha comperata in un negozio vicino largo Arenula: a pochi passi dalla bancarella di libri usati dove, più di settant’anni, dopo un ragazzo bengalese mostra allegro i tre suoi volumi. “Prendili, sono belli”. Belli sono rimasti. E’ una valigia piena soltanto di lettere, epigrafi, biglietti affidati al futuro. Scrive al re e al Papa, il mite Formìggini, a Mussolini e ai concittadini di Modena, a gerarchi vari e a vari scrittori. Il suo lungo, ironico, drammatico addio al mondo che lo rifiuta. “Razzismo: Caporetto del fascismo. Il sommo Duce è diventato matto: il ’38 è un novello ’24. Nel ’24 facesti trucidare uno solo e pugnace (il delitto Matteotti, ndr). Nel ’38 hai proditoriamente assalito cinquantamila cittadini assolutamente innocenti. In fondo mi fai pena, perché sei caduto in una rete che il destino ti ha teso. E’ bene che la tua ora sia venuta: ma non poteva assegnarti il destino un fine che mi desse il conforto di trarne respiro? Ormai non respiro più. E’ finita”. Il racconto più lungo e intenso della vita e della morte di A. F. Formìggini è contenuto in un bel libro scritto alcuni anni fa da una giornalista e scrittrice modenese, Nunzia Manicardi (“Formìggini. L’editore ebreo che si suicidò per restare italiano”, edizioni Guaraldi). La Manicardi lo ha seguito strada per strada, vicolo per vicolo, nella nebbia e negli ultimi incontri, ha cercato le ceneri, testimoni, ha ripercorso il suo mondo – infine lo ha incontrato, con gioco letterario, sulla torre – la meravigliosa, potente torre della Ghirlandina, lì sulla piazza del duomo – mentre sta per buttarsi giù, metà opera letteraria, metà opera storica. “Qui andrà benissimo”. Scrive l’autrice, mentre inizia la sue ricerche: “Un uomo di cui nessuno sa nulla, neppure come si pronuncia il cognome. Finirà che dovrò persino metterci l’accento per far sapere che si dice Formìggini e non Formiggini”. Il 21 agosto, poche settimane dopo lo scoperchiamento della fogna razziale, Formìggini già sapeva dove e come sarebbe morto. In dialetto modenese evocava la torre della sua città: “Ghirlandèina! Dammi una spinta per aiutarmi a fare il botto. Diranno: che cos’è questo fagotto? Guarda! E’ il povero Formaggino, un modenese di quelli di via che, ormai, non se ne va più”. Dieci giorni dopo, va a vedere dove metterà fine alla sua vita. E’ rimasto un suo appunto, sul biglietto d’ingresso di quella mattina: “Studi preliminari”. Aveva pensato a un’altra morte, si legge nel libro di Nunzia Manicardi. E come tutte le cose delle sua vita, aveva preso nota di questo suo pensiero: “Me ne sarai andato da qui alle prime luci dell’alba, nell’ora in cui tutti dormono. Un trabiccolo sarebbe venuto a prendermi, quatto quatto, sotto le scalette alla Pirandello, senza infastidire né contristare nessuno”. Ma lasciamolo ancora un po’ in pace, quell’uomo dalla barba bianca – con la sua valigia di addii e le nebbie e le lacrime e le risate – che osserva l’ultimo suo orizzonte. Cose buffe, insieme a quelle tragiche, devono passargli per la mente. Di come tutto era ridicolo, prima che tutto diventasse spietato. Fu un geniale editore, A. F. Formìggini. Inventò molte cose, collane, biblioteche circolanti. Amava il riso come amava i bei libri – belli anche nella carta, nelle immagini, al tatto. Aveva cominciato da ragazzo, a sfottere e a ridere. Al liceo Galvani di Bologna scrisse e fece stampare, come un Dante folletto, una “Divina Farsa. Ovvero la descensione ad inferos del Formaggino di Modena”, dove prendeva in giro compagni e professori. Una prima laurea in Giurisprudenza, con una tesi quasi evocativa dell’orrenda valanga che gli avrebbe tolto il respiro: “La donna nella Torah in raffronto con il Manava-Dharma-Sastra. Contributo storico-giuridico a un riavvicinamento tra la Razza ariana e la semita” – e la burla sempre sfiorava il dramma, così anni dopo raccontò che quella tesi