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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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L'Opinione - L'Unità Rassegna Stampa
02.03.2010 Israele restaura monumenti
Per i palestinesi è solo un progetto di espansione. Cronaca di Michael Sfaradi, intervista al rettore di al Quds di Umberto De Giovannangeli

Testata:L'Opinione - L'Unità
Autore: Michael Sfaradi - Umberto De Giovannangeli
Titolo: «Israele difende i luoghi sacri ebraici - L’Intifada dei luoghi sacri è battaglia per il futuro»

Riportiamo dall'OPINIONE di oggi, 02/03/2010, l'articolo di Michael Sfaradi dal titolo "Israele difende i luoghi sacri ebraici " . Dall'UNITA', a pag. 30, l'intervista di Umberto De Giovannangeli a Sari Nusseibeh, rettore di al Quds dal titolo " L’Intifada dei luoghi sacri è battaglia per il futuro ", preceduta dal nostro commento. Ecco i pezzi:

L'OPINIONE - Michael Sfaradi : " Israele difende i luoghi sacri ebraici "


Michael Sfaradi

Da qualche giorno si registrano a Gerusalemme e a Hebron, scontri fra la polizia israeliana e giovani palestinesi e, come al solito, ci sono lanci di pietre da una parte e lacrimogeni dall’altra.
Questi scontri sono partiti in sordina, non è la prima volta che succede, e stanno seguendo lo stesso copione che caratterizzò i primi giorni delle due sanguinose intifade, forse i dirigenti palestinesi pensano che questo sia il momento adatto per farne scoppiare una terza.
La “scusa” di queste contestazioni è la decisione da parte del governo israeliano di dichiarare i luoghi santi della religione ebraica, anche
fuori dai confini dello Stato di Israele, di interesse nazionale e che dovranno essere protetti al fine di evitare qualsiasi cambiamento
dello “status quo”.
In particolare i siti “sensibili” sono le tombe dei patriarchi di Hebron, la tomba di Rachele a Betlemme e quella di Giuseppe a Nablus; e non
è detto che in futuro ne possano essere aggiunti degli altri.
Si tratta di luoghi da sempre sacri per l’Ebraismo e lo divennero, in un secondo momento, anche per il Cristianesimo e l’Islam.
La decisione, fortemente caldeggiata dalla parte religiosa dell’elettorato israeliano, è dovuta, al timore che quei siti possano subire,
come è già accaduto in passato (ricordiamo lo scempio che fu fatto della tomba di Giuseppe all’indomani della firma dei trattati di Oslo)
nuovi e più cruenti attacchi.
Con questa legge il governo israeliano vuole mandare un messaggio chiaro: non saranno tollerati danneggiamenti, distruzioni o, nel
peggiore dei casi, un cambiamento della sacralità del sito a favore della sola fede islamica.
Il punto è proprio questo: ci duole dirlo, ma troppe volte nel corso dei secoli, siamo stati testimoni di atteggiamenti violenti e irrispettosi
da parte di larghi strati della popolazione islamica mondiale nei confronti delle altre due religioni monoteistiche e troppe volte luoghi
sacri per tutti sono stati totalmente islamizzati.
Un esempio per tutti, che può dare il senso dello sfregio, fu il ritrovamento, all’indomani della riunificazione di Gerusalemme, delle
pietre tombali trafugate dal cimitero ebraico ed usate per lastricare le latrine pubbliche della città vecchia.
La libertà di culto e l’ordinata divisione dei luoghi sacri in maniera da permettere a tutti il corretto svolgimento delle preghiere, secondo
i riti dettati dalle varie tradizioni, si ha solo dal 1967 sotto la responsabilità delle autorità israeliane.
Prima della guerra dei sei giorni, infatti, agli ebrei era vietato dalle autorità giordane l’ingresso all’interno della città vecchia di Gerusalemme
dove si trova il luogo più importante della tradizione religiosa ebraica, cioè Il Muro Occidentale (muro del pianto), ad Hebron, e a tutti gli altri siti di importanza religiosa che solo ora, decisamente in ritardo, vengono presi sotto custodia dalle autorità dello Stato ebraico.
Siamo abituati alle voci di protesta che si levano dal mondo occidentale ogni volta che il governo israeliano prende delle decisioni che possono toccare quella fragile equilibrio sul quale si regge la calma armata che caratterizza i rapporti fra l’Occidente e il mondo islamico, ma questa volta il messaggio indirizzato verso chi giorno dopo giorno cerca, con ogni mezzo, di islamizzare il bacino del Mediterraneo, è molto chiaro, e le proteste che ne sono scaturite sono il segno che chi doveva capire ha capito.
Lo Stato di Israele, laico e democratico, ha dei doveri anche nei confronti di quella parte religiosa che ne fa parte, che non ha problemi
a condividere i siti con le altre religioni, ma che non vuole più vedersi tagliato fuori da essi.
Opinione diffusa, e non solo in Israele, è che la convivenza pacifica è nel rispetto reciproco e che non è una strada a senso unico.
Bisogna mettere un freno alla cancellazione della cultura occidentale, dei suoi luoghi e dei suoi simboli e che i governi europei anziché criticare dovrebbero far propria la linea israeliana sull’argomento prima che sia troppo tardi.

