Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Caso Emergency: è possibile per le Ong essere neutrali? A quanto pare, no. Cronache e commenti di Daniele Raineri, Vittorio Emanuele Parsi
Testata:Il Foglio - La Stampa Autore: Daniele Raineri - Vittorio Emanuele Parsi Titolo: «Le zone grigie delle nuove guerre»
La questione dell'ospedale di Emergency e dei tre italiani arrestati continua a riempire le pagine dei quotidiani italiani di questa mattina. Repubblica, Unità e Manifesto sposano senza esitazione la tesi complottista di Gino Strada.
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 14/04/2010, a pag. 1-4, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo " L’agenda antioccidentale di Karzai complica (pure) il caso Emergency ". Dalla STAMPA, a pag. 41, l'articolo di Vittorio Emanuele Parsi dal titolo " Le zone grigie delle nuove guerre ". Ecco i due articoli:
Il FOGLIO - Daniele Raineri : " L’agenda antioccidentale di Karzai complica (pure) il caso Emergency"
Daniele Raineri
Roma. Il caso dei tre volontari italiani dell’ong Emergency arrestati dai servizi di sicurezza afghani potrebbe fare parte dell’agenda antioccidentale del presidente Karzai, una linea ora troppo marcata che nell’ultimo mese sta complicando terribilmente le relazioni con gli alleati e soprattutto con l’America. Per la prima volta da quando tutto è cominciato, quattro giorni fa, la posizione dei tre sembra migliorare, anche nell’assenza di notizie. Le esagerazioni sono state smentite, le annunciate “confessioni” dei tre non ci sono mai state, l’accusa di coinvolgimento anche nella morte del giornalista afghano Adjmal Nashkbandi – rapito e decapitato dai talebani – è caduta. E il tono del portavoce del governatore di Helmand – il bersaglio del presunto attacco in preparazione – è sempre più prudente. Resta che si è trattato di un colpo a freddo degli apparati di sicurezza afghani contro un’istituzione simbolo della cooperazione occidentale e che il governo di Kabul non poteva non sapere che prima l’arresto di tre italiani e poi la detenzione senza un chiarimento sulla data del giudizio o del rilascio sarebbero diventati un caso diplomatico con un alleato da quasi 3.000 uomini in campo. Gli afghani dicono di avere sorvegliato l’ospedale di Emergency per un mese – in attesa che le armi vi fossero portate – ma piuttosto che rafforzare le ragioni degli arresti, questo dettaglio unito al silenzio del governo afghano sembra bizzarro. Ieri Emergency ha annunciato di avere abbandonato l’ospedale di Lashkar Gah in mani afghane e di aver trasferito, grazie all’ambasciatore italiano, il resto del personale nella capitale Kabul. Il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, ha annunciato per oggi una lettera con richiesta di spiegazioni a Karzai. Frattini non è il solo in cerca di spiegazioni. Il comportamento del presidente afghano sta diventando sempre più imprevedibile. Un diplomatico americano che preferisce rimanere anonimo dice di lui: “Può lamentarsi ad alta voce dell’occidente finché vuole – nessuno vuole che sembri un pupazzo degli stranieri – il problema è che le sue dichiarazioni stravaganti sono accompagnate anche da azioni stravaganti”. Un suo collaboratore, che preferisce anch’egli restare anonimo, dice che “è stanco di ricevere lezioni su che cosa dovrebbe fare da tutti quelli che passano, Onu, alleati europei, americani”. Karzai nell’ultimo mese ha cercato con regolarità lo scontro con gli alleati occidentali. Ha detto che gli americani e gli europei sono i responsabili dei grandi brogli che hanno devastato la credibilità della sua rielezione a presidente, e che se continuano a farmi pressioni passerò con i talebani”. I tentativi di ricondurre il presidente alla ragione con le maniere forti non sono serviti. La missione a Kabul del presidente americano, Barack Obama, due settimane fa è stata carica di tensione: 25 minuti a porte chiuse – dopo 26 ore di volo – senza annunci congiunti e senza nemmeno una foto assieme. L’inviato speciale, Richard Holbrooke, ha insistito sull’argomento che tormenta Karzai: “Se non combatte la corruzione, non si può andare avanti”. L’ex inviato dell’Onu a Kabul, Peter Galbraith, lo ha addirittura accusato di usare droghe. Poi, negli ultimi due giorni, l’accerchiamento si è di colpo allentato, e ora le dichiarazioni americane sono molto concilianti. Obama ha persino mandato una lettera irrituale per ringraziarlo dell’ospitalità. Il punto è che Karzai minaccia di bloccare la grande offensiva militare su Kandahar, la manovra più importante della guerra, per non irritare la popolazione: se lo fa, la guerra è come persa a tavolino per ragioni politiche, e l’Amministrazione americana non può permetterselo.