l’aveva inventata e che forse non fu mai discussa. Poi si laureò in Filosofia, e qui c’è tutto ciò che Formìggini sarà fino al sacrificio finale: “Filosofia del ridere”, essendo il riso “massima manifestazione del pensiero filosofico”. Fece molte cose di quelle che vengono definite serie, l’editore Formìggini, persino una collana, “Apologie”, con testi sul cattolicesimo di Ernesto Buonaiuti, sul taoismo di Giuseppe Tucci, sull’ebraismo di Dante Lattes, sull’islamismo di Laura Veccia Vaglieri, “poiché, se il mio temperamento pagano e realistico mi fa poco propenso verso le religioni costituite, non m’induce affatto a combattere il sentimento religioso in astratto, come quello che può fare l’umanità migliore e più fraterna”. Ma altra era la sua passione. La sua collana dei “Classici per ridere”, da Apuleio a Boccaccio, da Rabelais a Tassoni, da Diderot a Machiavelli – “cosucce di carta”, così, con divertita finta sottrazione – per giustamente giungere fino al volume scritto di sua mano, un memorabile “La ficozza filosofica del fascismo e la marcia sulla Leonardo”, quando Giovanni Gentile mise le mani sulla sua Fondazione Leonardo per la Cultura Italiana, e sulla Grande Enciclopedia Italica, che finì così nell’Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti. Piccole, prime prepotenze. Ma ecco, rideva ancora, e molto, allora, A. F. Formiggìni, inteso Formaggino di Modena, Furmajin da Modna. E in romanesco, e intuibilmente poco romanamente, definì così la sua collana di libri comici, ben 105, l’ultimo poco prima di morire, “er mejo fico der mio bigonzo”. C’è una nota di Giovanni Pascoli, che è un prezioso e perfetto ritratto di Formiggìni: “Egli è il filosofo del riso, proprio dell’uomo come il pianto, egli suol ragionare eloquente, con la sua lunga e bruna faccia malinconica”. A Roma, nella sua casa vicino al Campidoglio, un soffio dal fatale balcone mussoliniano, aveva creato una “Casa del ridere” – “addirittura una sorta di tempio”, scrive la Manicardi: una stanza piena di librerie di noce, dove aveva raccolto tutto (libri e riviste e figure), e da tutto il mondo, qualunque cosa avesse a che fare con il ridere. E tante altre collane, e le cartoline parlanti, le “Guide radio-liriche”, “l’Aneddotica”, il “Chi è?”, con un suo personale contributo: “Dizionarietto rompitascabile degli editori italiani compilato da uno dei suddetti”. E una rivista letteraria fondamentale, nella storia del primo Novecento, “L’Italia che scrive”: in vent’anni, puntigliosamente calcolò l’editore, così da sbattere il buono della sua esistenza sul muso dei nuovi teorici della razza, aveva recensito 13.124 libri, ne aveva annunciati 52.434, aveva ospitato 1.152 articoli. C’era sicuramente parte del suo essere ebreo, nella sua attenzione divertita all’ironia e al paradosso, eppure finché non fu il fascismo a rammentarglielo e a fargliene una colpa, lui non si era curato molto del suo essere ebreo. Così poco, da essere anche stato, e a lungo, un ammiratore di Mussolini. “Diranno che mi sono ucciso perché ero un ebreo”, si lamentava poco prima di quel tragico volo. “E pensare che non me ne importa niente. Ma lo diranno, ne sono sicuro: un ebreo, ecco che cos’era Formìggini, lui che voleva essere uomo tra gli uomini: nient’altro che un ebreo”. E ancora si lamentava: “Diranno che mi sono ucciso perché ero antifascista”. Fu il fascismo che andò contro di lui, ben prima che lui gli scaraventasse addosso – disperato e fuggente – il suo corpo dall’alto della Ghirlandina. L’ultima notte della sua vita, Formìggini la passò in albergo. La sua borsa di cuoio era con lui. Aveva lasciato scritto (a modo suo) di voler essere cremato, “fatemi abbrustolire il più rapidamente possibile e consegnate le mie ceneri a mio figlio”, figlio adottivo, peraltro. Due giorni prima, con l’amarezza della fine: “Sento che l’imprevisto destino della mia