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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Giornale - L'Espresso Rassegna Stampa
29.03.2010 Israele si sta giocando gli Stati Uniti ?
Commenti di R. A. Segre, Meron Rapoport (con una traduzione manipolata)

Testata:Il Giornale - L'Espresso
Autore: R. A. Segre - Meron Rapoport
Titolo: «Le nuove colonie? Questa volta Israele vuole provocare - La solitudine di Israele»

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 29/03/2010, a pag. 12, l'articolo di R. A. Segre dal titolo "Le nuove colonie? Questa volta Israele vuole provocare " . Dall'ESPRESSO n°13 del 26/03/2010, a pag. 50, l'articolo di Meron Rapoport dal titolo " La solitudine di Israele " preceduto dal nostro commento. Ecco i due articoli:

Il GIORNALE - R. A. Segre : " Le nuove colonie? Questa volta Israele vuole provocare "


R. A Segre

Questa sera in tutto il mondo ebraico si celebrerà il Seder, la cena pasquale in ricordo dell’uscita degli ebrei dalla schiavitù d’Egitto. Uno dei tre pellegrinaggi al Tempio di Gerusalemme, da sempre, questa festa della libertà (che simbolicamente obbliga a ripulire le case da ogni traccia di cibo lievitato o lievitabile) è in Palestina occasione di tensione politica. Lo si percepisce quest’anno a Gerusalemme anche per il fatto che la pasqua ebraica viene a ridosso di quella cattolica e ortodossa, con grande affluenza di pellegrini e in un momento di particolare apprensione e nervosismo politico. Accanto al timore di una ripresa di scontri a Gerusalemme (dove sono presenti ingenti forze di polizia) e sul confine di Gaza (dove nelle ultime 48 ore due militari israeliani, quattro palestinesi sono rimasti uccisi e sono riapparsi i carri armati) l’atmosfera dentro e fuori Il mondo politico si è surriscaldata. All’interno della coalizione israeliana si assiste alla corsa dei partiti religiosi e dei coloni a usare la festa e le sue connessioni emotive, religiose e storiche per accattivarsi le simpatie del pubblico con inviti a visitare località bibliche, spesso nelle zone ancora occupate, con dichiarazioni come quella che incita a considerare «temporanea» la presenza di moschee sulla spianata del Tempio di Gerusalemme o denuncia di ogni segno di compromesso sulla questione delle costruzioni a Gerusalemme est. Iniziative denunciate dagli arabi e viste da non pochi osservatori stranieri come provocazioni. Allo stesso tempo si riparla di crisi governativa. Una possibilità che paradossalmente non dispiacerebbe troppo al premier Netanyahu. Apprezzato in patria per la maniera in cui ha tenuto testa al leader americano Barack Obama sulla questione delle costruzioni e a Gerusalemme è cosciente dei pericoli che provocherebbe un prolungato scontro con Washington e che il presidente dello Stato, Shimon Peres, invita a evitare. Liberarsi di alcuni ministri indisciplinati e condizionati da faide interne di partito, sarebbe per lui un vantaggio. D’altra parte, il ministro della difesa Ehud Barak, leader del partito laburista e membro della coalizione, si sente sempre più a disagio nel restarci. Se decidesse di abbandonare il governo, una crisi così provocata favorirebbe l’entrata nella nuova coalizione del partito di opposizione Kadima (che freme per ritornare al potere ed è formato da ex membri del partito Likud di Netanyahu). Una evoluzione del genere aiuterebbe a ristabilire la fiducia con l’America anche se la rottura fra Netanyahu e Obama appare tanto sul piano personale che politico profonda. Permetterebbe anche al premier, rimanendo in carica con pieni poteri sino alla formazione del nuovo esecutivo, di non rinunciare - almeno ufficialmente - alla costruzione di case a Gerusalemme dando a Washington la scusa di accettare lo status quo con un «governo di transizione». In questa situazione complicata dalle suscettibilità personali delle parti, c’è poi il ruolo dimenticato dell’Europa che di interessi nella ripresa di negoziati fra israeliani e palestinesi ne ha molti. Non a caso, Silvio Berlusconi, unico leader occidentale al summit della Lega araba ma anche il capo di governo europeo più apprezzato a Gerusalemme e in cui gli israeliani hanno maggior fiducia, ha scelto la Sirte per lanciare «da amico» l’appello a Israele di interrompere le costruzioni a Gerusalemme est. In mezzo a questo gran pasticcio, la ripetuta proposta fatta dal premier italiano di usare della «città della scienza» di Erici come luogo di possibile incontro fra israeliani e palestinesi, potrebbe essere un modo per aiutarli a scendere, senza troppo far loro perdere la faccia, dagli alberi su cui sono saliti.

