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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa-Il Riformista Rassegna Stampa
24.04.2010 Genocidio armeno: in arrivo il riconoscimento ?
Analisi di Marta Ottaviani e Sargis Ghazaryan

Testata:La Stampa-Il Riformista
Autore: Marta Ottaviani-Sargis Ghazaryan
Titolo: «Per l'America è miracolo a Istanbul-Nel giorno degli armeni chissà se Obama dirà la parola genocidio»

Su STAMPA e RIFORMISTA di oggi, 24/04/2010, due articoli sul genocidio degli armeni ad opera dei 'Giovani turchi'. Molto accurato il pezzo di Sargis Ghazaryan, mentre quello di Ottaviani ci sembra troppo ottimista.
Ecco gli articoli:

La Stampa- Marta Ottaviani: " Per l'America è miracolo a Istanbul "


1915, il genocidio

Per molti oggi a Istanbul va in scena un vero e proprio miracolo. Alla stazione di Haydarpasha, nella parte asiatica della città, viene organizzata per la prima volta una manifestazione per commemorare i 220 armeni vittime dell’arresto del 24 aprile 1915. Non si tratta di una data a caso. Quel giorno, infatti, proprio da Haydarpasha partì uno dei primi convogli di armeni, prelevati nella notte dalle loro case e portati nell’Est dell’Anatolia, verso la Siria, da cui molti non fecero più ritorno. Si trattava dei maggiori esponenti della classe politica e intellettuale. La data è per questo considerata l’inizio dello sterminio che si concluse quasi due anni più tardi. Un massacro che l’Armenia vorrebbe vedere riconosciuto come «genocidio» e che Ankara si ostina a negare, contrapponendo la sua versione dei fatti. Secondo Erevan, furono uccise in modo premeditato e sistematico un milione di persone. Secondo la Turchia le vittime non furono più di 300 mila, non ci fu premeditazione e migliaia di turchi furono uccisi dalle truppe russe penetrate a Est dell’impero ottomano ormai in disfacimento.
La manifestazione di oggi è organizzata dall’Insan Haklari Dernegi, la maggiore ong per i diritti umani in Turchia. Nel comunicato si legge: «L'Ihd invita davanti alla stazione di Haydarpasha, per commemorare le vittime degli arresti del 24 aprile e dire "mai più", tutti quelli che provano vergogna nei loro cuori per quello che è successo nel 1915».
La manifestazione arriva in un momento difficile e per questo è ancora più significativa. Le votazioni lo scorso marzo da parte della Commissione del Congresso americano e del parlamento svedese per il riconoscimento del genocidio armeno hanno messo in serio pericolo il protocollo firmato da Erevan e Ankara per la normalizzazione dei rapporti nell'ottobre del 2009. Due anni fa oltre 30 mila persone firmarono la petizione on line «Ozur Dileriz» (chiediamo scusa) con la quale chiedevano perdono per i fatti del 1915. Con la manifestazione di oggi è come se una parte di Turchia volesse dire che il Paese è pronto al confronto con il suo passato. E che in presenza di difficoltà politiche, non ha alcuna intenzione di rinunciare alla pace.

Il Riformista-Sargis Ghazaryan: " Nel giorno degli armeni chissà se Obama dirà la parola genocidio "

