Sui risultati definitivi delle elezioni in Iraq, pubblichiamo oggi, 28/03/2010, il commento di Carlo Panella su LIBERO, a pag. 18, e l'editoriale del FOGLIO, del 27/03/2010, a pag.3.
LIBERO-Carlo Panella: " Con la vittoria di Allawi l'Iraq fa un passo avanti e riconosce il lavoro di Bush"


Il trionfo elettorale di Iyyad Allawi in Iraq segna non solo un passo fondamentale per la costruzione della democrazia a Baghdad, la fine della breve egemonia politica dei partiti religiosi sciiti, il pieno ingresso unitario dei sunniti nel governo, la sconfitta delle forze che volevano la guerra di religione, l’umiliazione - addirittura - delle trame messe in atto dal regime di Teheran per fare dell’Iraq uno stato satellite, la sconfitta delle complicità col terrorismo della Siria. Segna anche il trionfo, la lungimiranza della strategia di George W. Bush e stigmatizza la miopia politica di Barack Obama. Nessuno lo ricorda, ma Bush invitò Allawi a Washington già nell’agosto del 2002, assieme agli oppositori anti Saddam Hussein in esilio, per costruire il futuro del paese dopo la dittatura; il governatore Usa dell’Iraq Paul Bremer, in nome di Bush, lo nominò primo ministro iracheno il 1 giugno 2004 e infine fu proprio Bush a volere il Surge del generale Petraeus che non solo isolò e sconfisse i terroristi qaidisti, ma costituì la premessa per l’alleanza tra laici, sunniti e sciiti che ha costituito il segreto dello straordinario successo elettorale di Iraqyya, il rassemblement di Allawi. La vittoria su Maliki Il prossimo premier iracheno ha così vinto 91 seggi su 325, battendo la “Lista per lo Stato di Diritto” del premier uscente Nuri al Maliki (89 seggi) e stralciando di gran lunga la Ina dei partiti confessionali sciiti (lo Sciri, più vicino al governo di Teheran e il partito di Moqtada al Sadr, vicino agli oltranzisti iraniani). Bene, ognuno di questi passaggi della strategia di Bush ha sempre visto Obama nettamente contrario, tanto che, da senatore, votò contro lo strategico Surge del generale Petraeus. Non solo divergenze tattiche quindi, ma strategiche e oggi i questo risultato elettorale sta a dimostrare qualcosa di più importante degli errori di Obama (e della sinistra mondiale e nostrana): la democrazia si può e si deve esportare e gli Usa - se hanno dei presidenti capaci - sono in grado di dare vita a processi di Nation Building virtuosi che non producono “disastri umanitari” (così sino a pochi giorni fa il mondo politically correct, in primis quello nostrano, parlava dell’Iraq), ma sicuri processi democratici, sia pur lenti e anche sanguinosi. Certo, Baghdad è ancora colpita da terroristi che hanno i loro santuari in Siria, ma milioni di iracheni li contrastano andando in massa alle urne in cui votano per leader che si evolvono, che trasformano i loro partiti identitari e confessionali di origine, in alleanze laiche e interconfessionali. La conquista della roccaforte La vittoria di Allawi è stata infatti speculare alla sconfitta netta che in tutto il sud sciita ha riscontrato l’allean - za filo iraniana che è risultata minoritaria persino a Kerbala (roccaforte di Moqtada Sadr), a Najaf, a Bassora, a Nassirya. Questo, mentre il nord curdo, invece di trasformarsi in una polveriera di lotta indipendentista contro la Turchia (come giuravano sarebbe successo gli avversari di Bush, anche i leader della sinistra nostrana), è diventato il simbolo di un federalismo interetnico (il presidente dell’Iraq è il leader curdo talebano), che attira investimenti miliardari dalla Turchia. Certo, il cammino è lungo, le contestazioni sul voto non mancano, ma i colloqui per un esecutivo di larghe alleanze sono già in corso, con la non indifferente copertura di quella rete di appoggi esterni (Arabia Saudita, Giordania e Egitto) che Allawi ha saputo costruire per rafforzare la sua alleanza con i rappresentanti sunniti in una prospettiva di pacificazione sempre più robusta.
IL FOGLIO- " L'Iraq en rose "

Iyyad Allawi
Questo giornale non ha mai lesinato sulle speranze di un nuovo Iraq democratico, ma ora si sta perfino esagerando. Le elezioni del 7 marzo sono state vinte a sorpresa dal leader Ayad Allawi, secolare, nazionalista e ostile alle divisioni tra sunniti e sciiti. Il blocco sciita di al Hakim, oscurantista e legato a doppio filo all’Iran è stato schiacciato nelle urne, una disfatta che dimostra quanto gli iracheni sono stanchi delle fole settarie e anche della mano troppo lunga di Teheran. Non ci piacete, non vi vogliamo più, non vi votiamo. Secondo con distacco brevissimo di soli due seggi è arrivato il primo ministro Nouri al Maliki, che ha calmato i suoi sostenitori – quelli invocavano il riconteggio – con l’aplomb di un premier scandinavo: “Accetto il risultato emerso dalle urne e ringrazio il popolo iracheno e le forze politiche perché queste elezioni sono state trasparenti”. Se Allawi nei prossimi 30 giorni riuscirà a formare una coalizione di governo, per l’occidente sarà il migliore dei mondi possibili: un esecutivo proamericano guidato da un ex contatto Cia che si schiererà con gli stati arabi – Arabia Saudita, Egitto e Giordania – per sradicare l’estremismo sunnita e per fare pressione contro l’Iran. Per Teheran sarà una scarpata in faccia senza nemmeno potersi abbassare.
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