Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Netanyahu tiene duro e non bloccherà la costruzione di nuove case a Gerusalemme Analisi di R. A. Segre, Angelo Pezzana, Redazione del Foglio. Cronache di Maurizio Molinari, Francesco Battistini
Testata:Il Giornale - Libero - Corriere della Sera - La Stampa - il Foglio Autore: R. A. Segre - Angelo Pezzana - Maurizio Molinari - Francesco Battistini - La redazione del Foglio Titolo: «Questo è uno scontro fra uomini, non fra Stati - Israele non cede, è crisi con gli Usa - Israele non si piega: 'Avanti con le colonie' - Che cosa c'è dietro lo scontro tra Israele e Stati Uniti»
Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 16/03/2010, a pag. 16, il commento di R. A. Segre dal titolo " Questo è uno scontro fra uomini, non fra Stati ". Da LIBERO, a pag. 21, l'analisi di Angelo Pezzana dal titolo " Nei colloqui di pace Israele vuole affermare l’indipendenza da Obama". Dalla STAMPA, a pag. 14, la cronaca di Maurizio Molinari dal titolo " Israele non cede, è crisi con gli Usa ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 18, l'articolo di Francesco Battistini dal titolo " Israele non si piega: 'Avanti con le colonie' ", preceduto dal nostro commento. Dal FOGLIO, a pag. 3, l'articolo dal titolo " Che cosa c'è dietro lo scontro tra Israele e Stati Uniti ", preceduto dal nostro commento. Ecco i pezzi:
Il GIORNALE - R. A. Segre : " Questo è uno scontro fra uomini, non fra Stati "
R. A. Segre
Un vento di follia soffia sui rapporti fra Washington e Gerusalemme (lo dice Uri Dromi, che fu portavoce di Rabin e di Peres quando erano primi ministri). Lo dice il New Herald Tribune in due fondi, uno intitolato «La follia di Netanyahu». «Il primo ministro (col piano di nuove costruzioni) sta sabotando ogni possibilità di accordo su Gerusalemme... La sua campagna per consolidare il controllo su Gerusalemme Est deve essere fermata». «Israele ha perso il contatto con la realtà» afferma sul New York Times L. Friedman, influente commentatore politico americano, due volte premio Pulitzer (e che gioca a golf con Obama), definendo lo schiaffo dato al vicepresidente Biden con l’annuncio della costruzione di nuovi 1600 alloggi in zona araba come «pura follia». Il segretario di Stato Clinton parla di «insulto» alla presidenza statunitense. Il portavoce di Obama intenzionalmente non chiama più Netanyahu premier ma «Bibi Netanyahu». A Gerusalemme e a Washington si sta perdendo la testa e il controllo dei nervi? Un poco sì, per reazione a differenti forme di orgoglio ferito. Ma dalle due parti si cerca di rabberciare i cocci perché questa tempesta (che non è certo in un bicchier d’acqua) è una crisi fra persone ma non fra Stati. Anzi, potrebbe essere una crisi non voluta ma sfruttabile per crearne all’interno della coalizione governativa israeliana un’altra allo scopo di ricomporre l’alleanza. Una crisi del genere non dispiacerebbe a Netanyahu. Sa di aver perso il controllo della sua coalizione in cui indisciplinati spezzoni parlamentari - laici e religiosi - animati da miopi interessi locali cercano di far allineare i loro gruppi su posizioni messianiche, ultranazionaliste e in certi casi persino fascistizzanti. Sono mesi che il premier cerca di rompere l’unità del partito di opposizione Kadima, guidato dalla signora Livni, per attrarre una parte dei suoi deputati nella coalizione e renderla più disciplinata. Allo stesso tempo gli americani sanno che la Livni non è in grado di ottenere una maggioranza alla Knesset. Vorrebbero che Netanyahu ne formasse un’altra possibilmente con lei e danno l’impressione di star gonfiando la crisi proprio per questo. Una cosa è certa: questa è una crisi a livello personale e