La notizia di rilievo oggi è centrata su Bibi Netanyahu, il quale ha le sue buone ragione per non partecipare al summit lunedì prossimo a Washington, che quasi sicuramente si trasformerà in un processo a Israele. A guidarlo, paradossalmente, ci sarà Obama, il quale, insieme a Medvedev, si è tenuto allo Start 2 una bella riserva di armi nucleari (1500 per entrambi) in caso di legittima difesa. Su questo nessuno ha avuto nulla da eccepire, ma il fatto che le possa avere Israele, per lo stesso scopo, viene giudicato illegale. Israele non ha mai minacciato nessuno stato di distruzione, mentre questa stessa minaccia la riceve quotidianamente dall'Iran.
Riprendiamo cronaca (Maurizio Molinari), analisi (Daniele Raineri), una selezione dei titoli disinformanti sulla decisione di Natanyahu.
Segue l'articolo di Lucia Annunziata,preceduto dal nostro commento.
La Stampa- Maurizio Molinari: " L'allarme Usa, Al Qaeda vuole l'atomica "

Maurizio Molinari
Reduce dal viaggio-lampo a Praga per la firma dell’accordo Start con Dmitry Medvedev, Barack Obama torna a Washington per ospitare il summit sulla sicurezza nucleare che si apre lunedì al Convention Center. Da bordo dell’Air Force One che attraversa l’Atlantico sono gli stretti consiglieri Ben Rhodes e Gary Samore a spiegare in audioconferenza l’importanza di quanto sta per avvenire. «Alcuni gruppi terroristici, inclusa Al Qaeda, stanno tentando di ottenere un’arma nucleare al fine di adoperarla contro gli Stati Uniti o altri Paesi con effetti devastanti» esordisce Rhodes, vice consigliere per la Sicurezza nazionale. Da qui l’esigenza di «un summit contro il terrorismo nucleare» che ha un’agenda molto ristretta: siglare un accordo per mettere sotto chiave entro 4 anni tutti gli esplosivi nucleari che fanno gola ai terroristi.
«Si tratta di due tipi di sostanze - spiega Gary Samore, capo dei consiglieri sulla lotta alla proliferazione - il plutonio separato e l’uranio arricchito a livelli molto alti». I materiali radioattivi che potrebbero servire a confezionare una «bomba sporca» saranno discussi nel summit «ma la priorità sono plutonio e uranio arricchito perché il pericolo è immediato» aggiunge Rhodes, secondo il quale «il modello da prendere in esempio è il Cile, che è riuscito a mettere sottochiave tali esplosivi».
Il summit vedrà Obama incontrare il cinese Hu Jintao, condurre incontri bilaterali con i Paesi più esposti al rischio di terrorismo nucleare - Pakistan, India, Kazakistan, Nigeria, Malaysia - e parallelamente presidere una cena e due sessioni di lavoro che si concluderanno martedì sera con tre documenti: la dichiarazione finale sulla «messa in sicurezza degli esplosivi nucleari», gli impegni dei singoli Paesi ad adottare «decisioni nazionali» e l’impegno a riconvocarsi per verificare il rispetto degli obblighi sottoscritti, sul modello di quanto fa la Fondazione Clinton con le promesse di aiuto al Terzo Mondo.
Attorno al tavolo del Convention Center prenderanno posto 47 leader nazionali - di cui 38 capi di Stato e di governo - assieme al Segretario generale dell’Onu, il direttore dell’Agenzia atomica (Aiea) e il presidente del Consiglio Ue. «Si tratta della più vasta riunione di leader internazionali ospitata dall’America dall’incontro di San Francisco che nel 1949 diede vita alle Nazioni Unite» osserva Rhodes. Fra i presenti mancherà però il premier israeliano Benjamin Netanyahu che ha dato forfait all’ultimora lamentando il rischio che Egitto e Turchia possano sollevare la questione dell’arsenale nucleare di cui lo Stato Ebraico non ha mai ammesso l’esistenza. L’amministrazione Obama non sembra essere colta di sorpresa e dimostra comprensione per la scelta di Netanyahu. Jim Jones, consigliere della sicurezza, dice che «ciò che conta è che Israele sarà rappresentata da Dan Meridor», ministro competente per le questioni di energia e intelligence mentre Rhodes sottolinea che «il summit deve discutere del pericolo degli esplosivi nucleari e non di altro», facendo capire di condividere il timore che uno scontro fra arabi e israeliani avrebbe potuto nuocere ai lavori.
