Elezioni in Iraq. Pubblichiamo due interviste, la prima a Iyad Allawi, di Gian Micalessin sul GIORNALE a pag.13. La seconda ad Ahmad Chalabi, di Alberto Negri, sul SOLE24ORE, a pag.11. Poi il commento, sempre sul GIORNALE di Livio Caputo a pag.13.
Ecco gli articoli:
Il Giornale-Gian Micalessin: " Gli americani tornino a casa, ora l'Iraq deve fare da solo "

Iyad Allawi
Bagdad«Se sarò nominato premier affronterò prima di tutto il problema della sicurezza perché senza di quella un Paese non sopravvive. Subito dopo cercherò di aumentare il potere d’acquisto delle famiglie perché quando nelle case non c’è da mangiare garantire la legalità è ancor più difficile». Sei anni fa era l’uomo forte di Bagdad, oggi è pronto a tornare ad occupare la vecchia poltrona di primo ministro, ma anche a diventare il simbolo della riconciliazione nazionale. Lui si chiama Iyad Allawi e nei suoi 65 anni di vita è sopravvissuto prima ai killer di Saddam Hussein e poi a quelli di Al Qaida. Figlio di uno dei protagonisti della lotta per l’indipendenza, Allawi è anche il simbolo della complessità e delle contraddizioni di questo Paese. Nato da una famiglia sciita, ha iniziato la sua carriera come membro del partito Baath per trasformarsi poi in uno dei più strenui oppositori del raìs e lavorare a stretto contatto con la Cia.
Al pari del defunto dittatore è considerato un uomo privo di scrupoli, capace di imporre il proprio volere con il pugno di ferro. Non a caso voci e leggende sul suo breve mandato da primo ministro si sprecano. La più truce vuole che durante una visita ad un carcere abbia ucciso di persona due detenuti di Al Qaida per dimostrare ai suoi generali la necessità di una lotta al terrore senza compromessi. Sei anni dopo, Allawi si presenta come il simbolo della riconciliazione e dell’unità nazionale. La sua coalizione - battezzata Iraqiya - raccoglie sia ex esponenti del partito Baath, sia militanti sciiti poco inclini al fanatismo religioso. Questo doppio legame ne fa uno dei candidati favoriti per la vittoria finale.
«Le differenze etniche, culturali, religiose - spiega Allawi in questa intervista a Il Giornale - sono una delle ricchezze di questo Paese, per questo noi vogliamo mettere fine al settarismo, eliminare le discriminazioni e avviare una nuova stagione di solidarietà e unità nazionale. Io sono stato perseguitato da Saddam Hussein per trent’anni, ma non cerco né vendetta né riscatto, voglio solo la riconciliazione e il benessere della nazione».
L’accusano di fare il gioco degli ex di Saddam.
«Chi ha commesso dei crimini deve vedersela con i giudici, chi non ha fatto nulla di male ha, invece, il diritto di venir reintegrato nel processo politico».
Durante il suo primo mandato ha scontentato tutti. Che errori non rifarebbe?
«Cambiare un Paese in pochi mesi non è facile. Il mio programma non è cambiato, mi batterò anche stavolta per costruire delle istituzioni efficienti. La mia vittoria regalerà stabilità all’Irak e a tutta la regione».
Se vince lei perdono gli alleati di Teheran. L’Iran la lascerà lavorare?
«Con l’Iran voglio rapporti buoni, ma chiari. Voglio chiudere le questioni rimaste aperte dagli anni della guerra e aprire un capitolo nuovo basato su riconoscimento e rispetto reciproco».
L’Italia sta diventando uno dei principali partner dell’Irak in campo petrolifero. Come vede i rapporti con il nostro Paese?
«I rapporti con l’Italia sono tradizionalmente buoni e con me si continuerà su questa linea. Gli italiani e gli europei hanno bisogno del petrolio iracheno, noi iracheni abbiamo bisogno d’infrastrutture, tecnologie e investimenti che solo voi potete darci. Il bisogno è quindi reciproco».
L’attuale premier Nuri Kamal al Maliki vuole chiedere agli americani di restare. È della stessa idea?
«Gli americani non sono la soluzione ai nostri problemi. Non possiamo dipendere da loro. Non possiamo tenerceli qui per sempre. Per me devono partire quanto prima. Solo la riconciliazione e una politica di sovranità nazionale pienamente condivisa garantirà la fine della violenza. Senza questi elementi neppure l’esercito più potente del mondo garantirà la nostra tranquillità».
Ma l’esercito iracheno è in grado di garantire la sicurezza?
«Questo esercito non si basa sulle competenze e sulla professionalità dei suoi componenti, ma sulla loro appartenenza ad alcuni gruppi di potere. Per questo bisogna ristrutturarlo e riformarlo trasformandolo in una forza fedele al governo, libera da condizionamenti esterni e da legami con i partiti. Inoltre vanno messe fuori legge tutte le milizie private o di partito».