di immagine, non a livello degli interessi reciproci che legano i due Paesi. Israele non può fare a meno dell’alleato americano. L’America non ne dispone di un altro sicuro nella regione, soprattutto nel momento di confronto (attivo o passivo) con l’Iran. C’è poi il Congresso di Washington. Rimane decisamente schierato a favore di Israele, con una percentuale di sostegno nella opinione pubblica a favore di Israele sopra il 60 per cento. A dimostrare l’influenza ebraica sul Congresso c’è la denuncia dell’ «olocausto» degli Armeni per mano turca nella Prima guerra mondiale. La denuncia è passata alla Commissione del Congresso perché quest’anno gli israeliani non si sono dati da fare come in passato a bloccarla a causa del congelamento dei rapporti della Turchia con Gerusalemme. Al Congresso poi c’è in bilico l’approvazione della legge Obama per la riforma della sanità. Le elezioni per il rinnovo di una parte del Senato si avvicinano. Anche i repubblicani che non amano Israele sono lieti di difenderlo contro un’amministrazione che appare sempre più incerta in politica estera. A Washington e a Gerusalemme ci sarà chi continuerà a sentirsi offeso. Alla fine però si dovranno «ingoiare i rospi» (palestinesi inclusi) e piegarsi alla volontà americana tanto sulle costruzioni ebraiche negli insediamenti quanto sulla ripresa dei negoziati.
LIBERO - Angelo Pezzana : " Nei colloqui di pace Israele vuole affermare l’indipendenza da Obama"
Angelo Pezzana
Che l’America senza Bush fosse ridiventato un interlocutore degno di rispetto per la maggior parte dei nostri giornali lo si era già visto durante la campagna elettorale di Barck Obama, seguita con un senso di venerazione per il candidato democratico che prometteva l’opposto di quanto Bush aveva realizzato. Ma è stato sufficiente un anno o poco più perché il “nuovo” annunciato da Obama si presentasse carico di delusioni e insuccessi. Un disastro è stato soprattutto il rapporto con il mondo arabo musulmano, che ha mostrato la fragilità del nuovo corso obamiano, quasi un duplicato della fallimentare politica del fu presidente Carter. L’ennesima prova l’hanno data Joe Biden, vice Presidente, e Hillary Clinton, Segretario di Stato, nell’affrontare la ripresa dei colloqui israelo-palestinesi. È vero che una mano gliel’ha data lo stesso Netanyahu, quando nel momento in cui Biden arrivava a Gerusalemme, il suo Ministro dell’interno annunciava la ripresa delle costruzioni nella parte orientale della città, una dichiarazione di cui non si sentiva proprio la mancanza, e per questo difficilmente attribuibile ad un errore, anche se Bibi si è detto dispiaciuto. Biden se l’è presa a male, tanto da dimenticare che avrebbe potuto e dovuto presentare il conto ad Abu Mazen. Hillary seguiva a ruota da Washington con una lunga telefonata a Bibi, nella quale sottolineava quanto gli Stati Uniti erano risentiti per l’“offesa” ricevuta. Il consigliere di Obama Si è mosso anche David Axelrod, il consigliere di Obama, del quale ieri Repubblica evidenziava l’es - sere ebreo, così come aggiungeva, non fosse stato chiaro abbastanza, ebreo lo è anche Rahm Emanuel, l’altro consigliere di Obama. Se possibile, le sue dichiarazioni sono state ancora più dure nei confronti di Israele, ed il fatto che venissero da un ebreo ha eccitato e ingrandito lo spazio da dedicare alla notizia. Si sono scatenati corrispondenti e commentatori abitualmente schierati dalla parte palestinese, descrivendo un Netanyahu “scioccato”, addirittura “tramortito” dai rimproveri ricevuti, che riflette più un desiderio di chi l’ha scritto che non la realtà. Bibi sa benissimo che gli Stati Uniti sono un alleato indispensabile dello Stato ebraico, ed essendo anche