vita è appunto quello di testimoniare l’assurdità dei provvedimenti razziali improvvisamente straripati nella mia Patria, ponendo bene in evidenza che hanno colpito persino me che mi sento del tutto estraneo alla questione e che nego recisamente ogni solidarietà di razza che non sia una solidarietà puramente umana e che considero grossolana menzogna le teorie razziste formulate per l’occasione dalla scienza avventurista e analfabeta”. La perfidia del regime che minacciava la sua esistenza – esistenza che così, tra il divertimento e il rimpianto, poco prima della fine, riassumeva: “Non solo la luce e la vita, ma la sposa mia eletta ed il figlio, il gaio lavor di trent’anni, ‘L’Italia che scrive’, il ‘Chi è?’, i miei libri, i miei sogni, l’onesta agiatezza degli avi, la casa che domina il Foro, il verde abituro campestre, lo spasso dei libri allegrotti, il rider cordiale di amici, l’arguto ammiccare di donne, il mezzo toscano e la pipa, e lo spumeggiante Lambrusco, le blande carezze del cane, le placide fuse dei gatti, tutto tu, tutto mi hai tolto, persino il mio nome, persino il pudor della morte, volevi persino fregarmi l’ancella di gente che da cento vent’anni è nella mia casa: perché?”. Ha lasciato in un cassetto della sua camera in albergo le lettere al mondo e gli ultimi appunti. “C’era una volta un editore modenese di sette cotte, perciò italiano sette volte. Quando gli dissero: tu non sei italiano, egli volle dimostrare di essere modenese di sette cotte, e perciò sette volte italiano, buttandosi dalla sua Ghirlandina”. Si è impoverito per il gusto di far libri, l’agiato Formìggini, modenese di sette cotte. Ha lasciato sua moglie Emilia e suo figlio a Roma, ha dettagliatamente descritto il nuovo saluto al Duce al posto di quello tronfio col braccio teso, “saluto che conto di inaugurare solennemente dall’alto della mia Ghirlandina. Addio, me v’vo! Me ne vado. A. F. Formiggini. Fuoruscito”. Così era fatto questo saluto, “agitare con forza l’avambraccio destro con pugno chiuso, mentre la mano sinistra tiene salda la parte superiore del braccio”. Tiè, Duce! E con una pernacchia al Cavalier Benito, e un grido disperato, “Italia! Italia!”, prese il volo dalla Ghirlandina A. F. Formìggini, editore in Modena, Formaggino di Modena. “E lancio dall’alto anche me stesso: bumf!”. Ad alcuni inviò delle cartoline: “Saluti dalla Ghirlandina. A. F. Formiggini”. Sparì subito il suo corpo dall’acciottolato intorno al duomo modenese. Mica ci si suicidava, nell’Italia fascista e imperiale e marziale. Solo un ebreo, poteva essere. Un matto, ecco. Quasi come il dottor Fadigati del romanzo di Bassani – che quello era ebreo, e pure frocio, si capisce che male marcava. Con passione investigatrice, con tenerezza e pazienza, Nunzia Manicardi è risalita fino alle sue ceneri, curiosamente conservate nel cimitero cattolico. Non erano state sparse, come avrebbe voluto – diventare aria, nell’opprimente paese che saltava ginnico nel fuoco (avesse fatto solo questo, che meraviglioso classico da ridere sarebbe diventato il fascismo): la scrittrice le ha ritrovate dentro una piccola scatola di gusto liberty. Nella fredda mattina del 29 novembre 1938, tra la Ghirlandina e il monumento a Tassoni, si gettò uno degli uomini più allegri d’Italia. Lasciò scritto di chiamare quel piccolo luogo “al tvajiol ed Furmajin”, il tovagliolo del Formaggino, “per indicare la limitatezza dello spazio: non direte ‘sudario’, perché tvajiol è parola più allegra e più simposiale”. Qualcuno disse che pure Mussolini fu colpito, mentre Starace fu degno della sua povera fama da gerarca del regime ridotto a circo: “E’ morto proprio come un ebreo: si è buttato da una torre per risparmiare un colpo di pistola”. Certe cose dicono tutto: un classico del pianto.
LIBERO - Giordano Tedoldi: "Il male impaginato per le masse. Storia del fascino letale di Hitler".