Tra le vittime del settarismo ci sono i cristiani. Cosa farà per mettere fine alle persecuzioni?
«Da giovane studiavo dai gesuiti e i miei migliori amici erano cristiani. So bene che quella comunità ha contribuito alla crescita del Paese. Perdere i cristiani significa rinunciare a una parte della nostra identità. Da primo ministro sono stato il primo a cercare di garantire la loro sicurezza e a mettere a disposizione dei fondi per far ricostruire le chiese distrutte. Se verrò rieletto farò di tutto per garantire il ritorno di chi è fuggito all’estero e assicurare a quella comunità il ruolo che aveva in passato».
IlSole24Ore-Alberto Negri: " L'inaffondabile Chalabi prepara il grande ritorno"

Ahmad Chalabi
Il personaggio è di levantina grandezza. Alla vigilia della guerra "Time" gli dedicò una copertina: «È il nostro uomo a Baghdad », dichiararono al Pentagono, ritenendo che Ahmad Chalabi potesse persino succedere al raìs. Ma ora gli americani si sentono traditi: «Le sue azioni e quelle della Commissione per la giustizia sono ispirate dall'Iran», ha detto qualche giorno fa il comandante americano Ray Odierno. Anche i sunniti sono furibondi con lui perché il comitato per l'epurazione dei baathisti, diretto da Chalabi, ha cancellato dalle liste centinaia di candidati tra i quali il loro esponente più in vista, Saleh al-Mutlak. Il comitato si comporta come il Consiglio dei pasdaran in Iran dicono i sunniti - dove tagliano le gambe ai concorrenti ancora prima di andare alle urne.
Dopo aver convinto Bush a rovesciare Saddam, Chalabi con la bocciatura nel 2005 sembrava fuori gioco; oggi le sue decisioni sono diventate un'ipoteca pesante sul voto. Condannato per bancarotta in Giordania negli anni 80, fu prima cassiere dei curdi, poi si fece passare per portabandiera degli sciiti e, dopo essere stato alleato di Washington, sembra diventato un fautore della linea filo-iraniana.
Banchiere e bancarottiere, agente della Cia e di Teheran, ex vice premier ed ex capo del dicastero del Petrolio, Chalabi è riuscito a farsi pagare da tutti e, soprattutto, a restare vivo in tre decenni di temperie mediorientali. Ora progetta di tornare in Parlamento con la coalizione dell'ex premier sciita Ibrahim al-Jaafari, in stretta competizione con quella dell'attuale premier Nouri al Maliki e dell'ex capo di governo Iyad Allawi. Sembra quasi ininfluente per la democrazia all'irachena che un candidato sia stato in questi mesi anche il capo del comitato per le epurazioni. Ma Chalabi è capace di conciliare l'inconciliabile. Rampollo di una ricca famiglia sciita, ha studiato dai gesuiti di Baghdad, si è poi laureato negli Stati Uniti. In Libano sposò Leila Osseiran, imparentandosi con una dinastia di leader come lo sceicco Osseiran, seguace del Grande ayatollah Ali Sistani, il religioso più importante dell'Iraq.
Chalabi può viaggiare dall'Atlantico al Mediterraneo fino al cuore dell'Iran sentendosi sempre a casa. Una figura spregiudicata che la Cia mise volentieri a libro paga con il nome di agente "Pulsar One". Chalabi spinse gli americani a sostenere la rivolta curda contro Saddam: fu un fallimento sanguinoso, un'operazione costata molte vite e 100 milioni di dollari. Ma l'insuccesso non lo fermò. A Washington era il consulente iracheno favorito dei neo- con e insieme all'arabista Bernard Lewis rafforzò la loro convinzione che l'attacco all'Iraq era indispensabile Qualche tempo fa lo incontrai nella Green Zone, il fortino degli americani. L'uomo che Bush aveva presentato come «il George Washington iracheno» doveva ancora scontare in Giordania una condanna a 22 anni per il fallimento della Petra Bank. «Sono un perseguitato politico - si difese - contro di me ci sono solo menzogne». Era appena incappato in un "incidente" che avrebbe travolto chiunque, rivelando agli iraniani che gli Usa avevano decifrato il loro codice impiegato nei messaggi segreti.
Ma gli americani stentavano a scaricarlo: «Svolge ancora un lavoro prezioso», mi disse con un sorriso ironico il portavoce di Petraeus.