un esperto diplomatico, sa bene quando si deve usare il guanto di velluto. Quanto è avvenuto pare a noi più che altro una dimostrazione, magari non voluta in quei termini così precisi, di una affermazione di indipendenza del governo di Israele nei confronti della politica mediorientale di Obama. Attenzione, Israele è uno Stato sovrano alle prese con un avversario con il quale si vuole sì fare la pace, ma che sia tale, non una capitolazione. Obama, e chi per lui, imparino a conoscere la società palestinese, divisa com’è fra Anp e Hamas, fra una Cisgiordania che grazie alla collaborazione con Israele avanza e progredisce sul piano economico, ma in quanto alle garanzie di sicurezza troppi episodi, anche recenti, dimostrano che il governo di Abu Mazen non controlla affatto la situazione. L’alleato israeliano Non sappiamo che cosa pensino Obama-Biden- Clinton sul potenziale offensivo di Hezbollah in Libano, se sono stati informati del riarmo di Hamas a Gaza, quale valutazione abbiano tratta dalla delusione ricevuta dalla Siria, che nel progetto obamiano pareva sufficiente riaprire i rapporti diplomatici per staccarla dall’Iran. Si è visto come è andata. Saremmo anche curiosi di conoscere a che punto è la questione Turchia, dopo che il regime è riuscito a soffocare la protesta dei militari, chiamandoli golpisti invece che difensori della laicità messa sotto attacco da Erdogan. A queste domande, che temiamo resteranno fin da ora inevase, andrebbe aggiunto l’Iran, a meno che Obama, per coronare il suo “yes, we can” non intenda mandarci a trattare Jimmy Carter, che con gli ayatollah ha già dato prova di quanto sa fare in passato. In una situazione simile, sarà opportuno che la diplomazia americana, in Medio Oriente, si adonti meno, e impari da chi ne sa di più. E non dimentichi che il suo alleato, da sempre, è Israele.
La STAMPA - Maurizio Molinari : " Israele non cede, è crisi con gli Usa "
Èun aspro botta e risposta fra Stati Uniti e Israele sulle nuove costruzioni a Gerusalemme Est a mettere in risalto la «più seria crisi bilaterale degli ultimi 35 anni», come la definisce l’ambasciatore israeliano a Washington Michael Oren. Le costruzioni in questione sono le 1600 case del quartiere di Ramat Shlomò che il governo israeliano ha approvato durante la recente visita del vicepresidente Joe Biden a Gerusalemme sollevando le forti proteste della Casa Bianca. Proprio dando seguito a tale irritazione il Segretario di Stato, Hillary Clinton, ha fatto recapitare all’ambasciatore Oren la richiesta di «cancellare la decisione sui nuovi insediamenti a Gerusalemme Est». Sono due i motivi che spingono Hillary. Primo: ottenere da Nethanyau un gesto riparatore dell’«offesa all’America» spingendolo a estendere a Gerusalemme Est il già proclamato congelamento negli insediamenti in Cisgiordania. Secondo: favorire l’inizio dei «colloqui indiretti» facendo capire ai palestinesi che gli Usa sostengono la loro opposizione agli insediamenti e considerano Gerusalemme Est oggetto del negoziato. La risposta del premier israeliano non si è fatta attendere e intervenendo alla Knesset ha ribattuto: «Le costruzioni a Gerusalemme continueranno come avvenuto negli ultimi 42 anni» ovvero dal giugno 1967 quando con la Guerra dei Sei Giorni la parte orientale della città cadde nelle mani di Israele che la dichiarò capitale «unica e indivisibile». Il disaccordo fra i due tradizionali alleati non potrebbe essere più evidente e Oren ne trae le conseguenze: «È una crisi molto seria, abbiamo di fronte una fase difficile di relazioni bilaterali, per trovare qualcosa di simile bisogna risalire al 1975» quando l’amministrazione Ford recapitò con Henry Kissinger al premier Itzhak Rabin la