Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 03/03/2010, a pag. 15, l'articolo di Mimmo Candito dal titolo " La grande fuga dei cristiani dal Medio Oriente ", preceduto dal nostro commento. Dal CORRIERE della SERA, a pag. 1-17, l'articolo di Lorenzo Cremonesi dal titolo " I cristiani martiri di Mosul ". Ecco i due pezzi:
La STAMPA - Mimmo Candito : " La grande fuga dei cristiani dal Medio Oriente "

Mimmo Candito
Candito si rammarica che al convegno internazionale di Amman non abbiano partecipato gli ebrei. " Ma a quel tavolo si parlavano in tutte le lingue musulmani e cristiani e però di ebrei non s’è vista nemmeno l’ombra. ".
Evidentemente avranno scelto di non partecipare alla farsa ipocrita del dialogo interreligioso (tutti amici al tavolo, ma poi in Iraq e nei Paesi musulmani i cristiani vengono discriminati, perseguitati, arrestati, uccisi, quotidianamente. Per non scrivere degli ebrei, quasi tutti fuggiti dai Paesi arabi).
Candito conclude così il suo articolo : " (...) bloccare la diaspora che lancia verso l’Europa e l’America centinaia di migliaia di famiglie cristiane in fuga dall’Iraq, dal Libano, da Israele, dalla Siria, dalla Palestina (a Betlemme, per esempio, i cristiani erano la quasi totalità nel ‘46, e oggi sono soltanto un terzo della popolazione).". Non viene specificato chiaramente per quale motivo i cristiani stanno fuggendo dal Medio Oriente. Nessun accenno al massacri che stanno subendo in Iraq.
Per quanto riguarda la loro fuga da Israele, semplicemente è falso. Israele è una democrazia, i cristiani residenti in Israele vivono godendo dei diritti di tutti, per questo non esiste nessun esodo. Ci piacerebbe sapere perchè Candito ha inserito Israele in una storia che non lo riguarda.
Rispondiamo all'articolo di Mimmo Candito pubblicando l'articolo di Lorenzo Cremonesi sulle persecuzioni dei cristiani in Iraq. Cremonesi è stato per anni il corrispondente da Israele per il Corriere della Sera, ma non ha mai scritto articoli su quest'argomento riferiti allo Stato ebraico. Questo dimostra l'ignoranza (se non qualcos'altro) di Mimmo Candito. Ecco il suo articolo, seguito dal pezzo di Lorenzo Cremonesi:
Che la pace in Medio Oriente vaghi oggi smarrita in qualche remoto corridoio delle cancellerie lo ha dimostrato perfino un convegno internazionale che in questi giorni si è tenuto ad Amman sotto il titolo «Un futuro comune». Mettendo allo stesso tavolo studiosi e politici del mondo arabo (giordani e palestinesi), dell’Italia e degli Usa, il convegno tentava di organizzare le speranze di pace all’interno della offerta del «dialogo interreligioso», con il proposito di aprire un terreno di discussione in un ambito - quello delle tre fedi di Abramo - che, magari, poteva consentire una più fluida libertà di confronto rispetto alle rigidità della politica. Ma a quel tavolo si parlavano in tutte le lingue musulmani e cristiani e però di ebrei non s’è vista nemmeno l’ombra. «È dura, molto dura - diceva Carlo Costalli, energico presidente del Movimento Cristiano dei Lavoratori - in questa fase Israele sembra chiusa dentro un grumo di resistenze e di diffidenze che rendono difficile qualsiasi coinvolgimento in un progetto di dialogo».