L'UNITA' - Umberto De Giovannangeli : "  L’Intifada dei luoghi sacri è battaglia per il futuro"


Sari Nusseibeh

Questi sarebbero i palestinesi che desiderano la pace...il rettore dell'università al Quds, che viene sempre presentato come un moderato, si ostina a sostenere che il progetto di restauro sia una scusa di Israele per annettersi territori e continua a descrivere la nascita dello Stato ebraico come "Catastrofe", si rammarica pure che il termine sia stato depennato dai libri di testo israeliani...
Ecco l'intervista:

Per una nazione senza Stato, la difesa della propria identità e dei luoghi che l’incarnano acquista unaduplice valenza: politica e simbolica. Non si tiri in ballo il fondamentalismo islamico per spiegare le proteste che si stanno propagando da Hebron a Gerusalemme. Alla base vi è un misto di rabbia e dignità di coloro che si aggrappano al passato per difendere il loro futuro». Ad affermarlo è una colomba palestinese: Sari Nusseibeh, rettore dell’Università Al Quds di Gerusalemme Est, considerato, a ragione, il più autorevole intellettuale palestinese. Professor Nusseibeh, nel suo libro “C’era una volta un Paese. Una vita in Palestina” (Il Saggiatore, 2009), lei chiede: «Al cuore del conflitto israelo-palestinesenonc’è forseproprio l’incapacità diimmaginarela vita dell’”altro”»? «Credo fortemente in questo assunto. E mi ritrovo molto in una riflessione che i più grandi scrittori israeliani consegnarono ad unappello all’opinione pubblica e ai governanti d’Israele: c’era scritto che per Israele sarebbe stato meno doloroso cedere delle terre che riconoscere che la creazione del loro Stato nasceva da una ferita inferta al popolo palestinese. È profondamente vero. Per questo considero la colonizzazione culturale non meno grave dell’espropriazione di terre. La pace è innanzitutto riconoscere l’esistenza dell’altro, della sua storia, della sua identità. Riconoscere quanto fosse sbagliata l’affermazione che la «Palestina è una terra senza popolo per un popolo senza terra». Questo, naturalmente, vale anche per noi palestinesi verso Israele. Nel libro riflettevo sul fatto che io ero cresciuto a non più di 30 metri dal luogo in cui Amos Oz aveva trascorso l’infanzia. Quando pensavo all’assenza di arabi nelle esperienze giovanili di Oz, ero costretto a riflettere anche sul modo in cui ero stato cresciuto. Cosa sapevano i miei genitori del suo mondo?Sapevano dei campi di sterminio? Le due parti, ciascuna immersa nella propria tragedia, non erano indifferenti, se non addirittura ostili, alle esperienze dell’altro»? Queste domande a quali conclusioni l’hanno portato? «A insistere sull’importanza del dialogo dal basso, capace di coinvolgere le università, le scuole, insegnanti e studenti palestinesi e israeliani. La conoscenza dell’”altro” è il miglior antidoto contro il “virus” della demonizzazione». Questo virus è rintracciabile nella decisione del governo di Benyamin Netanyahu di includere fra i luoghi delpatrimoniostoricoebraicodatutelare anche due santuari che si trovanoinCisgiordania (laTombadiRachele diBetlemmeelaTombadei PatriarchidiHebron) consideratiLuoghisanti anche per l’Islam? «Direi proprio di sì. Ed è un virus che