martedi` 13 maggio 2025
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



Clicca qui






Il Foglio - La Repubblica - La Stampa Rassegna Stampa
02.03.2010 Basta giochi politici, bisogna fermare il programma nucleare iraniano
Commenti di Joaquin Navarro-Valls, redazione del Foglio, Maurizio Molinari. Intervista a Joe Cirincione di Claudio Gallo

Testata:Il Foglio - La Repubblica - La Stampa
Autore: La redazione del Foglio - Joaquin Navarro-Valls - Maurizio Molinari - Claudio Gallo
Titolo: «C’è una domanda sull’America alla quale Israele non risponde - Fermare l'Iran senza timori - Tagli al nucleare. Gli Usa lanciano nuove strategie - L'Iran a un passo dall'atomica»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 02/03/2010, a pag. 3, l'articolo dal titolo " C’è una domanda sull’America alla quale Israele non risponde ". Da REPUBBLICA, a pag. 28, l'articolo di Joaquin Navarro-Valls dal titolo "Fermare l'Iran senza timori   ". Dalla STAMPA, a pag. 14, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo "  Tagli al nucleare. Gli Usa lanciano nuove strategie ", a pag. 16, l'intervista di Claudio Gallo a Joe Cirincione dal titolo " L'Iran a un passo dall'atomica  ", preceduta dal nostro commento. Ecco i pezzi:

FOGLIO - " C’è una domanda sull’America alla quale Israele non risponde "


