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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa.L'Unità Rassegna Stampa
21.02.2010 Abu Mazen: sesso, corruzione, manca il rock and roll
Due ritratti di un premier inesistente

Testata:La Stampa.L'Unità
Autore: Laurent Zecchini-Umberto De Giovannangeli
Titolo: «Siamo stanchi, temo il ritorno della violenza- Fatah-Gate, sesso e mazzette nel partito di Abu Mazen»

Due articoli sull'Anp, del tutto privi di novità, oggi, 21/02/2010.
 Il primo sulla STAMPA, tradotto da LE MONDE, il secondo sull'UNITA', di Umberto De Giovannageli, che racconta, udite !, le cifre della corruzione  nei territori palestinesi. Peccato che non gli esca fuori il nome del corruttore principe, quell'Arafat che ha lodato senza posa quando era in vita e quando i giornali come l'UNITA' nascondevano di lui crimini e misfatti.
L'intervista della STAMPA, colma di banalità, riporta anche affermazioni di Abu Mazen del tutto inventate, come quella che Gerusalemme Est era stata concordata con Olmert quale capitale del futuro Stato palestinese. Naturalmente l'intervistatore non glielo fa notare.
Ecco gli articoli:

La Stampa-Laurent Zecchini: " Siamo stanchi, temo il ritorno della violenza "


Abu Mazen

Presidente Abu Mazen, il suo governo persegue lo sviluppo economico della Cisgiordania, ma il processo politico è bloccato. Lei crede alla possibilità di aprire dei colloqui con Israele?
«Quando parliamo di sviluppo economico, parliamo anche di sicurezza. Tutti riconoscono che abbiamo fatto un lavoro eccellente. Quanto alla pista politica, gli americani hanno proposto dei negoziati indiretti e noi abbiamo risposto con tre domande. La prima riguarda i “termini di riferimento”, la seconda il calendario, la terza si può riassumere così: se questi colloqui falliscono, quale sarà la posizione americana? Quando avremo ricevuto le risposte, le esamineremo, anche con la Lega araba».
Considerare termine di riferimento uno Stato con le frontiere del 1967 e Gerusalemme-Est per capitale non significa anticipare i risultati del negoziato?
«No, questa è la road map del 2003, accettata da tutti. Essa cita due Stati, con uno Stato palestinese indipendente e vivibile a fianco di Israele, la fine dell’occupazione israeliana e le risoluzioni dell’Onu, compresa l’Iniziativa araba di pace del 2002».
Lei pensa che gli israeliani siano soddisfatti dello statu quo?
«Siamo arrivati a questa conclusione nel passato. Oggi gli americani lanciano questi negoziati indiretti, vedremo se anche loro arriveranno alla stessa conclusione».
Il primo ministro israeliano, Benyamin Netanyahu, accetterà di riprendere il negoziato dal punto in cui vi eravate fermati con il suo predecessore, Ehud Olmert?
«E’ proprio questo che noi chiediamo e loro non vogliono. Durante i negoziati con Olmert, Condoleezza Rice, l’allora segretario di Stato americano, ci confermò la posizione di Washington rispetto alle frontiere e ai territori occupati, che sono la Striscia di Gaza, la Cisgiordania, cioè Gerusalemme Est, il Mar Morto e la valle del Giordano. Le due parti si sono dette d’accordo. L’indomani Olmert e io abbiamo cominciato a confrontarci sullo scambio di territori. Purtroppo non abbiamo potuto concludere. Per questo io chiedo agli americani: “Siete d’accordo con le posizioni confermate da Condoleezza Rice?”. Se non lo sono, gli israeliani ci diranno: “ricominciamo da zero”».
Come immagina questi colloqui?
«Se riceveremo una risposta positiva, li riprenderemo ovviamente sulla base del principio per cui nulla è acquisito finché tutto non è stato acquisito. Cominciando dalla questione delle frontiere, perché se questo problema è risolto, vorrà dire che sarà stato risolto anche quello delle colonie, di Gerusalemme e della ripartizione dell’acqua».
Se i colloqui non riprenderanno, potrà esserci una reazione popolare palestinese violenta?
«Se non ci sono prospettive per il futuro, temo che la popolazione faccia altre scelte. Per il momento controlliamo la situazione, almeno in Cisgiordania. Se però la gente non crederà più che il futuro le porterà uno Stato palestinese, se ci sarà un blocco, allora temo che tornerà alla violenza».
L’altra ipotesi sono le sue dimissioni.
«Io non ho parlato di dimissioni ma di elezioni. Che siamo andati avanti o no, non mi ripresenterò più»
C’è ancora tempo.
«Se Hamas firmerà il documento di riconciliazione palestinese, le elezioni si terranno il 28 giugno. Il problema è che Hamas crede che alcuni Paesi arabi l’aiuteranno a far accettare modifiche a questo documento. Noi però non ne accetteremo nessuna».
Lei pensa che gli israeliani possano fare delle concessioni senza pressioni americane?
«No, non credo proprio. Ci aspettiamo dunque altre iniziative da parte americana. Contiamo sul presidente Obama, ma anche su Sarkozy. Il presidente francese vuole avere un ruolo e penso che possa averlo, perché è amico sia dei palestinesi sia degli israeliani».
Se i colloqui riprenderanno, negozierete a nome della sola Cisgiordania?
«No, parleremo a nome di tutto il popolo palestinese. Io sono il presidente del comitato esecutivo dell’Olp. Tutti lo riconoscono».
La riconciliazione palestinese significherebbe un governo di unità nazionale con ministri di Hamas. Israele e Stati Uniti sarebbero d’accordo?
«Gli israeliani no, perché la situazione attuale dà loro un pretesto per dire che non ci sono interlocutori palestinesi, per lo statu quo. Penso invece che gli americani vogliano la riconciliazione, anche se diffidano di Hamas».