Bruxelles. C’è qualcosa oggi che accomuna i governi e le società di Armenia e Turchia, per non parlare delle comunità armene sparse per il mondo. Vorrei tanto poter dire “la commemorazione congiunta armeno-turca del genocidio armeno, il Medz Yeghern (il Grande Male, il termine con cui gli armeni chiamano il genocidio)”. Purtroppo, non è questo il caso. Mi piace pensare che non sia questo il caso…ancora. E il pensiero va alla commemorazione russo-polacca per l’eccidio di Katyn. Paradossalmente, armeni e turchi - i discendenti delle vittime, dei carnefici e dei giusti – aspettano col fiato sospeso il discorso del presidente Obama, che sarà reso pubblico oggi a notte inoltrata in Italia, per il giorno della commemorazione del genocidio armeno. Sembrerebbe altrettanto paradossale il fatto che tutti si domandino se Obama pronuncerà la G-word nel suo discorso dedicato ai sopravvissuti e ai discendenti delle vittime del genocidio. Sembra un gioco di parole, invece non lo è affatto. La presenza o meno della G-word nel discorso del presidente americano potrebbe avere ripercussioni geopolitiche nel quadrante euroasiatico. Credo sia necessario contestualizzare il fatto. Ormai da novantacinque anni, il 24 aprile 1915, data dell’inizio del genocidio dei sudditi armeni dell’Impero Ottomano viene ricordato dagli armeni in tutto il mondo con sentimenti profondamente controversi. C’è dolore per la distruzione di una ricca e vibrante civiltà all’interno dell’Impero Ottomano, la disperazione per l’eccidio in Anatolia e nei deserti dell’attuale Siria di un milione e mezzo di armeni e la subdola umiliazione con la conseguente rabbia per il silenzio, la relativizzazione e la negazione del genocidio da parte della Turchia odierna. Come afferma Elie Wiesel, il premio Nobel ed ex deportato ad Auschwitz, l’ultimo atto di un genocidio è la sua negazione. Esattamente di un genocidio, o meglio di un proto-genocidio si trattava secondo Rapfael Lemkin, il giurista polacco-ebreo, che sulle dinamiche del genocidio armeno ha fondato la descrizione del reato di genocidio, coniando il termine stesso che sta alla base della convenzione delle Nazioni Unite per la Prevenzione e la Punizione del Crimine di Genocidio del 1948. Quel dolore e il senso della tragedia latente hanno plasmato l’identità armena lungo tutto il Novecento, imprigionandola in una gabbia di fobìe dipinta di nero ed avvolta dall’indifferenza altrui. Basti pensare che la prima generazione dei sopravvissuti ha evitato di raccontare il genocidio per paura di non essere compresa, per mancanza di modelli di riferimento, tanto era inaudita la portata del crimine. La negazione e la mancata sanzione di un genocidio, il clima d’impunità, ne genera altri. Questa è un’altra tragica lezione del Novecento. La Turchia, novantacinque anni dopo il genocidio persevera nella negazione e in segno di solidarietà con l’alleata Azerbaijan impone un embargo unilaterale ed illegale sull’Armenia. Parallelamente al ripetersi anno dopo anno della rievocazione della memoria del Medz Yeghern da parte dei sopravvissuti, la Turchia repubblicana fino a tempi recenti non ha risparmiato sforzi e risorse per annientare l’eredità storica armena nell’Anatolia orientale, per distruggere chiese, bruciare libri, rinominare luoghi armeni, cancellare memorie e fabbricarne delle nuove, dove gli armeni sono i grandi assenti. Sforzi inaugurati da Kemal Ataturk, il fondatore della Turchia repubblicana, per “turchizzare” la Turchia, “emanciparla” da retaggi ottomani, renderla più “pura da corpi estranei”. Nella politica estera turca, invece, la massiccia campagna negazionista non ha mai scemato d’intensità. Ogni tentativo di discussione e di riconoscimento del genocidio armeno da parte di governi o parlamenti stranieri è stato ed è tuttora prevenuto e segui-to da minacce di diplomatici turchi - i guardiani del kemalismo - di ritorsioni economiche e politiche, da ritiri di ambasciatori a congelamenti di rapporti bilaterali. Neanche il governo “progressista” di Erdogan costituisce un’eccezione a tale regola. Infatti, reagendo al recente riconoscimento del genocidio da parte del parlamento svedese e della commissione Affari Esteri della Camera dei Rappresentanti Usa, ha richiamato ambasciatori e ha minacciato il blocco della base aerea Usa ad Incirlik e il congelamento di importanti commesse