Ehud Barak, ministro della difesa israeliano

Gerusalemme. C’è una domanda alla quale Israele non vuole rispondere. Prende tempo, cerca vie eleganti per non trovarsi ad affrontare la questione in modo diretto, usa tutta la diplomazia di cui è capace. E la domanda è: come sono le relazioni tra Israele e Stati Uniti per quanto riguarda l’Iran e il suo programma nucleare? Da Mosca, dove è appena stato, il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha chiesto nuove “paralizzanti” sanzioni all’Iran, per bloccare il suo programma nucleare. Pochi giorni dopo, gli Stati Uniti hanno fatto sapere di non avere come obiettivo “sanzioni paralizzanti” per Teheran. “Non è nostra intenzione – ha detto il portavoce del dipartimento di stato P. J. Crowley – imporre dure misure economiche che abbiano un impatto significativo sulla popolazione iraniana. Vogliamo trovare modi di fare pressioni sul governo”. Non si tratta soltanto di leggere variazioni sulla scelta dei termini. Laura Rozen, su The Politico, racconta l’intervento di Ehud Barak al Washington Institute for Near East Policy. Il ministro della Difesa israeliano era in America lo scorso fine settimana per una serie di incontri di alto livello (ha visto il segretario di stato, Hillary Clinton, il responsabile della Difesa, Robert Gates, e il vicepresidente Joe Biden) per fare pressioni su un nuovo round di sanzioni. Quando gli è stato chiesto se Israele e Stati Uniti agissero in maniera coordinata sulla questione iraniana, il ministro ha preferito non rispondere. Poiché la questione è stata aperta dal direttore esecutivo del Washington Institute, Rob Satloff, Barak non l’ha passata del tutto liscia. Satloff ha insistito, il ministro israeliano ha sorriso cercando di sviare la domanda, ma l’altro insisteva, allora ha risposto ad altri interlocutori e alla fine è tornato sull’argomento. L’alleanza tra Israele e Washington non è in discussione non lo è mai stata: entrambi sanno di poter contare uno sull’altro. Ma la percezione della minaccia iraniana è molto diversa. Da Washington – spiega Barak – la bomba della Repubblica islamica può essere assimilata a quella della Corea del nord, del Pakistan o di altri paesi. Da Gerusalemme la prospettiva è diversa: se per l’America un Iran atomico è poco desiderabile, per Israele è assolutamente impensabile. “C’è una differenza di prospettiva e di giudizio nei nostri orologi interni”. Ai microfoni della Cnn, Barak ha spiegato che un Iran nucleare rischia di destabilizzare la regione, innescando una corsa atomica in medio oriente e spingendo paesi come l’Arabia Saudita e l’Egitto a lavorare a propri programmi. Un motivo in più per Israele di muoversi indipendentemente. La settimana scorsa, una delegazione di alto livello è stata spedita a Pechino: il ministro per gli Affari strategici Moshe Yaalon e il capo della Banca centrale Stanley Fischer sono stati due giorni in Cina per ottenere l’appoggio del paese sulle sanzioni. Ora che la Russia sembra aver abbandonato il suo tradizionale scetticismo sulle misure economiche al partner iraniano, in Consiglio di sicurezza resta lo scoglio della Cina, che ha il potere di veto e da sempre si oppone alle sanzioni. Ma alti funzionari israeliani, nei mesi passati, non hanno nascosto le loro preoccupazioni sulle lentezze dei processi alle Nazioni Unite: ci potrebbero volere mesi per ottenere un nuovo pacchetto di restrizioni. Nel frattempo il programma nucleare degli ayatollah rischia di ottenere pericolosi successi. E Israele sente di essere minacciato più di ogni altro. “Tra Israele e Stati Uniti oggi c’è un crescente coordinamento sulle sanzioni – spiega al Foglio Ephraim Inbar, direttore del Begin-Sadat Center for Strategic Studies di Tel Aviv – ma c’è disaccordo sul tipo di misure. Israele parla di sanzioni dure; Washington è pronto a prendere una posizione più moderata. Il disaccordo è strategico: Israele non accetta un Iran nucleare, l’America pensa di poterlo contenere”. C’è un’altra questione centrale, spiega Inbar: “L’America sarebbe pronta ad accettare una mossa unilaterale d’Israele?”. Il governo di Netanyahu non ha mai dimostrato scetticismo nei confronti dell’approccio di Washington al dossier iraniano, ma non ha mai accantonato l’ipotesi di un attacco militare israeliano alle installazioni nucleari di Teheran. Su questo dipartimento di stato e Casa Bianca hanno mostrato il proprio disaccordo. Il capo di stato maggiore americano Mike Mullen è appena tornato da Israele: “Sarebbe un grande, grande, grande problema per tutti noi”, ha detto a proposito di un ipotetico attacco. L’obiettivo della sua missione era scoraggiare Israele da azioni unilaterali. Ma l’opzione, nonostante le divergenze americane, resta sul tavolo, ha ammesso l’ambasciatore israeliano all’Onu, Gabriela Shalev, davanti ai giornalisti: “E’ una della opzioni negative anche se non pensiamo sia così negativa come avere un Iran nucleare”. Incontro a Mosca “Su Teheran ci sono differenze tra Israele e Stati Uniti, ma i rapporti non sono incrinati su altri dossier”, dice Inbar. E’ vero, non sarà Obama a visitare Israele tra pochi giorni, ma il suo vice Biden; Netanyahu non incontrerà il presidente nella sua prossima visita a Washington in occasione della conferenza dell’Aipac, lobby pro israeliana; Hillary Clinton ha criticato la decisione di Israele d’inserire in un programma di restauro gestito dal governo due siti sacri all’ebraismo nella città di Hebron, nei Territori palestinesi. Ma Washington è ottimista sulla ripresa dei negoziati: James Steinberg, Jacob Lew e William Burns, alti funzionari del dipartimento di stato, sono appena tornati da Israele e il 19 marzo c’è un incontro a Mosca, alla presenza di responsabili americani, europei e dell’Onu, sulla ripresa di negoziati tra israeliani e palestinesi.