Anche perché l’agenda del summit cela dell’altro: concordando sulla necessità di togliere dalla circolazione gli «esplosivi nucleari a rischio» i 47 leader internazionali dovrabbero chiedere all’Iran di consegnare alle Nazioni Unite tutto l’uranio arricchito di cui dispone.
Il Foglio-Daniele Raineri: " Chi disarma Israele ? "

Daniele Raineri
Roma. Appena due giorni dopo avere confermato la sua presenza, il primo ministro di Israele, Benjamin Netanyahu, s’è tirato indietro dalla conferenza sulla sicurezza nucleare che comincia lunedì a Washington. Il summit è stato organizzato dal presidente americano, Barack Obama, per discutere il rischio che armi nucleari cadano nelle mani di terroristi, ed è prevista la partecipazione di 47 paesi, inclusi i più influenti del mondo islamico – tranne il Pakistan, che la Bomba l’ha già, e l’Iran, che sta lavorando attivamente per averla. Nelle intenzioni di Obama, la conferenza fa parte della sua visione, più volte annunciata, di un mondo senza più armi nucleari, premiata giovedì dalla firma a Praga del Trattato sulla riduzione degli arsenali atomici con la Russia. Ma il premier israeliano è stato costretto a recedere dopo aver letto alcuni rapporti ammonitori: un gruppo di paesi islamici, di cui fanno parte Egitto e Turchia, proverà a rovesciare il tema della conferenza e chiederà conto a Israele del suo arsenale atomico. L’Egitto non si è ancora esposto, ma la Turchia è stata esplicita: il premier Recep Tayyip Erdogan – che tre giorni fa ha definito Israele “la minaccia più grave alla pace in medio oriente” – ha annunciato che a Washington solleverà la questione. Netanyahu governa la nazione che più da vicino teme le conseguenze della proliferazione atomica e che è sotto la minaccia costante dell’Iran, ma avrebbe rischiato di finire sotto l’attenzione ostile del fronte degli stati islamici e del loro paradosso: se volete un medio oriente senza armi nucleari noi siamo disposti a rinunciare alle nostre – che tanto non abbiamo – se Israele rinuncerà alle sue. Anche se poi il premier Olmert, quattro anni fa, ne confermò involontariamente l’esistenza dicendo: “L’Iran minaccia esplicitamente e pubblicamente di distruggere Israele. Potete davvero trattarlo come gli altri, quando dice di voler avere armi nucleari come l’America, la Russia, Israele – gli sfuggì – e la Francia?”. Due giorni fa Netanyahu, che pure era stato ammonito da due suoi ministri a non presentarsi, aveva escluso di temere pressioni sul nucleare israeliano alla conferenza di Washington. “Non penso che nessuno darà del regime terrorista a Israele, tutti distinguono un regime terrorista e canaglia quando ne vedono uno e, credetemi, ne vedono qualcuno proprio attorno a Israele”. Il premier sperava di raccogliere consenso internazionale sul pericolo Iran e la sua presenza sarebbe stata una novità, perché i suoi predecessori hanno di regola evitato questo tipo di incontri. Invece anche lui manderà un vice, Dan Meridor. Da bordo dell’Air Force One, l’Amministrazione americana, per bocca del consigliere per la Sicurezza nazionale Jim Jones, prova a non fare una piega: “La delegazione da Israele sarà comunque robusta”. La sponda americana Il piano di costringere Gerusalemme a dare conto pubblicamente delle proprie armi nucleari lanciando l’idea di un “medio oriente denuclearizzato” è accarezzato da lungo tempo nei paesi arabi. La proposta è stata fatta ancora una volta due settimane fa, all’ultima sessione della Lega araba. Il linguaggio usato è inopponibile: generico e di pace. Ma l’obiettivo è stanare Israele, restio ad aderire al Trattato di non proliferazione per non vedere ispettori stranieri nelle installazioni e per non essere costretto a condividere i propri segreti atomici. Con l’arrivo dell’Amministrazione Obama, i paesi arabi hanno trovato una sponda inaspettata. A maggio 2009 una vice del dipartimento di stato americano, Rose Gottemoeller, ruppe il patto quarantennale di discrezione dicendo che Israele avrebbe dovuto aderire al Trattato di non proliferazione, anche se “l’Amministrazione non ha in mente di esercitare alcun tipo di pressione in questo senso”. Ora il summit americano di lunedì, pur benintenzionato, rischia di favorire il fronte anti Israele, proprio nel momento in cui le relazioni con Washington sono nel loro periodo più complicato.
