Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Sanzioni all'Iran: Hillary Clinton ha convinto l'Arabia Saudita Anche la Germania le appoggia. Cronache di Maurizio Molinari, redazione del Foglio
Testata:La Stampa - Il Foglio Autore: Maurizio Molinari - La redazione del Foglio Titolo: «Riad a Teheran: siete una minaccia - Berlino è più ligia con l’Iran, ma ha un terrore tutto cinese»
Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 17/02/2010, a pag. 17, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Riad a Teheran: siete una minaccia ". Dal FOGLIO, a pag. 3, l'articolo dal titolo "Berlino è più ligia con l’Iran, ma ha un terrore tutto cinese". Ecco i pezzi:
La STAMPA - Maurizio Molinari : "Riad a Teheran: siete una minaccia "
Maurizio Molinari
L’Arabia Saudita alza il tono del confronto sul nucleare iraniano e Teheran risponde per le rime: «Ogni nazione che appoggerà le sanzioni se ne pentirà». A far emergere la tensione fra i due giganti del Golfo è stata la visita a Riad del segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, che ha incontrato il re Abdullah. È toccato al ministro degli Esteri saudita, Saud el Faisal, far sapere l’opinione del regno sulla corsa iraniana al nucleare: «Le sanzioni sono una soluzione di lungo termine ma a nostro avviso, forse perché siamo molto vicini alla minaccia, questo problema necessita una soluzione di breve termine, immediata e non graduale». E affinchè il messaggio fosse inequivocabile ha aggiunto: «Il problema sono le politiche estremiste dell’Iran, se continuerà con il programma nucleare, che Dio non voglia, avremo un’ulteriore proliferazione e la regione diventerà piena di armi nucleari». Hillary non poteva incassare di più: il linguaggio di Riad è a tal punto esplicito da far comprendere a Pechino che se porrà il veto alle sanzoni Onu all’Iran potrebbe vedere incrinate le relazioni con l’Arabia Saudita, il suo primo fornitore di greggio. L’intesa fra Hillary e re Abdullah lascia intendere che Riad potrebbe sostenere qualsiasi tipo di opzione per impedire a Teheran di raggiungere l’atomica e la risposta iraniana non è tardata ad arrivare. Prima ha parlato il ministro degli Esteri, Manouchehr Mottaki, accusando Hillary di «voler trarre in inganno i Paesi della regione sollevando false accuse come quella che siamo una dittatura militare mentre sono gli Usa ad esserlo». E poi è stato il presidente Mahmoud Ahmadinejad ad affermare: «La vergogna coprirà chi sostiene le sanzioni contro di noi, se ne pentiranno». Come dire: i sauditi pagherano. L’imminente arrivo di batterie antimissilistiche Usa in Arabia Saudita, dove il personale militare americano è stato portato a 30 mila uomini, e la presenza della Us Navy fra le coste saudite e iraniane aiutano a comprendere quanto sta avvenendo: Riad si prepara ad essere il più importante alleato strategico di Washington nel braccio di ferro con l’Iran, come già avvenne durante le ripetute crisi con l’Iraq di Saddam. Sul fronte diplomatico invece le novità arrivano da Vienna, dove i governi di Mosca, Washington e Parigi hanno co-firmato una lettera all’Agenzia atomica dell’Onu (Aiea) definendo «del tutto ingiustificata» la decisione dell’Iran di portare l’arricchimento dell’uranio al 20%. «Se l’Iran andrà avanti in questa escalation ciò aumenterà le preoccupazioni sulle sue intenzioni nucleari» osservano i tre Paesi, con il Cremlino che ha aggiunto un comunicato ad hoc parlando di «sanzioni in arrivo se Teheran non farà venir meno i timori internazionali». L’alto profilo di Russia e Arabia Saudita sul nucleare iraniano è frutto della strategia diplomatica dell’amministrazione Obama, tesa ad operare in un quadro di alleanze internazionali. La Casa Bianca aveva puntato nel 2009 sul dialogo con Teheran «ma loro non hanno raccolto la mano tesa», dice un portavoce Usa.
Il FOGLIO - " Berlino è più ligia con l’Iran, ma ha un terrore tutto cinese "
Angela Merkel
Berlino. Tra Germania e Iran il giro d’affari è miliardario, pure se ha registrato nel 2009 un calo dell’8 per cento: secondo l’Istituto federale di statistica si aggira sui 3,3 miliardi di euro. Il calo è dovuto in primo luogo alla crisi economica, ma le pressioni transatlantiche hanno negli ultimi anni sortito effetti. L’ultimo riguarda Siemens, che un mese fa ha annunciato che non stipulerà più nuovi contratti con l’Iran a partire dal secondo semestre 2010 (quelli in corso saranno onorati). Al buon nome e alla proverbiale serietà “che mette i tedeschi al primo posto nella graduatoria di gradimento degli iraniani – dice al Foglio un addetto del settore – nessuno intende rinunciare. Per Siemens non è poi un grande sacrificio uscire dall’Iran, il fatturato con il paese degli ayatollah si aggira attorno ai 400 milioni di euro. Un importo per il quale non vale proprio la pena mettere a rischio i volumi di affari assai più importanti con gli Stati Uniti. E’ proprio questo il rischio corso dal colosso tedesco l’estate scorsa, quando in ballo c’erano centinaia di milioni di dollari per un appalto riguardante la metropolitana di Los Angeles. Allora qualcuno chiese come mai Siemens potesse concorrere visto che, assieme alla consociata Nokia, forniva attrezzature che permettevano al regime iraniano di spiare gli oppositori. La cancelliera, Angela Merkel, ha deciso di usare toni più duri e di passare ai fatti. Già in novembre, davanti al Congresso americano, e di nuovo in occasione delle visite in gennaio a Berlino del presidente israeliano, Shimon Peres, e del premier, Benjamin Netanyahu, ha dichiarato che la Germania è disposta ora a varare anche unilateralmente nuove sanzioni, qualora il Consiglio di Sicurezza dell’Onu non riuscisse a imporle a causa del veto della Cina. Tale minaccia questa volta, più che in passato, ha maggior fondamento, tanto da mettere in grande allarme il mondo imprenditoriale tedesco, convinto di essersi sempre attenuto in modo ligio alle sanzioni. E suona quasi come una sfida il comunicato arrivato da Basf, Bayer, Linde (progetta impianti estrattivi e di altro tipo) poco dopo l’annuncio di Siemens: loro non hanno intenzione di lasciare l’Iran. La mancanza di un altro mercato Germania e Italia si contendono il maggior volume di interscambi con l’Iran. Fino al 2008, come scrive il Wall Street Journal, l’export tedesco verso quel paese è cresciuto rispetto al 2007 del 9 per cento (pari a 3,92 miliardi di euro), mentre nel 2009 l’ufficio federale di controllo ha approvato un numero superiore di forniture di attrezzature tecniche (48 contro le 39 del 2007) rientranti nella categoria “dual use” (doppio impiego). La Germania esporta prodotti chimici, acciaio e ferro, oltre a beni alimentari, stoffe, farmaci e altro ancora. Tra i maggiori partner commerciali figurano per l’appunto colossi come Siemens, Basf e Bayer, ma sono soprattutto le medie imprese “quelle che non hanno l’alternativa del mercato nordamericano”, dice al Foglio una fonte anonima, a rischiare di più. “Per i colossi petroliferi americani e britannici, che operavano in Iran in questo settore, è stato più facile ritirarsi, hanno altri mercati. La maggior parte delle imprese tedesche, così come quelle italiane, che operano in quel paese è invece di media grandezza, e spesso non ha altri mercati sui quali deviare”. Così, secondo Anton Börner, presidente del Bga (l’Associazione federale dei grossisti e dell’export), se vi saranno nuove sanzioni sarebbero a rischio oltre diecimila posti di lavoro. Due terzi delle imprese iraniane si avvalgono di macchinari made in Germany, fa notare Michael Tockuss, direttore della Camera di commercio tedesco-iraniana, che conta duemila soci. Insomma, secondo gli imprenditori a subire il reale contraccolpo di un nuovo giro di vite sarebbe proprio la Germania, mentre altri paesi, in primo luogo la Cina, ne approfitterebbero. Pechino già se ne approfitta, non soltanto perché è diventato una specie di cavallo di Troia, attraverso il quale molte imprese occidentali fanno transitare i loro rapporti con l’Iran, ma soprattutto perché è sempre più presente in prima persona, come spiega al Foglio Klaus Friedrich del Vdma (l’Associazione dei produttori di macchinari e di impianti): “Negli ultimi anni i cinesi hanno guadagnato molto terreno. Nel 2008 su 5 miliardi di euro di macchinari forniti, il 24 per cento ricadeva sull’Italia, il 22 sulla Germania e il 17,5 sulla Cina. Solo tre anni prima, la quota cinese era del 6,2 per cento. E ci sono tutti i presupposti per pensare che nel 2009 abbiano superato il 20 per cento. Non è difficile immaginare quali siano le conseguenze per Italia e Germania”. Se nel settore macchinari è ancora un testa a testa, nell’interscambio complessivo la Cina è già numero uno. Importa l’11 per cento del greggio e si sta assicurando gli appalti più ingenti: quello riguardante la costruzione di una raffineria, così come, di un impianto per l’estrazione del gas. Gli europei si chiedono anche chi riuscirà alla fine ad aggiudicarsi la costruzione della pipeline Nabucco. Particolarmente irritati sono al momento gli imprenditori di Amburgo, dove hanno sede la banca commerciale europea- iraniana Eihb, la Melli e la Saderat e dove vive una comunità di 35 mila iraniani. Poco prima dell’arrivo di Peres e Netanyahu, la società logistico-portuale di Amburgo, la Hhl, ha dovuto ritirarsi, su pressioni transatlantiche, da una assai promettente gara d’appalto iraniana. La scappatoia da Dubai Tra le organizzazioni più attive nel registrare i rapporti tra Iran e Germania è “Stop the bomb” che ha denunciato un contratto, risalente però al 2007, di fornitura di turbine a gas di Siemens, così come le attività di impiantistica di una consociata della Thyssen Krupp. E poco importa, lamentano gli imprenditori, se si tratta di attività che non rientrano nelle sanzioni. Loro si sentono abbandonati dal governo, sempre più preoccupato di assecondare le pressioni di Washington e Gerusalemme. Certo, sono contro “quel pazzo” di Mahmoud Ahmadinejad, i suoi proclami anti Israele, sono contro la corsa all’armamento nucleare, capiscono che l’occidente voglia sfruttare – se c’è – ogni debolezza del regime, ma non intendono pagarne il conto. E così si continua a ricorrere a scappatoie e a trovarne di nuove. Nei 3,9 miliardi di euro di export raggiunti nel 2008 non sono contenuti, come precisa l’Istituto di statistica tedesco, gli scambi che avvengono attraverso paesi terzi. Proprio per non lasciare il campo del tutto libero al gigante cinese, ma anche ai coreani e ai giapponesi (Fuji si è accaparrata il mercato sgomberato qualche anno fa da Agfa e Kodak), molte imprese (tra queste statunitensi, affermano i ben informati) hanno infatti trovato in Dubai una scappatoia perfetta. “L’Emirato è, economicamente parlando, in mano per oltre il 70 per cento agli iraniani”, racconta un funzionario. Il 70 per cento delle importazioni dell’Iran passa attraverso Dubai, “l’ultima finestra aperta verso il mondo”. Dopo la prima ondata di espatriati, che risale alla rivoluzione khomeinista, negli anni hanno continuato a insediarsi imprese iraniane che oggi ammontano a circa 5 o 6 mila. Sono loro a fare da tramite con l’Iran. Il dato è confermato anche dalla Germany Trade & Invest, che registra un aumento di interscambi da metà 2008 a metà 2009 del 16,8 per cento degli Emirati arabi. Ma anche qui le cose potrebbero cambiare. Abu Dhabi ha sempre guardato con sospetto questa “zona franca” di Dubai. Teme la corsa di Teheran all’armamento nucleare e le sue pretese di egemonia sull’area. E oggi Abu Dhabi ha più voce in capitolo, dopo aver salvato l’autunno scorso Dubai dall’insolvibilità. Per questo, come ha scritto il Financial Times Deutschland, “alcuni iraniani stanno già emigrando verso la Malesia e la Russia”. Gli americani tengono d’occhio gli Emirati ma non perdono di vista il gigante tedesco. Così in dicembre la Financial Action Task Force metteva nuovamente in allarme banche e imprenditori, chiedendo agli istituti di credito di assumere anche la funzione di controllori negli scambi commerciali con l’estero. Insomma se un pagamento è destinato a un’impresa di Hong Kong (altro punto di approdo per chi fa affari con l’Iran) la Deutsche Bank dovrebbe impiegare segugi per capire se quella è la destinazione finale oppure soltanto una tappa intermedia. “Una richiesta del tutto superflua”, commenta Oliver Wieck, capo del dipartimento per il Commercio estero e lo Sviluppo del Bdi (la Confindustria tedesca). “In Germania esiste già un efficiente sistema di controllo delle esportazioni”. Per non parlare del fatto che alle banche tedesche pare di aver già fatto tutto il possibile. Dal 2007 non ce n’è più una che opera sul mercato iraniano. Così centinaia di medie imprese tedesche che non possono più rivolgersi alla loro banca tedesca sono passati a tre istituti iraniani o europeo-iraniani, tutti con sede ad Amburgo, il secondo porto europeo. Si tratta di Eihb, Saderat e Melli, queste ultime due, peraltro, nella lista nera degli Stati Uniti: Saderat perché sospettata di aver finanziato gli Hezbollah, Melli perché contribuisce alla corsa al nucleare iraniano. “E’ vero che lavorare è diventato più difficile – ammette un insider – in compenso il volume è considerevolmente aumentato”. Si parla di un incremento, nonostante la crisi, superiore al 20 per cento e di una ulteriore crescita del 10 per cento nel prossimo biennio. Qualche giorno fa il Wall Street Journal chiedeva: “La Germania questa volta userà veramente il pugno di ferro contro l’Iran?”. Andreas Rinke, editorialista del Handelsblatt che da anni segue la questione, risponde: “Il governo tedesco negli ultimi anni ha già fatto molto. Ha reso sempre più difficile ottenere garanzie statali per il commercio con l’Iran, più tortuose le autorizzazioni per l’export di merci che non rientrano nelle sanzioni. Per questo gli imprenditori tedeschi sono imbufaliti, rispettano le sanzioni Onu, ma temono che le misure aggiuntive non faranno altro che avvantaggiare altri paesi e produttori. Come è successo un paio d’anni fa, quando Mercedes voleva esportare camion in Iran, ma fu fermata, e la commessa se la intascò Volvo”.
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