In realtà, l’impressione che si aveva al margine dei lavori era che nelle pieghe dell’incontro ci fosse anche un altro interrogativo, drammaticamente rilevante: come contribuire a fermare l'esodo dei cristiani che stanno scappando in massa dai vari confini del Medio Oriente? L’Mcl è impegnato nel confrontarsi con questo problema, creando nel Levante e nei Balcani scuole e strutture sociali («Utilizziamo le risorse del 5 per mille donato dai contribuenti italiani») che hanno come programma l’integrazione della presenza cristiana in un orizzonte dominato da altre fedi. Ad Amman, per esempio, è in rapidissima ultimazione una università ultramoderna, che si chiamerà «cattolica» per il gemellaggio con la Cattolica di Milano ma che conta di raccogliere, tra i suoi 8.000 studenti, una stragrande maggioranza di giovani di nazionalità araba e di religione musulmana, con docenti europei ed americani, non solo arabi.
Il Vaticano contribuisce con un fortissimo investimento in questo progetto di 100 milioni di dollari, sperando di bloccare la diaspora che lancia verso l’Europa e l’America centinaia di migliaia di famiglie cristiane in fuga dall’Iraq, dal Libano, da Israele, dalla Siria, dalla Palestina (a Betlemme, per esempio, i cristiani erano la quasi totalità nel ‘46, e oggi sono soltanto un terzo della popolazione).
CORRIERE della SERA - Lorenzo Cremonesi : " I cristiani martiri di Mosul "

Lorenzo Cremonesi
Arrivano a volto scoperto, sicuri che nessuno li fermerà. Entrano nelle case dei cristiani: violentano, rapinano, uccidono. Dall’inizio dell’anno nella regione di Mosul, in Iraq, almeno 15 cristiani sono stati uccisi così.
Assassini a sangue freddo, tanto sicuri di se stessi da raggiungere in motocicletta a volto scoperto l’abitazione delle loro vittime. E uccidere, violentare, terrorizzare, rubare con la freddezza di chi sa che comunque resterà impunito.
Così padre Mazen Matoka (36 anni) descrive, attraverso i racconti dei superstiti della sua famiglia, i tre sicari che alle sei del pomeriggio di martedì 23 febbraio hanno fatto irruzione nella sua villetta nel quartiere di Haissah, nel cuore di Mosul, capitale petrolifera dell’Iraq settentrionale. «Io in quel momento ero in chiesa. Mia mamma sostiene che non potevano avere più di 23 anni. Uno tremava quando ha sparato a mio padre Jeshu (69 anni) e i miei due fratelli, Mukhlas di 34 anni e Bassem di 43: ha sbagliato quasi tutti i colpi. Ma gli altri due sono stati precisi. Hanno mirato con le pistole da pochi centimetri alla bocca, poi alla testa e quando i miei cari sono caduti a terra hanno tirato ai polmoni. Sono morti subito». Si ferma qui padre Mazen, diventato in questi giorni il simbolo della persecuzione anti-cristiana nell’Iraq ancora sconvolto dalle violenze interconfessionali.
Fonti molto vicine alla polizia di Erbil, la città curda non poco distante dal villaggio di Karakosh dove hanno trovato rifugio molti dei profughi cristiani di Mosul, parlano di violenza carnale alle donne, forse le due sorelle del parroco Mazen, Ikhlas di 39 anni, e Linda di 20. Lo ripetono anche Yonadam Kanna e Ablahad Sawa, gli unici due deputati cristiani al parlamento di Bagdad. E lo dicono spaventati i profughi in fuga. «I terroristi islamici violentano le donne. A Mosul non si può restare. Stanno annichilendo 2.000 anni di storia dell’Iraq cristiano», dicono Miriam e Yussuf, fratello e sorella meno che ventenni di una famiglia carica di valigie incontrata sulla provinciale a nord di Mosul e diretta verso Istanbul.
Padre Mazen nega la violenza carnale: «È una voce diffusa dagli estremisti islamici e da chi vuole scacciare i cristiani. Sanno bene che spinge la gente ad abbandonare le case e incrementa le richieste di visto per l’Europa o gli Usa». Tra i suoi confratelli nella Chiesa siro-cattolica e caldea cresce comunque l’inquietudine. «Sappiamo che tra i fondamentalisti islamici si glorifica l’usurpazione delle donne cristiane. È un titolo di merito per loro», accusa tra i tanti padre Behnam Soni, che non nasconde la nostalgia per «la sicurezza per i cristiani durante il regime di Saddam Hussein» e imputa apertamente all’Iran di «aizzare le violenze dell’odio religioso in Iraq per boicottare gli americani e i loro tentativi di normalizzazione».