richiesta di ritirare gran parte delle truppe dal Sinai. A riflettere le fibrillazioni fra amministrazione Obama e governo Nethanyau è la spaccatura fra associazioni ebraiche americane: l’«Aipac », il maggior gruppo pro- Israele a Washington, parla di «escalation negativa» chiedendo alla Casa Bianca di «non imporre ultimatum unilaterali», mentre «J Street», composto da sostenitori di Obama, imputa l’attuale crisi «alle scelte di Nethanyau» chiedendo agli Stati Uniti di «suggerire alle parti i parametri per i negoziati» ovvero di porre condizioni esplicite durante i «colloqui indiretti» del mediatore George Mitchell. Il duello con Israele espone Obama alle critiche dei conservatori. Aspro l’editoriale del «Wall Street Journal»: «Questo presidente corteggia i dittatori e litiga con gli amici»
CORRIERE della SERA - Francesco Battistini : " Israele non si piega: 'Avanti con le colonie' "
Il titolo è particolarmente scorretto. L'utilizzo delle virgolette lascia intendere che Netanyahu si sia espresso in questi termini, cosa impossibile dal momento che Gerusalemme non è una colonia e, di sicuro, non è considerata tale dal governo israeliano. Facciamo notare ai lettori che nemmeno la titolazione dell'articolo di Udg sull'Unità si è spinta a questi livelli. Il tono dell'articolo, invece, ricorda i pezzi di Udg, di Ugo Tramballi sul Sole 24 Ore e di Michelangelo Cocco e Ali Rashid sul Manifesto, tutti pendenti in favore dei palestinesi. Ali Rashid, in particolare, sostiene che Israele stia umiliando gli Stati Uniti continuando la costruzione di case a Gerusalemme. Tanto può l'antisemitismo, spingere il quotidiano comunista a difendere l'America. Ecco l'articolo di Francesco Battistini:
Gerusalemme, il Kotel
GERUSALEMME — Pronto, Silvio? Pronto, Angela? Più inquieto che preoccupato, sabato il premier israeliano Bibi Netanyahu aveva chiamato gli amici europei che gli rimangono, Berlusconi e la Merkel, per capire da loro che cosa stesse succedendo a Washington. Non aveva ancora finito di scusarsi per la gaffe durante la visita di Joe Biden, il vice di Obama messo in pubblico imbarazzo con l’annuncio dei 1.600 alloggi a Gerusalemme, che Hillary Clinton aveva rincarato furiosa. Domenica, di nuovo: aveva appena minimizzato la crisi diplomatica con gli Usa, chiedendo ai suoi nervi saldi, ed ecco spuntare un consigliere di Obama a definirsi «insultato». Ieri, Bibi ha gettato ogni cautela, è andato alla Knesset e l’ha detto chiaro. Niente dietrofront, basta scuse: «Negli ultimi 42 anni, nessun governo israeliano ha mai limitato le costruzioni nei dintorni di Gerusalemme. Le costruzioni continueranno».
Avanti betoniera. Non si ferma «la peggior crisi fra Israele e Stati Uniti dal 1975», come la definisce Michael Oren, oggi ambasciatore di Gerusalemme a Washington: roba che ricorda l’ira di Ford ai tempi del Sinai, o momenti neri come la nave americana affondata in piena guerra dei Sei giorni o ancora, in era Reagan, il clamoroso arresto dello spione Pollard. La furia di Obama viene descritta come autentica, ma anche Netanyahu non scherza e la diffidenza è reciproca: se l’America vuole più fatti nel congelamento delle colonie, Israele vorrebbe meno chiacchiere nel confronto con l’Iran; se Barack ricorda d’aver applaudito quando Bibi annunciò 10 mesi di moratoria nelle nuove costruzioni, Bibi non dimentica d’aver sottolineato a Barack che — da quella moratoria — è sempre stata esclusa Gerusalemme; e se c’è chi nota l’errore d’aver parlato delle case di Ramat Shlomo in piena visita di Stato, c’è chi osserva come quelle case fossero già decise da tre anni e nessun inviato americano, nemmeno il George Mitchell in arrivo oggi, le aveva pubblicamente contestate.