Lo scandaloso interesse che continua a suscitare il Mein Kampf di Adolf Hitler, la «bibbia nazista» come venne chiamato fin dalla sua pubblicazione (le due parti, uscite nel 1925 e 1926, vennero riunite in un unico tomo nel 1930), è al centro dell’ultimo saggio del giornalista francese Antoine Vitkine, Mein Kampf. Storia di un libro (Cairo,pp. 288,euro 16). Vitkine sgombra subito il campo dal risibile feticismo di collezionisti e nostalgici esaltati (l’altra faccia della rimozione storica) per rispondere a due quesiti insoluti riguardo a questo «grosso volume di settecento pagine dense e dallo stile pesante, martellante e ripetitivo». Il primo lo formulò Viktor Klemperer, intellettuale tedesco di origine ebraica, nel suo toccante diario del 1947, La lingua del Terzo Reich, taccuino di un filologo (pubblicato in italiano da Giuntina): «Com’è possibile che l’opinione pubblica sia venuta a conoscenza di questo libro, e nonostante ciò siamo arrivati ugualmente al regime di Hitler, quando la bibbia del nazionalsocialismo era in circolazione già anni prima che lui prendesse il potere? Questo rimarrà sempre per me il più grande mistero del Terzo Reich». E ancora, si chiede Vitkine: «Le idee contenute nel Mein Kampf sono vive ancora oggi? C’è in questo libro un fuoco che cova sotto le braci? Il Mein Kampf contiene davvero un veleno come pensavano le forze alleate, che alla fine della Seconda guerra mondiale decisero di bandirlo per sempre?». Domande precedute dalle cifre che danno la misura della persistente diffusione del libro: «Il Mein Kampf non ha mai smesso di essere un bestseller. Dal 1945 in poi, il testo di riferimento del nazismo ha venduto milioni di copie […] Secondo la rivista americana Cabinet, solo la versione in inglese vende ogni anno circa 20mila copie. In Francia un editore d’altri tempi continua a ripubblicarlo, in modo del tutto legale, e il libro compare nella classifica dei titoli di maggior successo anche in altri paesi: in Turchia ne sono state vendute 80mila copie in un solo anno». Cifre che esprimono quella curiosità diffusa, simile alla fascinazione ambigua che spinge certi collezionisti a aggiudicarsi all’asta i paesaggi ad acquerello del giovane Hitler. Il tentativo di avvicinarsi all’orrore attraverso le sue manifestazioni iniziali, sia pure insignificanti o, com’è il caso di un libro, apparentemente inoffensive. Ed è proprio questo sentiero sdrucciolevole, astenendosi dal far pesare il giudizio di vincitori e vinti, l’unico modo per rispondere a quelle domande: ripercorrere la gestazione del Mein Kampfcome mero prodotto editoriale, isolando quanto di suggestivo e di letale vi fosse incistato. Si comincia così dalla fortezza di Landsberg in Baviera, dove il 34enne Adolf, ex caporale in disarmo della Grande Guerra asceso al vertice del neonato NSDAP (Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori Tedeschi), era stato tratto in arrestodopo il fallito colpo di stato del novembre 1923, il cosiddetto putschdella birreria. In compagnia di Rudolf Hess e altri fedelissimi della prima ora, Landsberg diverrà per Hitler un nido dove covare il suo uovo di serpente. La stesura della memoria difensiva per il processo si trasforma in un libro, in cui Hitler risponderà ai suoi detrattori e spiegherà il suo tentativo di colpo di Stato, il cui fallimento lo tormenta. I mezzi non gli mancano: il direttore della fortezza è un sostenitore della sua causa e gli assegna una cella singola e pulita con veduta sulla campagna. Il banchiere Emil Georg, direttore della Deutsche Bank e finanziatore del NSDAP, gli fornisce una macchina per scrivere Remington. La nuora di Richard Wagner, Winifred, gli spedisce carta e cancelleria. Dopo la prima stesura, che risente dello stile oratorio sovreccitato e contorto (quando non batteva a macchina, Hitler dettava a Hess o all’autista Emil Maurice), Max Amann, responsabile della piccola casa editrice del partito, dispone un vero editing. Il lambiccato titolo voluto da Hitler, Quattro anni e mezzo di lotta contro le menzogne, la stupidità e la codardia, viene cambiato nel tonante Mein Kampf. Hess e Ernst Hanfstaengl, tedesco-americano laureato a Harvard, unici dotati di un’istruzione superiore, ne asciugano la prosa e chiariscono l’esposizione. È così che la bibbia nazista nacque: come un libro lavorato per i gusti delle masse. Da qui la risposta alla domanda di Klemperer: il regime di Hitler fu possibile non nonostante, ma proprio perché il Mein Kampf era in circolazione da anni, così come da anni era emerso il suo pubblico.
Per inviare la propria opinione a Il Foglio, Libero, cliccare sulla e-mail sottostante.