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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Libero - Corriere della Sera - Il Foglio Rassegna Stampa
04.03.2010 Arrestato un giornalista iraniano in Italia. Trafficava armi per conto del regime
Cronache e analii di Andrea Morigi, Guido Olimpio. Con un confronto fra Michael Ledeen e Flynt Leverett sul nucleare iraniano

Testata:Libero - Corriere della Sera - Il Foglio
Autore: Andrea Morigi - Guido Olimpio - La redazione del Foglio
Titolo: «Arrestato il giornalista-007 che predicava la 'pace' - Sono italiani gli uomini che passano le armi all'Iran - La rete che passa da ambasciate e piccole imprese - La rotta su Teheran»

Riportiamo da LIBERO di ogi, 04/03/2010, a pag. 18, due articoli di Andrea Morigi titolati " Arrestato il giornalista-007 che predicava la 'pace' " e " Sono italiani gli uomini  che passano le armi all'Iran ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 16, l'articolo di Guido Olimpio dal titolo " La rete che passa da ambasciate e piccole imprese ". Dal FOGLIO, a pag. -3, l'articolo dal titolo " La rotta su Teheran ". Ecco i pezzi:

LIBERO - Andrea Morigi : "Arrestato il giornalista-007 che predicava la pace "


Irib - Islamic Republic Iran broadcasting

Nelle parole di Maarten van Aalderen, presidente dell’Associazione Stampa Estera, il corrispondente da Roma della radio-tv iraniana Hamid Masoumi Nejad è una «persona educata e corretta». Per la Procura di Milano, che ieri ha disposto il suo arresto, dietro quella maschera si nasconde invece un pericoloso agente dei servizi segreti del regime di Teheran. Anzi, dalle intercettazioni telefoniche il suo appare proprio un ruolo chiave nella spy story. Era lui a trattare direttamente con un gruppo di imprenditori italiani «l’acquisto e materiale di armamento “dual use”: equipaggiamento civile che viene trasformato da chi lo utilizza in materiale bellico». Se no, dal ministero della Difesa iraniano non gli sarebbero giunte quelle telefonate di fuoco, dicono gli inquirenti. Si lamentavano precisamente con lui, come se ne fosse il responsabile, del ritardo nelle spedizioni e gli sollecitavano l’invio del materiale, lo spingevano perfino ad attivarsi per sbloccare le procedure doganali. Tutte attività a cui la professione di giornalista, anche se impegnato nel sostegno del governo di Mahmoud Ahmadinejad, faceva in sostanza da paravento. È un’emittente del regime degli ayatollah, la Irib - Islamic Republic Iran broadcasting. Del resto l’informazione indipendente, da quelle parti, non esiste. Gli spazi di libertà concessi dall’Italia, Masoumi tentava di sfruttarli fino in fondo, comunque, anche a scopo propagandistico. Asservite alla causa della rivoluzione iraniana, le reti televisive della Repubblica sciita sono un mezzo privilegiato per la diffusione di documentari antisemiti e di esaltazioni della potenza militare in cui si celebra Giornata nazionale della Tecnologia nucleare. Gli spazi riservati all’opposizione si limitano alla trasmissione di processi pubblici e confessioni in diretta dei “nemici dell’islam”. 51enne, sposato con una connazionale che lavora presso l’ambasciata iraniana a Roma, il giornalista-007 era da diverso tempo sottoposto a una discreta sorveglianza del controspionaggio italiano. Forse nel tentativo di mostrare che non aveva nulla da nascondere, si faceva pure, imprudentemente, notare. Anche il 17 aprile scorso, a margine di una conferenza stampa alla Farnesina, aveva scatenato una gazzarra sostenendo di non aver potuto porre una domanda sulle armi nucleari in possesso di Israele. Un pacifista, all’ap - parenza, che per non doversi pronunciare sull’arsenale che andava smerciando, reagiva su Pandora TV ricordando i «bambini uccisi da Israele». Per loro, non per le bandiere bruciate, dovrebbe indignarsi l’Occiden - te, spiegava con voce sommessa e pacata in un’intervista ancora oggi rintracciabile su youtube. Mentre nel suo Paese i partecipanti ai cortei dipinti di verde, che esigevano democrazia, subivano la violenza dei bassiji, e i suoi colleghi che tentavano di narrare gli avvenimenti venivano arrestati, l’estate scorsa Masoumi andava in giro per Roma a documentare le proteste no global contro il G8. Soltanto l’altro ieri il regista suo connazionale Jafar Panahi è finito dietro le sbarre perché stava realizzando un film sulle proteste post- elettorali nel suo Paese senza essere «autorizzato » dal regime.