L'ESPRESSO - Meron Rapoport : " La solitudine di Israele "


Meron Rapoport

Nel testo si legge : " I soldati a stelle e strisce ormai stazionano da anni nella regione, si sono fatti un'esperienza diretta nella lotta al terrorismo e non devono più dipendere da Tel Aviv perché si sono fatti un proprio background ". Tel Aviv è una città israeliana, non la capitale. E' difficile credere che un giornalista israeliano non conosca la capitale del proprio Stato.
Invitiamo i lettori di IC a scrivere all'Espresso chiedendo spiegazioni circa la frase di Rapoport. E' incredibile che un giornalista israeliano scriva Tel Aviv, questa bufala nasce nella mente sinistrata del traduttore.
Ecco l'articolo:

Adesso che l'amico americano non è più amico a qualunque costo, adesso che lo strappo c'è stato e le parole edulcorate della diplomazia sulla ricucitura di un rapporto solido sono solo un pallido lenitivo su una profonda ferita aperta, adesso Israele si sveglia con l'incubo peggiore: quello di essere rimasto solo. Sembrava un malinteso, al massimo un incidente, all'inizio, lo sgarbo del governo di Benjamin Netanyahu che ha accolto il vicepresidente Usa Joe Biden con l'annuncio della costruzione di 1.600 case a Gerusalemme Est. Si sta rivelando come quelle malattie che all'inizio vengono trascurate perché considerate di poco conto, e che solo durante il decorso, quando la febbre aumenta e i sintomi non scompaiono, disvelano tutta la loro pericolosità. Perché crisi con Washington ce n'erano state, anche in passato, persino più complicate, ma quello che è mutato è il contesto. Gli americani stanno nell'area, hanno basi ovunque in Medio Oriente, e uomini sul terreno dall'Iraq al lontano Afghanistan. E Israele potrebbe non essere più l'alleato indispensabile. Si teme di aver tirato troppo la corda con la riluttanza a riannodare le trattative di pace, con la sfida dei nuovi insediamenti nella città-simbolo che ogni accordo ipotizzato sinora vorrebbe divisa. Non si spiegano altrimenti i risultati di alcuni sondaggi condotti dopo lo strappo. Dice quello pubblicato dal giornale 'Haaretz': il 62 per cento degli israeliani giudica 'amichevole' l'atteggiamento di Barack Obama verso Israele. Il 41 per cento (contro un 48 di segno contrario) è per lo stop alle costruzioni a Gerusalemme Est. E la percentuale è molto significativa se la città santa è un tema sensibile, non negoziabile nell'opinione diffusa. Completa il quadro una seconda ricerca finita sul quotidiano 'Yediot Ahronoth': il 55 per cento crede che l'annuncio dell'espansione edilizia nel momento della visita fosse stato premeditato; se si votasse oggi il partito centrista Kadima, fondato da Ariel Sharon e di cui è leader Tzipi Livni (favorevole al negoziato coi palestinesi) sorpasserebbe il Likud di Netanyahu: 32 seggi contro 29. È la prima volta dalle elezioni dell'anno scorso.