Ragioni e torti s’incrociano, come in ogni lite fra amici. Sempre che di vera rissa si tratti e non, per dirla con l’ex ambasciatore Avi Pazner, d’un malinteso. Perché dietro le parole, cominciano i sospetti. Con la Casa Bianca che si chiede fin dove Bibi sia ostaggio dei suoi alleati di governo più estremisti. Con un anonimo ministro israeliano, intervistato da Ma’ariv, che si domanda se Obama non stia in realtà «cercando di far cadere Netanyahu » . Il dilemma d’Israele è: c’è qualcosa di sproporzionato in questa rabbia, come ha scritto un commentatore, o davvero (parole di Yedioth Ahronot) «stiamo perdendo il sostegno di un’intera ala dell’ebraismo americano, la sinistra moderata, che giudica provocatoria la politica di Netanyahu»? Una risposta, Bibi ieri se l’è data.
Meno lampante se Obama abbia le idee altrettanto chiare: un segnale sarà fra un mese, a Washington, dove il premier israeliano è atteso per la conferenza sul nucleare e ha in agenda un incontro col presidente Usa. «Israele resta un alleato strategico — dice un portavoce del Dipartimento di Stato —. Però attendiamo una sua risposta formale». Abbastanza forte da sentirsi fin laggiù.
Il FOGLIO - " Che cosa c'è dietro lo scontro tra Israele e Stati Uniti "
Ecco la 'colonizzazione' di Israele. Restaurare siti archeolocigi e sacri per gli ebrei. Non è esattamente ciò che farebbero (e hanno fatto in passato e continuano a fare) gli arabi, che hanno distrutto ogni cosa sul loro passaggio e non garantivano l'accesso ai luoghi sacri alle minoranze. Ecco il pezzo:
La tomba di Rachele, a Betlemme
Antiche sinagoghe. Tombe millenarie. Fortezze nel deserto. E’ attorno ai simboli religiosi e alla conservazione del carattere ebraico di Gerusalemme che è scoppiata “la peggior crisi tra Israele e Stati Uniti dal 1975”, come ha detto ieri l’ambasciatore israeliano a Washington Michael Oren (nel 1975 Israele si rifiutò di firmare un trattato sul Sinai). Una crisi che secondo molti commentatori rischia di sfociare in una terza Intifada. Il governo Netanyahu ha annunciato la costruzione di 1.600 abitazioni a Gerusalemme est, che i palestinesi reclamano come loro capitale. Negli stessi giorni a Gerusalemme c’era in visita il vicepresidente Joe Biden e la Casa Bianca ha usato parole durissime, denunciando l’“oltraggio” israeliano.
Se in “Giudea e Samaria”, come i religiosi israeliani chiamano la Cisgiordania contesa, Netanyahu ha promosso un congelamento per diversi mesi degli insediamenti, decisione politica senza precedenti tra i governi israeliani anche di sinistra, a Gerusalemme si va avanti a costruire e si è intensificato lo scontro attorno a leggendari simboli ebraici. Netanyahu ha chiarito come tale decisione “non modifichi in nulla lo status quo dei siti in questione”. Ma ha anche spiegato che la libertà di culto si ha soltanto dal 1967 sotto responsabilità israeliana. Prima della guerra dei Sei giorni, infatti, agli ebrei era vietato dai giordani l’ingresso nella città vecchia di Gerusalemme, dove si trova il luogo più importante della tradizione ebraica, il Muro del pianto; a Hebron, dove sono sepolti i patriarchi biblici; alla tomba di Giuseppe a Nablus e della matriarca Rachele a Betlemme. L’Autorità palestinese ha violato sistematicamente gli accordi di Oslo nella protezione dei luoghi santi ebraici in Cisgiordania. Durante la seconda Intifada i palestinesi distrussero la Tomba di Giuseppe e la sinagoga Shalom al Yisrael a Gerico. C’è chi chiede che anche quest’ultima sia inclusa nel piano Netanyahu. Attualmente l’esercito israeliano consente soltanto una visita mensile.