Padre Mazen si sofferma invece sul massacro dei famigliari. «Quando i criminali sono entrati in casa hanno chiesto le carte d’identità. Forse cercavano me, oppure volevano essere certi che fosse una famiglia cristiana. Mia mamma ha offerto loro denaro, lo hanno rifiutato, quindi è fuggita sul balcone per gridare aiuto. Ma nessuno si è mosso. È stato allora che hanno separato le donne dagli uomini. Poi hanno sparato». Ne parla calmo. Ieri pomeriggio ha celebrato messa nella basilica della cittadina. Molti giovani, una comunità vibrante, come se ne trovano tante in Medio Oriente. E lui non ha fatto altro che rassicurare. Un appello alla calma in più, che si armonizza con l’atmosfera festosa che sta preparando le elezioni parlamentari del 7 marzo. Qui nel nord appare come la celebrazione della democrazia. I curdi hanno presentato addirittura 4 partiti separati. Emolti cristiani vorrebbero restare nella loro regione autonoma, piuttosto che essere stritolati nel confronto tra sciiti e sunniti del resto del Paese.
Eppure Mosul è città di frontiera, come Kirkuk, al centro del braccio di ferro per i giacimenti petroliferi. «Da noi la situazione è nettamente peggiorata nel 2006-7, quando gli americani si sono allineati con le tribù sunnite Diala e Ramadi nella lotta contro Al Qaeda e gli ex baathisti violenti. È stato allora che il terrorismo si è spinto verso Mosul», spiega ancora Yonadam Kanna.
La biografia di padre Mazen incarna le sofferenze della sua comunità. Studia all’università, si laurea in ingegneria. La vocazione arriva a 26 anni. Aiuta gli handicappati nell’organizzazione di Faraj Racho, l’arcivescovo caldeo «martirizzato» (come dicono qui per indicare le vittime del terrorismo) nel 2008. È ordinato sacerdote nel 2007, ma appena dopo 43 giorni viene sequestrato. «Era il 13 ottobre. Fui preso con un altro sacerdote di Mosul mentre ci recavamo a celebrare un funerale. Fummo nelle mani dei rapitori per 9 giorni. La nostra liberazione costò 200.000 dollari». È riluttante a parlare di riscatti. «Poi terroristi e banditi pensano che la Chiesa è ricca e rapiscono altri preti», spiega.
Vive la sua storia come lo specchio delle persecuzioni collettive. Ricorda le bombe contro le Chiese di Bagdad nel 2005-6. La fuga dei cristiani verso nord. All’estero ne vanno oltre 500.000, ne restano circa 750.000. Nel 2008 il terrore arriva a Mosul a suon di attentati contro case private, scuole, chiese. Poi si calma. Ma riprende dopo l’estate 2009. Snocciola come il rosario che tiene in mano i nomi delle basiliche attaccate: San Efrem, il monastero delle suore domenicane, la chiesa dell’Annunciazione, quella dell’Immacolata, poi San Tommaso, e ancora, ancora. A suo dire i cristiani uccisi dall’inizio dell’anno nella sola regione di Mosul sono ormai una quindicina. Le famiglie fuggite nell’ultima settimana circa 700. «Me ne restano oltre 1.000 nelle loro case. Per questo anch’io sono pronto a lasciare la zona protetta di Karakosh per tornare a Mosul», sfida quasi spavaldo. I più anziani lo calmano. «Non è il momento di altri martiri — dicono —. Occorre vivere per testimoniare. E speriamo che anche l’Europa ci ascolti».
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