Selezione di titoli, dai quali viene evidenziata la mancata partecipazione di Bibi Netanyahu al vertice di Washington con l'uso di queste parole:
rinuncia, teme, rifiuto, ambiguità, diserta, declina, defezione.
Ecco testate, titoli e occhielli:
Corriere della Sera- " Vertice atomico,Netanyahu rinuncia al vertice USA"
Il Riformista- " La defezione di Netanyahu è unosgarbo mirato a Obama"
IlSole24Ore- " Il premier teme che Egitto e Turchia solelvino la questione dell'arsenale israeliano "
L'Unità- " Netanyahu diserta il summit "
Il Giornale- " L'assenza di Netanyahu al vertice di Washington conferma la politica di ambiguità di Gerusalemme "
Il Manifesto- " Il premier Netanyahu declina l'invito di Obama "
La Stampa- " Assente Netanyahu, teme uno scontro con gli arabi "
La Stampa- Lucia Annunziata: " Usa-Israele, il bivio nucleare "

Foto d'epoca di L.Annunziata, con Arafat che sorride soddisfatto
Stupisce il tono da maestrina che insegna all'allievo discolo come dovrebbe comportarsi. Insegna poi a modo suo la storia israeliana, che lei non ha mai capito in tutti gli anni che è stata corrispondente per Repubblica da Gerusalemme, anni nei quali ha disinformato i suoi lettori per l'ostilità pregiudiziale contro lo Stato ebraico. Addeso fa la predica a Bibi, dicendogli come deve comportarsi. Ignora poi che se Israele ha l'arma nucleare, questo è dovuto esclusivamente in caso di legittima difesa, un aspetto che la nostra illustre maestrina ignora totalmente. Ripete poi la solita solfa Washington intende dunque procedere sulla propria strada. Per un disarmo duraturo, per un patto contro il terrorismo che sia efficace, gli Stati Uniti hanno bisogno di un accordo di pace fra Israele e Palestinesi. Ed hanno bisogno, anche per combattere Teheran, di ottenere un Medioriente senza nucleare - cioè Israele senza atomica.
Che per combattere l'Iran Israele non debba avere l'atomica, ci pare la più grande boiata che si sia uscita sui giornali oggi.
Ecco l'articolo:
Fossi Benjamin Netanyahu preparerei la valigia: per andare a Washington all'ultimo minuto, dopo aver preso atto di aver fatto una sciocchezza; o per andare a casa dopo aver perso l'incarico di primo ministro; in alternativa, per andare a meditare sulla tomba del suo maestro e predecessore Yitzhak Shamir, l'ultimo leader israelano in ordine di tempo che - benché più prestigioso e abile di Netanyahu - fu defenestrato da un presidente americano (Bush padre) per essersi messo di traverso ai progetti in Medioriente della Casa Bianca.
La ragione per cui siamo preoccupati per il Premier Israeliano Bejamin Netanyahu è che ha preso ieri una decisione molto azzardata, per sé e per il suo Paese. Ha cancellato la propria partecipazione al vertice di 47 Paesi sulla sicurezza nucleare promosso dal presidente Usa per il 12 e 13 aprile a Washington, sostenendo che i delegati musulmani avrebbero chiesto ad Israele di rinunciare al suo presunto arsenale atomico. Con il rifiuto Bibi ha lanciato una sfida al Presidente Obama sul cui eventuale e finale risultato non credo ci siano dubbi.
Tre giorni fa il Presidente americano ha firmato con il Presidente Russo Dmitry Medvedev un patto di disarmo degli arsenali nucleari, un passaggio definito con buone ragioni «storico» perché dà l'avvio a una nuova strategia globale di limitazione dell'uso delle armi atomiche.