commerciali. Ciò che è più grave, è che Erdogan ha minacciato di ritirarsi dal processo di normalizzazione dei rapporti con l’Armenia se l’iniziativa americana avesse seguito l’iter parlamentare. C’è tuttavia qualcosa di insolito quest’anno, un’aria diversa almeno per due circostanze senza precedenti. Il 10 ottobre 2009 la Turchia e l’Armenia, con la mediazione svizzera e l’appoggio trasversale e singolare americano, russo ed europeo hanno firmato due protocolli per la normalizzazione e l’istituzione di rapporti diplomatici. La firma a Zurigo era un parziale punto di arrivo di un’iniziativa diplomatica armena tesa alla normalizzazione di rapporti bilaterali senza precondizioni lanciata da Yerevan con l’invito al presidente turco Gul di visitare l’Armenia nel settembre 2008. I suddetti protocolli, oltre ad avere una portata epocale, essendo il primo tangibile esempio di risoluzione di controversie con mezzi puramente diplomatici nel quadrante geopolitico caucasico, hanno il potenziale di trasformare radicalmente l’intera area caratterizzata da una militarizzazione fuori controllo, una frammentazione regionale e da conflitti etnici irrisolti. Per entrare in vigore, i protocolli devono essere ratificati dai due parlamenti. Tuttavia, essendo la condizione per il successo del processo in atto l’astensione dall’avanzare precondizioni di qualsiasi genere non incluse nei documenti, l’intero sforzo di normalizzazione dei rapporti bilaterali è sotto scacco a causa del nesso avanzato da Erdogan fra la ratifica turca dei protocolli e la rinuncia da parte armena a perseguire un riconoscimento internazionale del genocidio armeno, oltre a una soluzione pro-azera del conflitto in Nagorno Karabakh. In altre parole, il premier turco darebbe il via alla ratifica dei protocolli da parte del parlamento turco, dove detiene la maggioranza dei vovoti, a condizione che gli armeni rinuncino a perseguire un riconoscimento morale del genocidio e abbandonino alla balia di Aliev, il presidente azero che non gode certo di una fama di uomo di pace e campione di democrazia, la sorte degli armeni del Nagorno-Karabakh. Il processo è inevitabilmente in stallo e non sono serviti a nulla i tentativi congiunti Usa-Ue-Russia a dissuadere Erdogan dal rendere la politica estera turca ostaggio delle forze più estremiste in Turchia e ad assoggettarla a decisioni prese in Azerbaijan. C’è tuttavia una buona notizia. Parallelamente al crescente bizantinismo (nel migliore dei casi) della leadership turca, emerge in Turchia un fenomeno nuovo, anche questo di portata epocale. Mi riferisco a una società civile all’avanguardia, degna di qualsiasi democrazia avanzata e più audace che mai. Spesso la società civile avanza più veloce delle ideologie politiche dominanti e con il proprio attivismo crea effetti spill-over in grado di trasformare una società intera. Si tratta di un gruppo di intellettuali che ormai per la seconda volta, sfidando la macchina statale e il codice penale turco, lanciano petizioni per ricordare le vittime del “Grande Male” che non cessa di appesantire “il Grande Dolore” sulle nostre coscienze. L’iniziativa invita tutti coloro che sentono questo “Grande Dolore” a raccogliersi oggi con fiori e candele in piazza Taksim, il luogo del dissenso, per rendere omaggio alla memoria delle vittime del 1915. Fra i firmatari trovo intellettuali come Ali Bayramoglu, Halil Berktay, Taner Akcam, Cengiz Aktar, Baskin Oran e Deniz Zarakolu, ma anche insegnanti, studenti, elettricisti e panettieri che firmano per la memoria dei «loro amici, vicini e compagni delle sventure» che «il 24 aprile 1915 sono stati circondati» e che «loro hanno persi». Tornando ad Obama, non so se pronuncerà la G-word stanotte a Washington. Mi basta sapere che oggi ad Istanbul, in Piazza Taksim alle ore 19.00 ci saranno dei cittadini turchi che in nero, con candele e fiori, in silenzio commemoreranno la perdita «dei loro amici, vicini e compagni delle sventure armeni che non ci sono più». La Turchia che vogliamo in Europa è la loro, quella che sfida l’anacronismo kemalista per le proprie convinzioni. Che siano d’esempio a politici europei titubanti sull’imposizione di condizionalità politiche sulla Turchia.

*Sargis Ghazaryan,Senior Research Fellow dell’ong “European Friends of Armenia” (www.eufoa.org)

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