La REPUBBLICA - Joaquin Navarro-Valls : " Fermare l'Iran senza timori "


Joaquin Navarro-Valls

Tutti gli interessanti sviluppi della politica mondiale finiscono oggi inevitabilmente per soffermarsi sull´Iran. Le ragioni sono geografiche, prima ancora che politiche. La grande Repubblica Islamica si estende, infatti, territorialmente per 1.600 km² al confine tra l´area asiatica e quella araba, in un luogo strategico sia per il commercio e sia per gli spostamenti. Si tratta non solo di diritto, ma anche di fatto dell´antica Persia, ribattezzata nel 1935 da Reza Pahlavi come "terra degli Ariani".
Un Paese, dunque, di grande tradizione culturale e di prestigiosa influenza nel mondo mediorientale. Oggi l´Iran è divenuto lo Stato canaglia più temuto, a seguito della Rivoluzione islamica del 1979 che ha portato al vertice del potere la figura del Rahbar, ossia della Guida suprema. Dal 1989 è l´Ayatollah Khamenei che, secondo la Costituzione iraniana, ha il compito di approvare il candidato presidenziale eletto a suffragio universale. L´attuale capo dello Stato, Mahmud Ahmadinejad, dal momento della sua elezione nel 2005 ha interpretato a pieno una politica d´integrale fedeltà alle finalità ultime della rivoluzione Komeinista, in chiave estremamente aggressiva sia verso gli Stati Uniti sia verso il vicino Stato d´Israele.
Com´è noto le recenti preoccupazioni della comunità internazionale sono relative alle ricerche in ambito nucleare. Soltanto pochi giorni fa il capo dell´Organizzazione iraniana per l´energia atomica, Ali Akbar Salechi, ha dichiarato la costruzione nei prossimi mesi di nuovi siti per l´arricchimento dell´uranio. Questi si aggiungeranno a quello di Natanz già a disposizione del Paese. L´obiettivo dichiarato è di ottenere dei risultati importanti per la medicina. Per gli esperti appare fortunatamente difficile la realizzazione di questo programma. I rischi che queste ricerche applicate sul nucleare siano fatte per scopi militari non sono soltanto una certezza maturata in seno all´Agenzia internazionale per l´energia atomica, ma dei sospetti concreti che derivano direttamente dalla politica di Ahmadinejad. Il leader iraniano già in campagna elettorale, e poi con ricorrenza pressoché costante in seguito, non soltanto ha ribadito la sua totale ostilità verso Stati Uniti e Israele, ma anche la sua opposizione alle politiche moderate dei Paesi islamici confinanti. È solo di qualche giorno fa la dichiarazione governativa che l´Arabia Saudita "sacrifica la cooperazione islamica in favore dell´avventurismo". D´altronde, i due grandi Paesi musulmani hanno da sempre avuto una divergenza politica proprio in relazione all´Occidente e alla presenza degli americani in Medioriente.
Il fatto più grave, tuttavia, non è tanto la linea politica antiamericana dell´Iran, quanto piuttosto l´esplicito intento di utilizzare il nucleare bellico come mezzo militare, un ricorso estremo da sempre paventato da Ahmadinejad con l´aggressività verbale da tutti conosciuta. Da quanto emerge dopo l´ultimo viaggio di Hillary Clinton nel regno saudita, sembra che per ora gli Stati Uniti non sarebbero assolutamente propensi ad un intervento militare di liberazione del Paese, come avvenuto in Irak, nonostante le durissime e disumane rappresaglie del Governo iraniano verso le opposizioni, accompagnate a continue violazioni dei diritti umani più elementari. Resta aperta, ciò nonostante, l´ipotesi di interventi mirati a distruggere i possibili laboratori dove avvengono gli arricchimenti dell´uranio. La situazione, dunque, è instabile anche se in una condizione di stallo, almeno per adesso.