La STAMPA - Vittorio Emanuele Parsi : " Le zone grigie delle nuove guerre "
Vittorio Emanuele Parsi
Col tempo, forse, avremo tutti maggiori elementi per capire su quali basi si è fondata l’operazione che ha portato all’arresto degli operatori di Emergency nell’ospedale di Lashkar Gah. Va detto subito che due cose sono apparse da subito egualmente inverosimili: da un lato, l’accusa rivolta al personale italiano dell’ospedale di essere parte di un complotto volto ad assassinare il governatore afghano; dall’altro, l’ipotesi che il governo afghano o addirittura Isaf abbiano voluto costruire una trappola per togliersi dai piedi l’Ong di Gino Strada. Per quanto Emergency non abbia mai mostrato alcuna simpatia per il governo di Karzai e per le operazioni di peace keeping in generale, è difficile immaginare l’ospedale di Lashkar Gah trasformato in una cellula jihadista. D’altronde, Isaf ha ben altre magagne e ben altrimenti ingombranti testimoni di cui preoccuparsi, molto più potenti e soprattutto molto più conosciuti e strutturati internazionalmente rispetto ad Emergency. Restano per il momento aperte le ipotesi «minori», dal punto di vista mediatico-complottardo, e non necessariamente alternative: che Emergency abbia esercitato una vigilanza insufficiente su che cosa veniva introdotto nella sua struttura, e che il governatore regionale abbia deciso di intervenire in modo da far pagare alla Ong di Strada il conto per il ruolo, ritenuto non completamente chiaro, svolto nella pasticciata liberazione di Daniele Mastrogiacomo, conclusasi con il pagamento di un riscatto, il rilascio di alcuni capi terroristi e l’uccisione dell’interprete afghano del giornalista di Repubblica. Il caso di Emergency offre però l’opportunità di interrogarci su quanto sia ancora possibile, per gli operatori umanitari, far risaltare la propria terzietà, la propria neutralità rispetto alle posizioni dei combattenti, quando la forma che la guerra oggi prevalentemente assume è quelle della «guerra tra le gente», per ricorrere alla brillante espressione coniata dal generale inglese Rupert Smith. Per sperare di vincerle, sempre ammesso che sia possibile, queste guerre devono prevedere che qualunque intervento militare sia completato da una componente civile, che contribuisca alla «conquista del cuore e delle menti» della popolazione (lo diceva già Mao), gettando le premesse per la sconfitta anche politica del nemico. Così facendo, di necessità, i confini tra azione esclusivamente umanitaria e intervento politico-militare che contempli anche l’azione umanitaria sfumano nell’indeterminatezza. Diventa cioè quasi impossibile distinguere l’azione degli operatori umanitari da quella dei soldati e dai funzionari delle forze internazionali il cui fine ultimo, al di là delle modalità operative magari parzialmente coincidenti e persino delle intime motivazioni personali, non è quello di mitigare le sofferenze dei popoli coinvolti in un conflitto, ma di vincere, di sconfiggere il nemico, dove portare la popolazione neutrale dalla propria parte diventa l’arma decisiva del successo. Questi ultimi sono tutti scopi legittimi, in particolar modo quando coloro contro i quali si combatte si rendono responsabili di crimini odiosi, di atti terroristici o di violente e vigliacche discriminazioni, fondate sulle convinzioni, sulla razza, sulla religione o sul genere. Ma si tratta di scopi politici, che sono per loro essenza diversi da quelli umanitari, ai quali però gli attori politici non possano rinunciare, se non vogliono condannarsi al fallimento. Rifiutare di esporsi al rischio di «questa contaminazione», non necessariamente implica l’assunzione, e il suo riconoscimento da parte di tutti gli attori coinvolti, di una propria neutralità. Perché implica il rischio speculare che il confine di un’azione puramente volta al sostegno della popolazione civile venga sorpassato, e si finisca col divenire oggetto di altre, e ben peggiori, contaminazioni: al di là di ogni buona intenzione.
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