Ci stiamo giocando l'America? La domanda rimbalza dalla strada ai salotti, ai centri del potere. Trova una risposta preoccupante e autorevole nell'analisi di Alon Pinkas: "Quello che sta succedendo non è un piccolo terremoto, ma un vero movimento delle placche tettoniche. È almeno dagli anni '80 che Israele si considera un bene strategico degli Stati Uniti. C'è chi ci ha definito addirittura 'la portaerei americana' in Medio Oriente. Discorsi di questo tipo non si sentono più a Washington. Obama crede che l'interesse decisivo per gli americani si trovi nel mondo arabo e Israele non solo non lo aiuti a formare un'alleanza di moderati, ma addirittura sia da ostacolo". Chi sia Pinkas, lo dice il suo curriculum. Ex console in America, è considerato il massimo esperto del Paese circa le relazioni con gli Usa. Netanyahu, appena diventato premier, gli offrì la poltrona di ambasciatore alle Nazioni Unite che il diplomatico accettò. Secondo una ricostruzione mai smentita fu Sara, la moglie del primo ministro, cresciuta in una famiglia profondamente di destra, a porre il veto sulla nomina, e la proposta venne ritirata. Il fatto personale non toglie nulla, tuttavia, alla lucidità della sua analisi. Pinkas guarda al passato, ricorda come gli Stati Uniti seppero volgere lo sguardo altrove quando nascevano nuovi immensi quartieri oltre la 'linea verde' del 1967 anche se non ha mai riconosciuto l'annessione di Gerusalemme Est. Ma allora, ragiona, "le divergenze di opinioni venivano ignorate perché era in corso un processo di pace, seppur sterile". Obama ha voluto porre fine al "ballo in maschera" di un finto negoziato e Netanyahu "stupidamente" non è stato in grado di offrirgli almeno un'alternativa per poter dire al mondo "stiamo lavorando". Chiosa il diplomatico: "Il ragionamento di Obama è più o meno questo. Che cosa abbiamo chiesto a voi israeliani? Di non costruire nuove colonie che comunque sarebbero evacuate se ci fosse un accordo. Ma voi non ci date nemmeno la possibilità di aiutarvi". E attenti anche all'ultima delle illusioni: "Tra i politici c'è chi crede che Washington parli un nuovo linguaggio per compiacere gli arabi, ma sotto sotto 'sta con noi', e dunque possiamo continuare indisturbati a fare quello che vogliamo. Niente di più sbagliato. Più ancora della diplomazia e del Congresso, dove Netanyahu cerca sponde per ostacolare le iniziative di Obama, in politica estera in America conta il Pentagono. E il Pentagono si è espresso".

Si riferisce alla deposizione del generale David Petraeus, il soldato più popolare negli Usa per i successi in Iraq, ora comandante 'CentCom' (controlla tutta l'attività militare americana in Medio Oriente), davanti alla Commissione Del Senato: "Il conflitto israelo-palestinese fomenta un sentimento anti-americano a causa della percezione che gli Usa favoriscano Israele. La rabbia araba circa la questione palestinese limita la potenza e la profondità della partnership americana con i governi e i popoli della regione e indebolisce i regimi moderati nel mondo arabo". Analisi che non è suonata nuova all'establishment militare israeliano, per motivi intuibili in perenne contatto con i colleghi dall'altra parte dell'Oceano. Non a caso è proprio ai vertici di Tsahal che si avverte la preoccupazione più profonda circa la svolta americana. Ed è il ministro della Difesa Ehud Barak l'uomo che ha captato più di tutti il cambiamento del vento perché dispone dei sensori più sofisticati. I soldati a stelle e strisce ormai stazionano da anni nella regione, si sono fatti un'esperienza diretta nella lotta al terrorismo e non devono più dipendere da Tel Aviv perché si sono fatti un proprio background.

Gli stessi collaboratori di Bibi Netanyahu, anche se minimizzano la portata dello scontro con Washington e credono in un veloce ripristino della normalità, non nascondono qualche preoccupazione. Dice un ministro molto vicino al premier: "Dall'epoca di Reagan a quella di Bush figlio c'è stato un sentimento favorevole ad Israele che ha ispirato l'azione dell'amministrazione americana. Ora tale sentimento non esiste più. In questo senso si apre una fase nuova in cui non potremo godere del vantaggio". E se anche ci sarà una ricomposizione di facciata delle controversie, "un altro incidente potrebbe scatenare la rabbia di Washington. Obama crede che il conflitto israelo-palestinese sia la madre di tutti i guai della regione e questo è un problema per noi. Soprattutto perché, se eventuali negoziati con Abu Mazen dovessero fallire, potrebbe essere tentato di dare la colpa a noi. Sarebbe il peggior scenario".

La sindrome di un 'tradimento' americano serpeggia anche nella Knesset, il Parlamento. La avverte Daniel Ben Simon, deputato eletto coi laburisti, poi conquistato da Netanyahu e infine, deluso, tornato sulle posizioni di partenza: "Molti miei colleghi, di destra ma anche di sinistra, sostengono che la crisi sia stata 'premeditata' dagli americani perché questo è il nostro destino, di stare sempre sull'orlo dell'abisso. Una sorta di mentalità da Masada". Masada è la fortezza dove gli ebrei si suicidarono in massa per non cadere nelle mani dei romani che la cingevano d'assedio. Il lugubre paragone suona eccessivo. Però davvero Israele è davanti a un bivio e si deve cominciare a chiedere: cosa possiamo fare per avere la pace?

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