Una seria valutazione del caso Iran richiede un discorso generale sulle cosiddette armi di distruzione di massa, vincolate dal protocollo internazionale per la non proliferazione. Molti sono, in realtà, i Paesi che non vi aderiscono, tra cui anche il Pakistan e Israele. E non per questo si nutrono le medesime valide preoccupazioni che si hanno per l´Iran. Come ben sappiamo, dopo tanti decenni dominati durante la Guerra Fredda dalla produzione di armamenti nucleari, non sempre il possesso di armi così micidiali si accompagna direttamente al pericolo immediato per la sicurezza. Quasi mai queste bombe sono costruite per usarle. Anzi, la strategia degli Stati Uniti e dell´Unione Sovietica è stata alla fine sempre quella di impiegare il nucleare solo come deterrente, rendendo il mondo sicuro sulla base di un tacito accordo tra i due blocchi. La strategia del Pentagono era paradossalmente quella di impiegare il nucleare bellico unicamente per mantenere la pace, una linea politica condivisa da uomini di orientamento culturale così diverso come Robert McNamara e Henry Kissinger. I rischi sono divenuti effettivi, in taluni casi, quando le finalità non sono state più la difesa e l´equilibrio di forza stabilito con la controparte, ma la sconfitta e la distruzione definitiva del nemico. Per fortuna non si è mai arrivati ad un esito tanto estremo e catastrofico.
Il problema si ripropone in molti modi pure nell´era post-atomica. Ancora una volta, il problema non sono le armi nucleari come tali. A Sarajevo tra il ´93 e il ´95 si è consumato un eccidio di massa fatto con armi addirittura primitive, come gli stupri etnici e le fosse comuni. E in Irak la guerra è stata condotta dagli eserciti angloamericani, sebbene Saddam Hussein non fosse realmente una minaccia nucleare per nessuno. Non c´è stato bisogno in quel caso del nucleare per uccidere sistematicamente altre persone, come non c´era bisogno neanche in passato.
È logico, invece, che laddove esista una finalità politica di eliminare materialmente qualcun altro, ogni strumento, anche il più convenzionale, diviene mezzo di morte. Come farlo è veramente secondario. Un uomo può uccidere anche solo con le proprie mani nude.
L´esplicito intento violento e minatorio di Ahmadinejad non lascia margini in questo momento sulle finalità repressive ed aggressive dell´Iran. E, in tal senso, forse converrebbe mettere da parte un po´ la tattica e l´ipocrisia. Se il regime iraniano è pericoloso, perché esplicitamente prospetta una politica priva di qualsiasi rispetto della dignità altrui, allora non c´è bisogno di attendere il possesso di uno specifico arsenale militare per bandirlo. E neanche prepararsi ad una guerra che risponda ad altre motivazioni interne. La giustificazione nucleare è in sé una linea sbagliata, perché gli approvvigionamenti non convenzionali li hanno già molti altri Paesi civili che ne legittimano il possesso per tutti. E quando l´Iran disporrà della tecnologia necessaria, allora sarà troppo tardi per impedirgli di usarla. La Comunità internazionale dovrebbe, per contro, attivarsi subito e senza remore a togliere di mezzo diplomaticamente la radice politica della minaccia iraniana. Oppure ammettere che è impossibile farlo. Evitando, in ogni caso, di compiere a propria volta eccidi di massa tra la popolazione. Pur senza l´utilizzo estremo del nucleare.