L'Unità- Umberto De Giovannangeli: " Fatah-Gate, sesso e mazzette nel partito di Abu Mazen "


Abu Mazen e Arafat, che Udg dimentica

Sesso, mazzette e videotape. Appalti taroccati, un tariffario sistematico per entrare a far parte di uno dei 14 servizi di sicurezza o nella pletorica amministrazione dell'Anp. La stampa lo ha ribattezzato «Fatah-gate», rifacendosi allo scandalo del Watergate (1972) che costò la presidenza degli Stati Uniti a Richard Nixon. L'accostamento può apparire azzardato, ma c'è un punto che unisce le due vicende: la volontà di occultare. Occultare, sminuire: missione impossibile per l'entourage di Mahmud Abbas (Abu Mazen), perché la storia di sesso e corruzione che ha avuto come protagonista Rafi al-Husseini, capo del gabinetto del presidente palestinese, è solo la punta di un iceberg che rischia di travolgere il rais e mettere in ginocchio Al Fatah, il movimento fondato da Yasser Arafat e oggi guidato da Abu Mazen. Il 9 febbraio scorso la Tv commerciale israeliana ha mostrato un video – ottenuto dall'ex capo dell'unità anti-corruzione del Servizio di Intelligence Generale palestinese, Fahmi Shabaneh - in cui al-Husseini è mezzo nudo, prima di infilarsi nel letto con una ragazza, che in cambio gli chiedeva un lavoro. Ebbene, Abu Mazen sapeva dal2008 che il suo stretto collaboratore si trovava al centro di un affare che mischiava sesso e corruzione, ma solo dopo che il filmato è stato diffuso, il raìs ha deciso di sospendere per 3 settimane il famelico al-Husseini. I fedelissimi del rais hanno provato a gridare al «complotto israeliano », facendo leva sulla figura non proprio adamantina del «giustiziere » Shabaneh, ma nei Territori la rabbia cresce, come la richiesta di fare pulizia nella pletorica e onnivora nomenclatura dell' Anp. «Evidentemente ai vertici di Fatah c'è chi si è dimenticato che la batosta elettorale del2006 subita ad opera di Hamas fu innanzitutto dovuta dalla volontà popolare di punire la corruzione dilagante sia nell'Autorità palestinese che in Fatah. Una corruzione divenuta sistema di governo», dice a l'Unità Hanan Ashrawi, più volte ministra, prima portavoce della delegazione palestinese ai colloqui di Washington. Una considerazione che trova d'accordo uno dei giornalisti che più e meglio ha raccontato il Medio Oriente: Robert Fisk: «I palestinesi – ricorda Fisk – non hanno votato per Hamas perché volevano una repubblica islamica ma perché erano stanchi della corruzione dell'organizzazione di Abu Mazen e del marciume dell'Autorità palestinese». Standoalle rivelazionidi Shabaneh, il personale di Fatah avrebbe sottratto personalmente 3,2 milioni di dollari donati dagli Usa per realizzare le elezioni parlamentari del 2006. «È vero che non esiste la volontà politica di indagare sugli episodi di corruzione – le fa eco Ghada Zughayir, direttrice dell'organizzazione non governativa Aman – Dalla creazione dell'Anp – annota Zughayir – un solo responsabile, Harbi Sarsour, ex