nulla ha a che vedere con ragioni di sicurezza, e molto, invece, con una visione messianica che la destra nazionalista israeliana ha d’Israele. Una visione totalizzante che non ammette cheunaltro popolo rivendichi in Palestina diritti inalienabili, che sono propri di una nazione in cerca di Stato. Una nazione che non rinuncia alla sua storia». La Tomba dei Patriarchi; la Tomba di Rachele; il Muro del pianto; la Spianata delle Moschee... Cos’è la religione nella tormentata Terrasanta? «Da entrambi i lati del Muro, la religione è strumento di politica: mache sia l’Isacco della Torah o l’Ismaele del Corano, Dio impedisce a Abramo di sacrificare suo figlio. È questo il comandamento più vero, quello più disatteso... ». Cosalaspaventadipiùdeifondamentalismi che scuotano la sua terra? «È l’assolutizzazione del loro pensiero; l’assenza nel loro vocabolario, etico e politico, di parole come dialogo, compromesso, rispetto. È la bramosia di possesso assoluto. È concepire chi dissente come un traditore». Nel suo libro “Contro il fanatismo”, Amos Oz fa l’elogio della parola compromesso come “sinonimo di vita”. E afferma che il contrario di compromesso “è fanatismo, morte”. «Condivido, con un’aggiunta:se la pace è un incontro a metà strada, oggi è Israele a dover compiere il tratto maggiore. Perché è il più forte a doversi liberare di un’illusione». Quale, professor Nusseibeh? «Quella di poter imboccare una scorciatoia militare – intesa non solo come pratica ma anche come cultura militarista – per risolvere d’imperio la questione palestinese. E lo dice unoche si è battuto a viso aperto contro la deriva armata della seconda Intifada. Fare i conti con la storia significa anche riconoscere da parte israeliana che la ragione principale del sangue versato in questi anni è nell’occupazione dei Territori. Perciò ai miei amici israeliani ripeto sempre che una pace giusta con noi palestinesi non è una gentile concessione che ci fanno ma il più serio investimentoche possano fare sul loro futuro ». C’èancoraspazioperunapacefondata su due Stati? «Questo spazio si riduce man mano che si riduce lo spazio territoriale su cui l’ipotetico Stato di Palestina dovrebbe sorgere. In fondo, il disegno perseguito da Netanyahu è lo stesso di molti suoi predecessori: trascinare il negoziato alle calende greche e nel frattempo svuotarlo di ogni significato concreto. Come? Trasformando gli insediamenti in vere e proprie città. E poi dire: come posso cancellarle? Alla fine vorrebbero che i palestinesi si accontentassero di uno Stato- francobollo. E se dovessimo rifiutare, ecco pronta l’accusa: vedete, sono incontentabili». A proposito di compromessi: tra i nodi da sciogliere c’è quello del diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi... «Israele riconosca che questo è un problema politico e non “umanitario”. Risarcisca innanzitutto la loro storia, ammetta che c’è un fondamento alla Nakba (Catastrofe, così i palestinesi ricordano l’inizio della cacciata dai loro villaggi il 15 maggio 1948, ndr) invece di cancellarla dai libri di scuola degli studenti arabi israeliani. È questa la premessa per trovare un compromesso».

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