Per annunciare la sua nuova politica del patrimonio culturale, Netanyahu non ha scelto un posto a caso. E’ andato in cima a Tel Hai, dove si svolse una celebre battaglia contro gli arabi. Lì è sepolto Joseph Trumpeldor, un ardente sionista che cercò di difendere il kibbutz dall’aggressione araba. Prima di perire disse al suo medico: “E’ un bene morire per il proprio paese”. Il piano Netanyahu è semplice: 73 milioni di euro per restaurare siti cari a Israele. Non soltanto lo skyline di Tel Aviv e il suo Bahaus, ma anche i principali siti archeologici di biblica memoria. Netanyahu vuole incrementare il volto ebraico di Gerusalemme, da mesi al centro di battaglie legali sulle costruzioni. A scatenare le ire degli alleati americani è stata l’inclusione fra i tesori culturali anche di tombe che sorgono nei Territori contesi dopo la guerra del 1967. Netanyahu ha annunciato di voler rinverdire l’area del Cedron, adiacente alla cittadella di David. Gli arabi affermano che è una zona di loro proprietà, ma non sono stati capaci di dimostrarlo davanti alla magistratura israeliana. Il giardino di re David è citato più volte nella Bibbia, da Isaia a Geremia, con le sue acque leggendarie. Lì sorge anche la tomba di un venerato rabbino di origini italiane, Ovadiah Ben Avraham. Sempre lì si trovano le tombe monumentali del secondo Tempio. E’ la valle di Giosafat, sotto il monte degli Ulivi.
E’ qui che secondo la Bibbia si svolgerà il Giorno del Giudizio. Molti ebrei da tutto il mondo comprano ormai rari lotti. Sono quattromila anni che si viene a morire qui volentieri. Fra le grandi tombe quella di Assalonne e di una principessa egizia venuta in sposa a re Salomone. Ieri nella Città vecchia a Gerusalemme il governo Netanyahu ha inaugurato la storica sinagoga Hurva, che come scrive il Jerusalem Post “forse più di ogni altro sito archeologico simboleggia il desiderio del popolo ebraico di tornare alla propria terra”. Distrutta dai musulmani nel XVIII secolo, ricostruita attraverso i fondi di magnati ebrei, la sinagoga è stata nuovamente distrutta nel 1948 dai soldati giordani. E’ rimasta senza ebrei fino al 1967. Ieri è stata riconsegnata al pubblico dopo anni di desolazione e incuria.
Tra i luoghi che Netanyahu intende valorizzare, oltre al roccione di Masada teatro del suicidio dei guerrieri ebrei contro i romani e a tre sinagoghe sul Golan, c’è la tomba dei patriarchi di Hebron, dove poche centinaia di ebrei vivono in mezzo a decine di migliaia di palestinesi e che è stato teatro di una fitta scia di dolore in cui sangue chiama sangue. La città è menzionata nella Bibbia ottanta volte e risale a più di tremila anni fa. Lì sono sepolti Abramo, la moglie Sara, il figlio Isacco e sua moglie Rebecca, quindi Giacobbe e sua moglie Lea. Nel 1929, senza che ci fosse stata provocazione verso gli arabi, sessanta ebrei furono massacrati in un pogrom. Quando dopo il 1967 gli ebrei tornarono a vivere nel cuore di Hebron, mancavano da una generazione.
C’è l’antica sinagoga di Sussiya, a sud di Gerusalemme, centro del Talmud. E la nota Qumran, dove sono stati rinvenuti i rotoli del Mar Morto. La tomba di Rachele dista pochi metri dalla linea tra Gerusalemme e Betlemme. Due stanzette ritenute la tomba di quella che per gli ebrei è una specie di madre universale, la moglie di Giacobbe che morì nel dare alla luce Beniamino. Le donne senza figli cercano lì miracoli di fertilità. Netanyahu ha annunciato di voler proteggere la tomba di Erode, la stessa zona del profeta biblico Amos. Dalla fine dell’800 la tomba divenne uno dei trofei più contesi dell’archeologia biblica. Nel 1982 uno studente americano fu ucciso da palestinesi. Il giorno dopo i coloni fondarono una comunità. Si chiama Nokdim e tra i suoi abitanti c’è il ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman.
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