La partnership de-nucleare dei due ex nemici nucleari, firmata con tutto il possibile impatto mediatico nella città di Praga simbolo della Guerra Fredda, è valso, per le due nazioni, Usa e Russia, come riscrittura di una virtuosa nuova bipartnership globale. Dall'inchiostro delle penne di Obama e Medvedev è fluito infatti anche un indiretto patto di collaborazione nel controllo di tutti gli attuali e futuri pericoli di riarmo: con un indiretto ammonimento alla Cina, un diretto monito ad Al Qaeda, alla Corea del Nord, e una minaccia netta e pubblica all'Iran. Nel corso della stessa conferenza stampa in cui si presentava la riduzione degli arsenali, Obama, spalleggiato dal partner russo, ha rilanciato sanzioni contro l'Iran, ammonendo: «Non tollereremo nessuno strappo al trattato di non proliferazione». La dichiarazione ha tanto innervosito la guida temporale dell'Iran da provocargli una reazione fra le più scomposte. Reazione servita in qualche modo a rendere ancora più preciso il profilo dell’operazione Obama. Il patto di Praga si presenta infatti come una strategia realistica, proprio perché è accompagnata da misure «punitive».
Il Presidente americano, come si vede ormai ogni giorno più chiaramente, sta perseguendo una politica unificata non dal segno «ideologico» (liberal o conservatore) quanto dalla identificazione dell'interesse nazionale del Paese. Interesse nazionale che ha fornito continuità a operazioni apparentemente diverse, come la riforma sanitaria, l’autorizzazione alle estrazioni petrolifere in patria - e ora il disarmo. Per Obama, la riduzione delle armi nucleari è parte del suo modo di vedere la nuova leadership Usa: spostandone il peso dalla forza alla risoluzione dei conflitti, multilaterale piuttosto che monocratica. Ma non irrealisticamente pacifista.
Quest'ultimo è l'aspetto della strategia americana che Ahmadinejad non sembra aver capito. Purtroppo non sembra averlo capito neanche il primo ministro israeliano.
Nella conferenza di Washington sul disarmo la questione della denuclearizzazione di Israele sarà probabilmente sollevata: il governo di Gerusalemme infatti non ha mai firmato il «Trattato di non proliferazione», del 1970; non si è dunque mai impegnato a non realizzare armi nucleari né ad aprire agli ispettori internazionali le porte del suo reattore di Dimona, che per gli esperti ha prodotto plutonio capace di armare dalle 80 alle 200 testate nucleari. In passato dunque altri leaders israeliani hanno evitato forum sul disarmo. Con la differenza che oggi una riunione come questa è diventata centrale nella agenda americana.
Questo è intanto l'effetto immediato del rifiuto di Netanyahu: sottolineare che gli interessi di Israele e Usa non sono più perfettamente coincidenti.
Non è un mistero che questa distanza da Washington crea da mesi un grande malessere a Gerusalemme. Con le buone e le cattive, con i ragionamenti, gli editoriali, la discussione e anche le ripicche i leader israeliani si stanno prodigando per richiamare Washington alla vecchia intesa. La più recente di queste ripicche l'hanno inflitta al vicepresidente Usa, due settimane fa, annunciando la costruzione di altre centinaia di case negli insediamenti proprio mentre Biden arrivava a Gerusalemme. Ora è arrivato il rifiuto ad Obama. Come Biden allora, anche Obama oggi sceglie di minimizzare - inviando a Israele il peggiore dei messaggi: che le sue azioni non smuovono gli americani.
Washington intende dunque procedere sulla propria strada. Per un disarmo duraturo, per un patto contro il terrorismo che sia efficace, gli Stati Uniti hanno bisogno di un accordo di pace fra Israele e Palestinesi. Ed hanno bisogno, anche per combattere Teheran, di ottenere un Medioriente senza nucleare - cioè Israele senza atomica.
Se Bibi vuole sapere chi prevarrà fra il governo di Gerusalemme e quello degli Stati Uniti non ci sono dubbi, dunque, fin da ora. Anche perché, come si ricordava, un uomo ben più forte e significativo di lui è già caduto sotto le ire di Washington. Nel 1992, dopo la guerra del Golfo, George Bush padre si trovò di fronte alla necessità di consolidare il dopo guerra contro Saddam Hussein firmando un accordo di pace fra israeliani e palestinesi. Il premier di allora, Yitzhak Shamir leggendario e carismatico leader, fondatore dello Stato di Israele, si mise contro questo accordo. Finì che il 23 giugno del 1992 Shamir perse le elezioni a favore del partito laburista, e l'accordo di Oslo si celebrò in pompa magna.
Nessuno meglio degli israeliani, dopo tutto, dovrebbe saper riconoscere nel sottofondo dei discorsi della Casa Bianca l'eco del cesariano «para bellum».
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