direttore dell'Agenzia per il petrolio, è stato giudicato per fatti di corruzione». «Troppo spesso i criminali sono in stretto contatto con i leader di Fatah, se non agiscono direttamente su loro ordine. D'altra parte l'Autorità palestinese, anche sotto Abu Mazen non ha fatto molto per combattere la corruzione»: così scriveva nel settembre 2005 Amira Hass, la giornalista e scrittrice israeliana più vicina, con intelligenza e coraggio, al popolo palestinese. Sono trascorsi 5 anni d'allora, ma l'amara considerazione di Hass è quanto mai attuale. Una storia di malversazioni che non data l'oggi. Dal 2001 al 2006, ad esempio, almeno 700 milioni di dollari sono stati dilapidati o rubati dalle casse dell'Anp permanodi burocrati o politici corrotti. Settecento milioni di dollari, pari al deficit annuale del bilancio palestinese...Il Procuratore generale palestinese che aveva denunciato la sparizione dei 700 milioni di dollari è lo stesso che, nel 2007, ha elencato almeno 25 episodi di corruzione, per i quali nessuno ha pagato. Nel 2008, resoconta un rapporto dell'Istituto norvegese per la costruzione della pace pubblicato dal settimanale palestinese Al Safeer - «due palestinesi su tre pensano che gli aiuti economici dell'Occidente servano solo ad aumentare la corruzione ». Due anni dopo, la sensazione è la stessa, così come inevasa è rimasta la richiesta, largamente maggioritaria nella società palestinese, di fare pulizia ad ogni livello dell'Anp. E c’è ancora chi ricorda, negli anni d'oro per le casse dell'Autorità palestinese, che il monopolio della cartellonistica pubblicitaria nei Territori era appannaggio del figlio di Abu Mazen, mentre quello della benzina era gestito dall'allora capo delle forze per la sicurezza preventiva in Cisgiordania, Jibril Rajiub (Al Fatah), mentre quello del cemento era andato, a Gaza, all'«uomo forte » di Fatah nella Striscia, Muhammad Dahlan. Ma lo scandalo rimasto maggiormente impresso nella memoria collettiva della gente palestinese è quello che investì (2001) il potente ministro Tarifi, insignito del monopolio delle cave di pietra. Durante un negoziato sull'estensione delle aree cisgiordane da passare sotto giurisdizione palestinese si racconta che si si sia parlato di un villaggio non lontano da Ramallah. Tarifi allora avrebbe ordinato l'avvio di scavi tutt'attorno al villaggi, perché in quella zona la pietra risultava molto pregiata. La popolazione ha protestò rivolgendosi direttamente al governatore di Ramallah. Da quel giorno gli abitanti del villaggio non avrebbero più avuto i permessi per recarsi a lavorare in Israele: Tarifi nel team negoziale palestinese aveva l'incarico di ottenere il rilascio dei permessi di lavoro. Il villaggio in questione non è più rientrato nelle mappe del ritiro israeliane e le autorità di Gerusalemme autorizzarono l'apertura delle cave richieste dall'azienda di Tarifi. E la (brutta) storia continua.

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