LIBERO - Andrea Morigi : " Sono italiani gli uomini  che passano le armi all'Iran"

Come al supermarket, in Italia si potevano acquistare elicotteri, esplosivo, mirini laser, paracadute, equipaggiamento subacqueo. Per combattere la guerra santa ad alta tecnologia militare, i corpi speciali dell’esercito iraniano avevano individuato fra Monza, Torino, la Svizzera e il RegnoUnito chi era in grado di rifornirli di tutto l’occorrente. Era dal 2007 che avevano congegnato un complicato sistema di triangolazioni fra la Germania, luogo di produzione di gran parte della merce, la Romania, Dubai e l’Iran, la destinazione finale, per aggirare l’embargo internazionale. Uno schema che sembrava funzionare, almeno fino a ieri, quando i principali protagonisti dell’import-export sono stati bloccati e portati in carcere. Era già andata in porto anche la consegna di 150 dispositivi di puntamento destinati alle forze armate di Teheran. E i fornitori si erano visti saldare regolarmente la fattura, estero su estero, per il costo di 2mila dollari al pezzo. L’ARSENALE DI GUERRA Vista la soddisfazione reciproca, progettavano di allargare il giro d’affari, con l’affitto di nove elicotteri, che attualmente risulterebbero essere in Africa, nel Mali, e l’invio di qualche tonnellata di miscela di materiale chimico, utilizzato per il confezionamento di ordigni esplosivi, oltre a proiettili traccianti di fabbricazione bulgara e sovietica. Tutto fila liscio, finché la polizia elvetica scopre le tracce del traffico, dopo che gli iraniani ne rimandano in Svizzera una parte del carico sostenendo che sono difettosi. Poi una cassa con altri 200 puntatori incappa nei controlli doganali di Bucarest e altri 100 sono sequestrati all’aeroporto londinese di Heathrow. Nei primi due casi, è coinvolta una ditta italiana, non registrata al ministero dellaDifesa fra quelle autorizzate a commerciare in armi. Scattano così, sei mesi fa, le verifiche incrociate, le indagini e le intercettazioni. Dall’intelligence britannica, in seguito, arriva all’Aise italiana la segnalazione che un’ex “testa di cuoio” inglese imputato a Londra per vari reati e coinvolto nel traffico, sta “cantando” anche sui legami con l’Italia. Prima che un altra partita di materiale bellico prenda la strada dell’Iran, i giudici decidono di intervenire. Cinque italiani e due iraniani, accusati di associazione a delinquere finalizzata al traffico d’armi, sono finiti in carcere ieri grazie al’operazione “Sniper” del - la Guardia di Finanza, per ordine del gip Chiara Valori e su richiesta del procuratore aggiunto di Milano Armando Spataro. A capo della banda, il 43enne monzese Alessandro Bon, già dipendente della Beretta, come anche Arnaldo La Scala, messinese di 44 anni residente in Svizzera. I due, esperti dell’industria militare e con contatti d’affari già stabiliti in Iran, fondano diverse società, fra le quali la Antares, nel Varesotto, che acquista e spedisce tutto quanto si può reperire sul mercato delle armi. Sul territorio italiano, non deve passare nemmeno uno spillo,per nonlasciare tracce. Così arruolano anche la compagnadi Bon, Danila Maffei,29enne bresciana titolare dellaStuccoVenice, e Guglielmo Savi, 56enne piacentino, esperto di telecomunicazioni e di trasmissione di dati in chiaro o criptati, che ha una società, la Sirio, considerata strategica dagli inquirenti al pari della consorella rumena, la Dinamics. I VIAGGI A TEHERAN Dell’organizzazione fa parte anche un misterioso legale d’affa - ri torinese, sconosciuto tuttavia all’Ordine degli Avvocati di Torino, il 45enne Raffaele Rossi Patriarca, che rivela, nel corso di alcune conversazioni intercettate, i suoi viaggi d’affari a Teheran e i suoi incontri con alti ufficiali dell’esercito iraniano. A tenere i contatti con loro in Italia era, sempre a Torino, lo 007 iraniano Ali Damirchiloo, di 55 anni, mentre a Roma,sotto la copertura giornalistica, operava Hamid Masoumi Nejad. A Dubai, tappa di transito, erano di stanza invece Bakhtiyari Homayoun, l’agente segreto iraniano che insieme al collega Hakimi Amir Reza, è sfuggito alla cattura tornando in patria.

CORRIERE della SERA - Guido Olimpio : " La rete che passa da ambasciate e piccole imprese "


Guido Olimpio

WASHINGTON — Una pattuglia di imprenditori, piccole società nel Nord, quattro agenti — alcuni sotto copertura —, contatti internazionali e l’eterna Dubai a fare da sponda finanziaria. La significativa inchiesta di Milano conferma, alla lettera, il modus operandi dei servizi segreti iraniani in Italia. Quello smantellato è solo uno dei molti nuclei creati da Teheran per acquisire armi e tecnologia proibita. Un «affare» che va avanti— quasi indisturbato — dagli anni ’80 e che ha nell’Italia del Nord il suo cuore.

I khomeinisti — secondo nostre informazioni— agiscono su tre livelli, che a volte collaborano, in altre si tengono a distanza. Il primo è quello che gravita attorno alle rappresentanze diplomatiche e alle istituzioni iraniane. È molto cauto perché sa di essere osservato, anche se gli 007 iraniani hanno goduto, in passato, di una certa impunità in nome degli interessi economici. Il secondo livello mette insieme iraniani residenti in Italia, piccole imprese gestite da italiani ed elementi vicini ai pasdaran o ai servizi khomeinisti. Per anni abbiamo raccontato le attività di un personaggio solo sfiorato dalle indagini: un iraniano, detto «Il Professore», coinvolto tra l’altro in un piano per acquisire pericolose tossine. Il terzo fronte è più «politico»: uomini di fiducia del regime — spesso dei commercianti —, e 007 tengono d’occhio gli esuli. È interessante rilevare come spesso i mullah abbiano costruito ottimi rapporti con estremisti di destra e di sinistra italiani in nome dell’ostilità agli Usa e a Israele. Vincoli legittimi che ne hanno celati altri meno chiari e funzionali a operazioni clandestine.

È evidente, alla luce di questa struttura, come il prezioso lavoro della Procura di Milano e della Finanza vada a incidere su una realtà ambigua quanto importante. E così l’Italia si ritrova in una condizione già vissuta da governi alleati. Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania hanno messo le manette a trafficanti e killer al servizio di Teheran. Tipi presi in flagrante. Ma agli ayatollah non importa. E si sono subito vendicati con il sistema degli ostaggi. Individuano degli occidentali, li accusano di spionaggio o di appoggiare il movimento riformista e li trasformano in pedine di una partita odiosa. Se li volete liberi — è il ricatto— rilasciate i nostri uomini.

A Teheran non badano troppo a codici e leggi. Tanto meno alle regole della diplomazia. Dopo le critiche di Berlusconi, il regime ha reagito mobilitando i suoi «squadristi», i basiji, mandati in piazza a protestare contro l’Italia. Vedremo se ci sarà una risposta all’arresto dei due 007 e dei loro complici. Ma potrebbero anche incassare il colpo, tanto il resto del network continua la sua missione.

Il FOGLIO - " La rotta su Teheran "


Michael Ledeen, Flynt Leverett

Washington. Capita ogni tanto che Marte e Venere discendano dall’Olimpo per sfidarsi in campo neutro, in una contesa diretta in cui l’eleganza nei modi è l’unico limite al corpo a corpo delle idee. Nella mattinata americana di ieri si sono fronteggiati due culturisti del dibattito geopolitico in materia di Iran, territorio da sempre ostico e in questo periodo arroventato dalle insofferenze del presidente Barack Obama, impegnato in queste ore nel gioco di pressioni con la Cina per sanzionare il regime degli ayatollah. All’undicesimo piano del palazzo dell’Atlantic Council, a tre isolati dalla Casa Bianca, il teorico del regime change, Michael Ledeen, e il gran visir del “grande accordo” con Teheran, Flynt Leverett, si sono ritrovati davanti a un pubblico tosto per porre la domanda delle domande, quella che più di tutte disturba i sogni del presidente: cosa dobbiamo fare dell’Iran? L’editorialista del Washington Post, David Ignatius, che ha moderato l’incontro, forse s’aspettava un redde rationem con abbondanti perdite di sangue, stile Colosseo; invece nulla, o quasi. “Io non ho cambiato idea, lui non ha cambiato idea. Insomma, non è cambiato nulla”, dice al Foglio Ledeen con la voce fresca di chi non ha avuto una mattinata difficile. I due contendenti sono impegnati in una decennale battaglia d’idee, riedizione iraniana dello scontro fra George Kennan e Paul Nitze nel cuore della Guerra fredda, esponenti delle due grandi scuole del “containment” e del “roll back” nei confronti del blocco sovietico. Il meeting di ieri all’Atlantic Council è il simbolo di un dibattito che fatica ad affrancarsi dalla semplice guerra di posizione: nessuna delle parti sembra disposta a retrocedere di un centimetro dalle proprie posizioni. Da una parte, c’è l’idea della grande riconciliazione come presupposto per il dialogo, quel pugno che potrebbe diventare una mano tesa ma che ultimamente è tornato pugno; dall’altra, il rovesciamento del regime sull’onda di una protesta carsica che non aspetta altro che una tanica di benzina occidentale per buttare giù i cattivi ragazzi di Teheran. In mezzo, la variegata palude delle sanzioni. Ledeen e Leverett rappresentano gli estremi dell’arco ideologico. Ledeen è il prodotto puro della stagione neocon, sul quale ha innestato prestazioni istrioniche dai vari think tank conservatori – American Enterprise Institute su tutti – e un deciso tocco di cultura italiana. Oggi non è soltanto l’esponente di una scuola politica, ma il vero tesoriere della dottrina scientifica del regime change. Nel 2002 Ledeen, rispondendo al consigliere per la Sicurezza nazionale, Brent Scowcroft, secondo cui l’invasione dell’Iraq avrebbe innescato il caos in medio oriente, ha detto: “C’è soltanto da sperare che il nostro sforzo renda la regione un calderone. E fatelo presto, per favore”. E’ il concetto che oggi condensa con quella che ormai è la sua massima di riferimento: “Spark the revolution”, “innesca la rivoluzione”. La stessa rivoluzione che secondo Flynt Leverett non esiste affatto. Sono anni che dalle democratiche scrivanie della New America Foundation riversa nel circuito politico le sue convinzioni: bisogna fare un grande accordo con l’Iran, un approccio comprensivo che non giudichi l’operato degli ayatollah “caso per caso” ma dal reciproco riconoscimento ricavi un terreno condiviso. Come Ledeen, anche Leverett ha una lunga carriera nella penombra della diplomazia. Le sue posizioni estreme, già esplose nel 2006 quando ha pubblicato il famoso scritto “Dealing with Teheran”, in cui criticava l’Amministrazione Bush per avere in pratica sbagliato tutto sull’Iran, sono diventate se possibile più oltranziste dopo le manifestazioni di piazza in seguito al voto. Quelle manifestazioni, dice Leverett, non sono praticamente esistite: i numeri sono gonfiati, il fenomeno è fasullo, non c’è nessuna vera spinta sotto, soltanto strumentalizzazioni occidentali. Il blog che gestisce assieme alla moglie Hillary Mann – altra diplomatica di carriera e presenzialista di think tank – recentemente ha fatto alzare qualche sopracciglio per via dei suoi tentativi di spiegare i meccanismi del potere dell’Iran agli iraniani. Come dire: per capire serve un osservatore esterno che però non sia logorato dal potere; uno che, insomma, non sia Michael Ledeen. Nonostante non sappia una parola di farsi (gli viene rinfacciato spesso), Leverett ha rapporti diretti con l’Iran. E’ da poco rientrato da Teheran, dove, come molte altre volte, è stato invitato ufficialmente dal direttore dell’Institute for North American Studies dell’Università di Teheran, Mohamed Marandi, a tenere conferenze. Incidentalmente Marandi è il figlio del medico personale della guida suprema Khamenei e dalle elezioni di giugno è diventato il portavoce ufficioso del regime nei rapporti con la stampa di lingua inglese, ruolo sotto la responsabilità del ministro dell’Intelligence. Un privilegio, quello di Leverett, che i simpatizzanti giudicano meritato; per tutti gli altri l’analista è a tanto così da essere una spia. Oltre alle guerre di posizione, e tutti i loro corollari fumogeni, quello che più importa del dibattito sull’Iran è quello che meno si capisce: cosa ne pensa Obama di tutta questa storia.

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