Le sue energie le ha dedicate negli ultimi tempi a rafforzare i legami con Teheran, insieme alla Turchia il maggior partner commerciale dell'Iraq. Le influenze dell'Iran non si contano: Teheran protegge personaggi come Chalabi, il presidente Talabani, le milizie sciite al-Badr e radicali come Muqtada al-Sadr. I pasdaran e le Brigate al-Qods sono così presenti che a Erbil le truppe americane, durante un'incursione al consolato iraniano, hanno mancato di un soffio la cattura di un loro generale. La Turchia conta 10 miliardi di dollari l'anno di interscambio, l'Iran ufficialmente cinque ma con gli appalti e l'afflusso dei pellegrini nelle città sante la cifra raddoppia o triplica. Questo è un po' il paradosso iracheno: gli Usa occupano il paese da sette anni ma le potenze più influenti sono due stati contrari alla guerra, anzi la Turchia, membro Nato, si oppose anche al passaggio delle truppe Usa. Ahmad Chalabi, 66 anni portati con disinvoltura, si prepara intanto al grande ritorno. «Sono il più importante amico degli americani in Iraq », ripete ai visitatori. Una convinzione che non gli ha impedito di rilasciare un'intervista al "Teheran Times" così titolata: "Gli Stati Uniti interferiscono sulle elezioni irachene". L'agente Pulsar One sembra non temere i cambi di stagione e dal suo palazzo di Baghdad impartisce lezioni sul Medio Oriente e l'effimero destino degli uomini e delle nazioni
Il Giornale-Livio Caputo: " Più investimenti e più sicurezza, ma la svolta è lontana "

Livio Caputo
Le seconde elezioni irachene dopo la caduta di Saddam saranno le più incerte e combattute mai svoltesi in un Paese arabo. In lizza ci sono almeno tre partiti - l'Alleanza nazionale irachena di Muqtad al Sadr (sciiti religiosi), il Dawa del premier Al Maliki (sciiti più secolari) e il Movimento nazionale iracheno di Iyad Allawi (laici) - che hanno la possibilità di ottenere dal 15 al 25 per cento dei voti, più altri tre che sono intorno al 10 per cento. Nessuno perciò si aspetta che dalle urne emerga il solido e compatto governo che sarebbe necessario nel prossimo quadriennio, in cui si completerà il ritiro americano; dobbiamo aspettarci, piuttosto, settimane e forse mesi di complessi negoziati tra leader rivali per mettere insieme una coalizione che - in qualche modo - riporti il Paese alla normalità e non vanifichi del tutto gli 800 miliardi di dollari spesi finora dagli Stati Uniti per trapiantare la democrazia sulle rive del Tigri.
Oggi come oggi, la situazione si presta come poche al gioco del bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. Nella colonna dei più c'è - anzitutto - il miglioramento della sicurezza: le vittime di attentati e scontri tra milizie sono scese dalle tremila al mese del periodo 2006-2007 a circa trecento e, con qualche eccezione, la vita ha ripreso un ritmo abbastanza normale. Tra poliziotti e soldati, ci sono di nuovo quasi un milione di uomini in uniforme, che svolgono il loro lavoro in maniera accettabile. La già temutissima Al Qaida in Mesopotamia è stata isolata e ridimensionata. Le tensioni tra i tre gruppi in cui è divisa la popolazione, sciiti, sunniti e curdi, si sono attenuate, anche se il generale Odierno, capo delle forze Usa, teme che in assenza di un accordo sull'autonomia i curdi potrebbero scatenare una guerra di secessione. Infine, sono ripresi gli investimenti stranieri nel settore petrolifero, con la prospettiva di portare, entro qualche anno, la produzione a un livello sufficiente a garantire una esistenza meno precaria alla popolazione.
La colonna dei meno, purtroppo, è molto più corposa. Il Parlamento che ha appena concluso il suo mandato è stato un campione di inefficienza, con il risultato di screditare la nascente classe politica agli occhi dei cittadini e di indurne oggi moltissimi a rimanere a casa. Transparency international giudica l'Irak il quarto Paese più corrotto del mondo, dove bisogna pagare per tutto, da una targa d'automobile (3000 $) a un posto da colonnello dell'esercito (300.000 $). I vari leader hanno speso assai più energie a combattersi tra loro che a provvedere alla ricostruzione postbellica. Il risultato è che l'Irak va alle urne con il 45% di disoccupati, una economia ancora in gran parte pubblica (tre posti di lavoro su cinque sono forniti dallo Stato o dagli enti locali), e infrastrutture in condizioni tuttora molto precarie: strade disastrate, le comunicazioni aeree insufficienti, l'elettricità sempre mancante. Nonostante le note capacità della popolazione, l'iniziativa privata è quasi inesistente, sia perché mancano i capitali, sia perché la gente ha ancora paura. Il risultato è un reddito pro capite da Terzo mondo, a dispetto di riserve di idrocarburi seconde solo a quelle dell'Arabia Saudita.
Nonostante una campagna elettorale molto sporca, costellata da delitti, scandali e attentati, si spera che oggi il voto proceda senza incidenti gravi: il Paese, infatti, viaggia ancora sul filo del rasoio, e basterebbe poco per far precipitare la situazione.
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