La STAMPA - Maurizio Molinari : " Tagli al nucleare. Gli Usa lanciano nuove strategie "


Maurizio Molinari

È il «Prompt Global Strike» la novità strategica che il presidente Barack H. Obama si accinge a varare, ridisegnando la dottrina militare degli Stati Uniti. La cornice in cui questa scelta sta maturando è la «Nuclear Posture Review» che spetta a ogni inquilino della Casa Bianca e concerne la revisione dei principi che guidano il possibile ricorso delle armi nucleari.
Nel solco dei predecessori, Obama si avvia a confermare la dottrina del «primo uso», ovvero la possibilità di lanciare un attacco atomico preventivo, introdotta dalla Casa Bianca ai tempi della Guerra Fredda. La novità è costituita però dal «Prompt Global Strike» elaborato dalla task force di strateghi del Pentagono di Robert Gates. Ecco di cosa si tratta: se gli Stati Uniti vedranno manifestarsi una «minaccia imminente» in qualsiasi parte del globo, potranno colpirla «ovunque si trovi entro un’ora con armi non nucleari». In concreto ciò significa che se i satelliti spia vedranno Osama bin Laden sui monti dell’Afghanistan oppure un missile nordcoreano in procinto di essere lanciato contro le Hawaii o l’Alaska, scatterà il «Prompt Global Strike» (Attacco globale immediato).
Fra le ipotesi che circolano sugli armamenti che lo renderanno possibile vi sono i missili intercontinentali, i vettori ipersonici, i missili lanciati da aerei in volo o i raggi laser sparati da piattaforme spaziali, i bombardieri o i droni. In questo modo Obama preserva il diritto al «primo uso» di armi atomiche ma in realtà progetta il suo eventuale esercizio con armamenti di tipo non nucleare, ribadendo così la volontà della progressiva riduzione degli arsenali strategici enunciata lo scorso anno nel discorso di Praga. Resta da vedere come reagirà Mosca alla svolta in arrivo dalla Casa Bianca. Sulla carta le due potenze sono da quasi tre mesi sul ciglio del rinnovo del trattato Start, scaduto a inizio dicembre, ma la firma continua a slittare a causa della moltiplicazione dei disaccordi: dal nuovo regime di ispezioni reciproche al dispiegamento in Romania del ridimensionato sistema antimissile americano. Con il «Prompt Global Strike» Obama prova a vincere tali resistenze dimostrando al Cremlino che le armi nucleari servono sempre meno e dunque è possibile gettare le fondamenta di un nuovo sistema di sicurezza comune.

La STAMPA - Claudio Gallo : " L'Iran a un passo dall'atomica "

Come ammette lo stesso Cirincione, l'Iran ha come obiettivo la bomba atomica. Sostenere, come fa nel corso nell'intervista, che sia sbagliato prendere immediatamente le dovute contromisure (anche militari, se necessario)  perchè le masse islamiche sarebbero furiose e perchè, in realtà, il regime non sarebbe in grado di dotarsi di arsenale nucleare è assurdo. Non è possibile restare in attesa senza far nulla e lasciare che la situazione precipiti del tutto. 
Ecco l'intervista:


Joe Cirincione, un nome un programma
 

Signor Cirincione, l’Iran sta cercando di costruire una bomba atomica?
«Non c’è dubbio che Teheran stia cercando di dotarsi della tecnologia che gli permetterebbe di realizzare un’arma atomica. Non sappiamo tuttavia se il regime abbia deciso di costruire di fatto un’arma. Da un punto di vista strategico, avrebbe senso fermarsi sull’orlo, cioè avere la capacità di arricchire l’uranio, aver completato in segreto i disegni, avere un missile che possa portare una testata, ma non assemblare concretamente la bomba. Questo porterebbe molti dei vantaggi di uno Stato dotato di arsenali nucleari, senza provocare un attacco e, forse, ritarderebbe la reazione dei Paesi vicini tentati di dotarsi di un proprio programma nucleare».
Teheran continua, sia pure alle proprie condizioni, a offrire all’Occidente uno scambio di uranio: non crede che questa insistenza indichi che le scorte di uranio iraniane stiano per finire?
«L’Iran non ha, che si sappia, sufficienti riserve di uranio per alimentare molto a lungo l’attuale impianto di Natanz. Certamente non ha abbastanza combustibile per alimentare i 10 nuovi impianti di arricchimento che ha annunciato di voler costruire. Ma il motivo più probabile per cui il governo ha prima accettato e poi rifiutato lo scambio di uranio, è che il regime è in crisi. Non ha il consenso sufficiente né per accettare né per respingere completamente l’accordo».
Il presidente del parlamento iraniano Ali Larijani ha detto che «secondo i termini del Trattato di non proliferazione, l’Onu non ha il diritto di chiedere all’Iran di sospendere le sue attività». Perché l’Occidente la pensa diversamente?
«Per sua stessa ammissione, l’Iran ha ingannato l’Aiea per 15 anni. E’ chiaramente in violazione degli obblighi che gli impone il Trattato di comunicare tutte le sue attività nucleari e l’esistenza di tutti gli impianti. La stragrande maggioranza dei Paesi che fanno parte del Consiglio dell’Aiea e del Consiglio di sicurezza dell’Onu ritengono che l’Iran abbia violato e violi ancora gli obblighi del Trattato. Secondo il Trattato infatti il Consiglio di sicurezza ha il diritto (l’obbligo di fatto) di chiedere all’Iran di fermare le sue attività nucleari finché Teheran non ristabilisca la sua buona fede. Pochi fuori dell’Iran mettono in discussione questi fatti».
Nell’ultimo rapporto dell’Aiea si cita uno studio iraniano su una testata missilistica nucleare. Sembra che la fonte del rapporto sia il solito computer portatile iraniano rubato, che dal 2005 si affaccia a intermittenza sulle pagine dei giornali occidentali: che cosa ne pensa?
«È l’affermazione meno chiara del rapporto. I documenti del laptop sembrano esserne la fonte e non si capisce ancora da dove il portatile arrivi. Ma su questo l’Iran non ha ancora fornito risposte adeguate, sollevando sospetti che potrebbero suffragare l’ipotesi che stia compiendo davvero quelle ricerche».
Nel maggio 2009 lei era tra gli esperti, americani e russi, che scrissero il rapporto «Iran, Nuclear and Missile Potential». Lo studio sostiene che, se lo decidesse, l’Iran potrebbe costruire una testata nucleare entro 6-10 anni. Sono ancora valide quelle conclusioni?
«Da quando abbiamo scritto il rapporto, il periodo di tempo necessario all’Iran per costruire una testata nucleare si è in qualche modo ridotto. Può probabilmente realizzare una piccola bomba nucleare in 1-2 anni. E servirebbero presumibilmente alcuni anni in aggiunta per testare l’ordigno e ottimizzarlo per una testata che si adatti a uno dei loro missili Shahab. La ragione principale per la diminuzione del periodo di tempo necessario è la produzione di abbastanza uranio arricchito a bassa intensità che potrebbe essere trasformato in uranio arricchito ad alta intensità per una bomba».
Recentemente, sull’Huffington Post, l’ex vice direttore generale dell’Aiea Bruno Pellaud ha scritto che l’Iran sta coscientemente spingendo gli israeliani ad attaccare le sue strutture nucleari: possibile?
«Il regime è in difficoltà. Difficile prevedere quanto possa durare. Le Guardie rivoluzionarie vorrebbero cambiare questa dinamica. È verosimile che i pasdaran stiano cercando di spingere Israele ad attaccare. Questo permetterebbe loro di riunire la popolazione in difesa della nazione».
Il presidente Ahmadinejad ha detto che Israele colpirà in primavera o in estate: secondo lei è fattibile senza il via libera americano?
«È possibile ma molto improbabile. I militari americani non vogliono cominciare una terza guerra in Medio Oriente. Il capo di stato maggiore, l’ammiraglio Mullen, ha spiegato qualche giorno fa che un attacco avrebbe “conseguenze indesiderate”».
Il generale russo Nikolay Makarov ha detto che un blitz ora contro l’Iran porterebbe l’America al collasso: «provokazia» russa vecchio stile oppure c’è qualcosa di realistico?
«Non porterebbe il collasso ma un grande subbuglio. Un attacco potrebbe unire il mondo musulmano contro l’America. Molti governanti islamici vorrebbero vedere l’America colpire l’Iran, ma le masse musulmane sarebbero furiose».

Per inviare la propria opinione a Foglio, Repubblica, Stampa, cliccare sulle e-mail sottostanti


lettere@ilfoglio.it
rubrica.lettere@repubblica.it
lettere@lastampa.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT