Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 11/02/2010, a pag. 9, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " La guerra di Obama all'impero dei pasdaran ", a pag. 8, l'articolo di Claudio Gallo dal titolo " L'onda verde sfida le minacce del regime ", l'intervista di Domenico Quirico a Mohsen Makhamalbaf, regista di «Viaggio a Kandahar», portavoce ufficioso all'estero del leader dell'opposizione Mousavi, dal titolo " Pronti a morire. La Rivoluzione è forte come all'inizio ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 19, l'articolo di Guido Olimpio dal titolo " Gli uomini di Fedat, la centrale segreta che studia la Bomba ". Dal FOGLIO, a pag. 1-II l'articolo di Tatiana Boutourline dal titolo " Il regime sempre più isolato prepara la tomba della sedizione ". Da REPUBBLICA, a pag. 18, l'articolo di Anais Ginori dal titolo "La rivolta dei diplomatici in 27 chiedono asilo politico ", a pag. 19, l'intervista di Arturo Zampaglione a Daniel Pipes dal titolo " Pipes: Per le pressioni è tardi l'unica via d'uscita è attaccare ". Dal GIORNALE, a pag. 16, l'intervista di Rolla Scolari ad Ebrahim Nabavi dal titolo " Il dissidente ". Ecco i pezzi:
LA STAMPA - Maurizio Molinari : " La guerra di Obama all'impero dei pasdaran "

Maurizio Molinari
La Casa Bianca sta ultimando il testo delle sanzioni all’Iran che puntano a colpire le Guardie della rivoluzione islamica, identificate come lo strumento con cui la Guida Suprema Ali Khamenei persegue il nucleare proibito, reprime il dissenso in patria e coordina molteplici attività terroristiche all’estero.
Il fine dell’amministrazione Obama è di «separare in maniera sistematica l’Iran dalle Guardie rivoluzionarie» al fine di impedire che la maggioranza della popolazione si trovi a subire le conseguenze delle sanzioni. Lo strumento per riuscirci è la redazione di una lista di nomi e aziende direttamente collegati alla milizia dei pasdaran (come vengono chiamati i Guardiani della rivoluzione) che conta circa 130 mila effettivi, dispone di unità navali ed aeree, controlla i basiji adoperati contro l’opposizione (ritenuti anche i protagonisti dell’assalto all’ambasciata d’Italia), include la Forza Al Quds che conduce attività terroristiche in altre nazioni e gestisce un impero economico di imprese e fondazioni dal valore di miliardi di dollari.
Per avere un’idea del ruolo dei pasdaran negli equilibri interni in Iran basti pensare che Ahmad Vahidi, ministro della Difesa, è l’ex capo della Forza Al Quds ed è lui che con i pasdaran garantisce la sicurezza della rete di impianti nucleari, a cominciare da quello di Qom. Vahidi non si fida dell’esercito regolare per proteggere il nucleare così come non conta sulla polizia per reprimere le proteste, preferendogli i basiji. Fra i suoi più stretti collaboratori c’è Qassem Suleimani, successore alla guida della Forza Al Quds, considerato il principale fornitore di armi e assistenza agli Hezbollah libanesi, a Hamas a Gaza, alla guerriglia sciita in Iraq ed ai ribelli houti che sui monti dello Yemen mettono in difficoltà le truppe di Sana’a e di Riad. Alla Forza Al Quds appartiene anche Hassan Khazemi-Qomi, l’ex console a Herat divenuto ambasciatore a Baghdad e accusato dal Pentagono di favorire la consegna di ordigni alla guerriglia locale.
La piramide militare dei pasdaran risponde solo a Khamenei - ha nominato il comandante Mohammad Ali Jafari e i più alti ufficiali - che dopo le proteste di piazza di giugno ne ha fatto lo strumento per accrescere il controllo dello Stato a scapito degli altri leader del clero khomeinista. Questo è ancor più vero sul terreno economico: uno studio del «Los Angeles Times» stima che le circa cento aziende dei pasdaran sommino entrate annuali per 12 miliardi di dollari, a cominciare dai settori di produzione energetica, importazione di benzina, ingegneria missilistica e costruzioni di ogni genere. A ciò bisogna aggiungere le due fondazioni degli «Oppressi» e dei «Martiri» considerate il forziere di Khamenei. La lista redatta da Washington include i nomi di leader militari e aziende, inclusa quella che gestisce l’aeroporto di Teheran.
Scegliendo questa strada contro Teheran Obama segue i consigli di Hillary Clinton e Robert Gates, basati sulla conclusione che la realpolitik e le aperture del 2009 non hanno dato risultati.
Resta da vedere se l’ambasciatrice all’Onu Susan Rice riuscirà a trovare l’accordo fra i 15 membri del Consiglio di Sicurezza. Al momento il nodo da sciogliere resta la Cina. Ma il Dipartimento di Stato ritiene che, se Mosca confermerà il sostegno, Pechino non si spingerà fino ad opporre il veto. «Americani e cinesi stanno trattando - spiega una fonte diplomatica al Palazzo di Vetro - solo se troveranno l’accordo l’Onu sarà una via percorribile, altrimenti si andrà al "piano B"» ovvero l’adozione di sanzioni anti-pasdaran da parte di una coalizione di singole nazioni.
Al fine di sostenere l’offensiva diplomatica a New York, la Casa Bianca apre un secondo fronte a Ginevra, dove chiede che il Consiglio Onu sui Diritti Umani discuta le «gravi violazioni avvenute dal 1979» con «numerosi cittadini arrestati, gasati, fucilati e picchiati». A comprendere l’accelerazione in atto è il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, secondo cui «è arrivato il tempo delle sanzioni».
Cosa dice la bozza
L’Amministrazione Obama sta facendo circolare fra Paesi alleati e membri del Consiglio di Sicurezza la lista di un centinaio di aziende iraniane da colpire con le nuove sanzioni. La bozza prevede, secondo indiscrezioni trapelate dal Palazzo di Vetro, un preambolo sul mancato rispetto delle tre precedenti risoluzioni in cui si chiedeva lo stop al programma nucleare, indicando poi nella lista delle aziende l’ossatura del potere economico dei «Guardiani della rivoluzione», la milizia che gestisce e sorveglia gli impianti nucleari. Le sanzioni mirano ad impedire transazioni finanziarie con queste aziende o fondazioni e a colpire un numero consistente di comandanti e ufficiali dei pasdaran, impedendo loro di spostare somme di danaro o viaggiare all’estero.
La STAMPA - Claudio Gallo : " L'onda verde sfida le minacce del regime "

Dopo dieci giorni di rulli di tamburo siamo arrivati al 22 Bahman, la festa della rivoluzione islamica in Iran: l’opposizione ha giurato che oggi si riprenderà la piazza. I leader hanno moltiplicato gli appelli a manifestare contro il regime «che ha tradito la rivoluzione», come ha detto l’oppositore Mousavi. Le istituzioni hanno moltiplicato le minacce: arresti a raffica e promesse di fracassare le teste, di usare le armi. Rivedremo i corpi contorcersi a terra e il sangue arrossare l’asfalto, come durante i tumulti della festa dell’Ashura a fine dicembre, quando la polizia uccise una decina di persone?
Ieri a Teharan operai rimuovevano i poster di Khomeini, Khamenei e Ahmadinejad, nel timore che i manifestanti li potessero bruciare. Tra piazza Imam Hossein e piazza Azadi hanno piazzato altoparlanti a cavo e wireless per trasmettere slogan filo-regime. Microtelecamere sono state nascoste tra i manifesti e gli striscioni per individuare chi cercasse di sabotarli, come acaduto in passato. Ieri notte nelle principali città, dai tetti si levava il grido «Allahu Akbar» e «morte al dittatore».
Anche i sostenitori del governo sciameranno in massa per le strade. A Teheran il regime ha occupato le principali arterie del centro per accogliere le sue truppe cammellate, che arriveranno anche da fuori con i pullman per fare massa. Tutti a sentire il discorso del presidente Ahmadinejad in piazza Azadi. Davanti alla mole in marmo bianco di Esfahan della torre della Libertà. L’opposizione dovrà accontentarsi di sfilare nelle vie laterali. Il rischio che le due piazze si scontrino è molto concreto. Gli agenti ieri sera stavano già sistemandosi nei punti nevralgici, blindati con cannoni ad acqua erano in posizione. Il capo della polizia Esmail Ahmadi-Moghaddam ha dichiarato: «Stiamo sorvegliando molto attentamente i movimenti di sedizione. Molti individui che si preparavano a sabotare i festeggiamenti di oggi sono stati arrestati. Siamo pronti a ogni possibile incidente». Una fonte anonima della polizia diceva nei giorni scorsi che ci si aspetta la presenza di tre milioni di persone. «La più grande manifestazione della storia iraniana», smitraglia Twitter.
Per l’occasione il regime avrebbe invitato trecento reporter stranieri di un centinaio di testate, togliendo il bando ai giornalisti tacitamente in vigore negli ultimi tempi. L’indiscrezione di un funzionario ministeriale, ripresa da Al Arabiya, spiega meglio: «Ai reporter e ai fotografi sarà permesso di coprire solo il discorso del presidente Ahmadinejad e non le tradizionali marce attraverso la città». Un divieto inedito nei trentun anni della Repubblica islamica. Fonti dell’opposizione smontano la storia dei testimoni stranieri come «un’invenzione». Saranno pochi i giornalisti iraniani a poter raccontare la giornata di oggi. Reporter sans Frontieres dice che 400 hanno abbandonato il paese dal 2009, duemila sono disoccupati, 65 in prigione.
Tra i leader verdi l’unico che finora ha annunciato ufficialmente la sua presenza in piazza è il riformista Mehdi Karroubi. Ha detto che alle 10 sarà in piazza Sadeghieh e confluirà su piazza Azadi. Una fonte del sito «Enduring America» dice che anche Mousavi si unirà ai manifestanti: per ragioni di sicurezza non comunica né il posto né l’ora. In un incontro con un gruppo di studenti il leader verde ha detto, riferendosi alle accuse del regime: «Il movimento verde non permetterà interferenze straniere nei suoi affari». L’ex presidente Mohammad Khatami non ha rivelato se ci sarà, ma anche lui ha chiesto «di essere presenti con il comune intento di difendere la rivoluzione e i diritti del popolo». È facile che i leader riescano appena a farsi vedere, subito bersagliati dai basiji.
Nelle ultime ore della vigilia, la battaglia è già scoppiata su Internet. L’«Iranian Cyber Army», hacker filo-regime (magari, di regime), ha spedito mail di minaccia a vari siti tra cui quello italiano della Aki-Adnkronos International. Ieri è circolata la notizia che il governo avesse chiuso G-Mail, il servizio di posta elettronica di Google per sostituitlo con uno nazionale. Mancano però le conferme ufficiali. È certo invece che oggi il Web iraniano sarà paralizzato e i cellulari non funzioneranno.
CORRIERE della SERA - Guido Olimpio : " Gli uomini di Fedat, la centrale segreta che studia la Bomba "

WASHINGTON — Un network composto da un gran numero di impianti per la ricerca, sparpagliati e ben mimetizzati, ma pilotato da un sistema di controllo/comando centralizzato. Le ultime analisi dell’intelligence occidentale sul programma atomico iraniano si concentrano su un «ufficio» conosciuto come Fedat. E’ questo organismo che gestisce il lato segreto del progetto di Teheran. Un apparato parallelo a quello del Consiglio Nazionale per l’energia, l’ente che sostiene di condurre studi a fini pacifici.
Sempre Fedat — secondo quanto rivelato da fonti asiatiche — segue le ricerche in campo missilistico. Nel corso di un recente test, gli iraniani avrebbero lanciato un missile che è la copia del nordcoreano «Rodong». Un ulteriore segnale di come la collaborazione tra Teheran e Pyongyang continui in modo intenso.
Per gli analisti statunitensi alla guida di Fedat c’è Mohsen Fakhrizadeh. Ufficiale dei pasdaran, professore universitario, è damolti considerato come la testa pensante dell’«operazione Bomba» o, meglio, del cosiddetto Progetto 111. E secondo gli oppositori Fakhrizadeh è anche responsabile dell’attività clandestina condotta in coordinamento con il Ministero della Difesa. Un ruolo ridimensionato, invece, da alcuni osservatori indipendenti, i quali ritengono che l’ufficiale non sia così importante e parlano di «propaganda anti-iraniana».
Altra figura è quella di Kamran Daneshjoo, attuale ministro della Scienza. Ritenuto un fedelissimo del presidente Ahmadinejad, attestato su posizioni radicali, il «gerarca» è stato al centro di una vicenda imbarazzante. Nella sua biografia ufficiale si dice che ha studiato ingegneria a Manchester ma ambienti del dissenso lo hanno accusato di aver copiato la tesi di un sudcoreano. Il governo ha replicato sostenendo che si tratta di calunnie. Fonti tedesche sospettano che Daneshjoo sia un elemento chiave e sottolineano come abbia lavorato presso il Centro della tecnologia aeronautica, altra «scatola» che racchiude scienziati coinvolti nella ricerca atomica.
Il network dispone, infine, di una propria linea di rifornimento con emissari in grado di acquisire materiali all’estero. Intermediari che agiscono tra gli Emirati, la Malaysia, Taiwan, i Paesi dell’Unione Europa (compresa l’Italia) e persino gli Stati Uniti. L’ultimo episodio risale al 4 febbraio quando il Dipartimento per la giustizia statunitense ha annunciato l’arresto di Yi Lan Chen, alias Kevin Chan. Usando una società basata in California e alcune ditte con punti di appoggio in Asia, Mr Chen ha esportato tecnologia «doppio uso», ossia suscettibile di impiego civile e militare. Le indagini hanno accertato che i veri clienti erano istituzioni — come il Centro ricerche Jahad e l’impresa Electro Sanam — impegnate nello sviluppo di armi strategiche per conto del Ministero della Difesa iraniano.
Il problema — ammettono a Washington — che per un «pesce» che finisce nella rete ve ne sono decine di altri in libertà. E in caso di nuove sanzioni sono pronti a rispondere all’appello di Teheran. Tanto a loro interessano solo i dollari e ne possono fare a palate.
Il FOGLIO - Tatiana Boutourline : " Il regime sempre più isolato prepara la tomba della sedizione"

Ahmadinejad
Roma. In Iran non c’è niente di neutrale. La bomba, l’uranio arricchito al 20 per cento, le sanzioni, l’occidente colpevole e gli anniversari. Il regime crede di poter tirare i fili come vuole. Teheran strilla per bocca di Ali Khamenei e Mahmoud Ahmadinejad e poi, secondo uno dei suoi schemi più rodati, affida una parziale smentita a un suo funzionario, concedendo che l’accordo di Ginevra può ancora essere salvato. Ma a Washington anche l’Amministrazione che più di ogni altra “si è fatta in quattro” per dialogare con l’Iran riconosce che il dialogo non ha dato frutti e il presidente americano, Barack Obama, invoca “sanzioni significative” in tempi brevi, impone già misure contro le Guardie della Rivoluzione, consapevole – come lo è anche Franco Frattini, ministro degli Esteri, che ieri ha ribadito la necessità delle misure economiche – che il nodo più ostico da sciogliere resta quello cinese. Nel frattempo a Teheran la commemorazione della Rivoluzione va in scena oggi e la città è paralizzata da un senso di inevitabilità. Gli appelli e le minacce, i divieti, le canzoni, i cartelli e le poesie, tutto rimanda a qualcos’altro in un parossismo simbolico che tende a suggerire, a torto o a ragione, l’imminenza di un grande appuntamento con la storia. Quest’anno più di ogni altro è difficile rimanere indifferenti, il 22 di Bahman. All’allegoria non si sfugge nemmeno nell’oscurità del teatro Shahr di Teheran. In queste settimane il gruppo teatrale Piadeh presenta “Vita di Galileo”. La scenografia è essenziale, la luce sapiente. Gli occhi degli spettatori convergono su Galileo che domina la scena e invita a guardare al cielo con occhi nuovi, mentre una ghigliottina sulla destra del palco materializza oscuri presagi. “Abbiamo voluto puntare l’accento sul contrasto tra la logica e l’ignoranza, la modernità e l’arretratezza”, ha spiegato il regista Dariush Farhang, precisando, con una punta di gigantismo persiano, di non amare le “opere inerti” e di aver preso in considerazione le “aspirazioni dei nostri tempi”. In questa “Vita di Galileo” c’è poco Bertolt Brecht e molto Ahmad Shamlu. Quando uno dei protagonisti prende a prestito i suoi versi e proclama: “Io non ho paura della morte in una società dove lo stipendio di un becchino è più alto della dignità e dell’onore di un essere umano”; quando Galileo incontra il Papa e, sempre attraverso la voce del poeta-dissidente Shamlu, vaticina: “Questa neve continuerà a scendere”, nella platea scoppia un applauso fragoroso, lo scienziato pisano è lontano e tutti si domandano se questo sarà un Bahman di neve o di fuoco. “Bahman”, l’armonia e la valanga Per gli zoroastriani “Bahman” era il tempo della buona morale, dell’armonia che guida l’individuo verso i pensieri giusti e le azioni rette e nella loro cosmogonia Vohu Manah (Bahman) è una delle sei scintille divine di Ahura Mazda, ogni scintilla rappresenta una fattezza del creato e il dieci del mese si festeggia il Sadeh, la festa del fuoco. Per la Repubblica islamica Bahman è semplicemente il mese del trionfo della Rivoluzione, la ricorrenza cade il 22 del mese, l’11 di febbraio, e la data è onorata anche sulla bandiera con 22 iscrizioni stilizzate di “Allah-o-Akbar”. Ma nel farsi contemporaneo “bahman” significa anche valanga, e il richiamo di Galileo alla neve ha il sapore di una premonizione per chi è seduto nelle poltrone del teatro Shahr, uno dei primi luoghi banditi dai tribunali dell’inquisizione khomeinista. Ma chi travolgerà la neve se valanga sarà? Nell’annus horribilis del regime gli anniversari non hanno portato bene. Non c’è stata occasione in cui la Repubblica islamica sia riuscita a dimostrare che i disordini post elettorali sono un capitolo chiuso. Oggi la polizia di Teheran si prepara a fronteggiare 3 milioni di manifestanti ostili. Le indiscrezioni parlano di 500 mila fedeli del regime piovuti da tutto il paese sulla capitale. Migliaia di persone sono state fermate, schedate, minacciate. Basta un gesto, una parola fuori posto. Le maglie della repressione sono sempre più larghe. Non bisogna più essere attivisti politici, intellettuali riformisti o giornalisti. I cancelli delle prigioni si aprono per molto meno, è sufficiente essere dei simpatizzanti, dei fratelli o delle madri. Se si evita il carcere l’avvertimento è perentorio: lontani da Teheran il 22 di Bahman o le conseguenze saranno estreme. Nella capitale le connessioni internet funzionano a singhiozzo, così come gli sms. Gli informatori del regime si sono insinuati nei social network e nelle università non c’è riunione in cui occhi febbrili non si scrutino gli uni gli altri alla ricerca di delatori. Le moschee sono un terreno di scontro come un altro e gli ayatollah ribelli si stanno abituando alle minacce, alle incursioni e agli arresti. Per difendere la sacralità della commemorazione rivoluzionaria lungo tutto il percorso che unisce piazza Imam Hossein a piazza Azadi, sulle grandi arterie di viale Azadi ed Enghelab sono state piazzate telecamere a circuito chiuso e altoparlanti. “Sarà la tomba della sedizione”, ha annunciato il generale Ahmad Reza Radan, certo che gli occhi e le orecchie dell’ayatollah Khamenei saranno capaci di dissuadere le velleità dei manifestanti. Le riprese consentiranno alle forze di sicurezza di fermare “terroristi e hooligan”, gli amplificatori annegheranno le loro voci nei roboanti cori revolutionary-correct. Per alimentare l’inquietudine, indiscrezioni provenienti dal comando della polizia di Teheran parlano di tecnologie avanzate in grado di riconoscere gli elementi nemici anche se bendati e mascherati. Chi ha deciso di sfidare la furia dei bassiji non si fermerà davanti alle voci, chi sta per scendere in strada rileggerà il vademecum della polvere (“siete polvere e spazzatura”, sentenziò Ahmadinejad a giugno a proposito della piazza) perché manifestazione dopo manifestazione si affinano le tecniche del regime, ma anche quelle dei suoi contestatori. Il decalogo parte con il kit di sopravvivenza: maschera, occhiali scuri, cappello, vestiti comodi e scarpe sportive per correre più forte che mai, niente armi, ma curcuma per curare le ferite e fazzoletti imbevuti di aceto conservati dentro una borsa del ghiaccio per resistere ai lacrimogeni. I rinforzi arrivati dalle province avranno atteso la notte della vigilia nelle basi limitrofe alla piazza. Ora della mattina alcuni saranno carichi di adrenalina, molti altri saranno semplicemente ragazzi tesi, spaesati e stanchi. Per piegarli – suggerisce il decalogo – bisognerà tentare di dilatare i tempi. Impedire ad Ahmadinejad di salire sul podio per il suo discorso è la missione impossibile dei rivoltosi di Bahman, ma disturbare la recita della solidarietà nazionale offerta in pasto alla tv di stato sarebbe un risultato eccellente. Mir Hossein Moussavi, Mehdi Karroubi e Mohammed Khatami, ribelli di palazzo attenti a dondolarsi sul confine dell’ortodossia costituzionale, hanno invitato il popolo verde a scendere per strada. Sempre in bilico tra la riscoperta degli “autentici” valori khomeinisti e un furtivo abbraccio alle istanze più radicali, non perdono il vizio di lanciare il sasso e poi nascondere la mano, perché dietro le quinte si continua a mercanteggiare solleticando le ambiziosi di quanti nel sistema auspicano di cambiare i giocatori, ma non le regole del gioco. Il 22 di Bahman però tutti si arroccano sulle proprie posizioni come se il destino della Repubblica islamica si decidesse nel perimetro intorno a piazza Azadi e alla sua torre. E invece il futuro dell’Iran nasce in luoghi come Birjand nel Khorasan, regione di mistici e poeti che si apre verso l’Afghanistan. A Birjand tutti si conoscono. Mohammed e Hamed, ex compagni di scuola, continuano a incrociarsi e a scambiarsi qualche parola. L’estate scorsa non si poteva non parlare delle elezioni. A luglio Hamed si professava certo della regolarità del voto, Mohammed, invece, era disinteressato. Ma a settembre Mohammed è un altro. Ha iniziato a frequentare gli “incivili”. Di ritorno a Birjand ha cercato di conquistare amici e conoscenti alla causa della ribellione. Era prudente, soprattutto davanti a Hamed che era “uno di loro”, ma un giorno dopo una passeggiata insieme non si è potuto trattenere. Hamed ha difeso il suo mondo, ma poi è tornato da Mohammed scuro in volto. Le immagini delle violenze per mano dei suoi compagni bassiji lo hanno stravolto. I due si perdono ancora di vista, ma il 7 dicembre, quando Mohammed cerca di resistere in piazza agli assalti della polizia di Birjand, intravede il viso di Hamed a pochi metri da sé e si accorge che è al suo fianco “contro di loro”. Sembra una favola edificante per blog antiregime, ma è una storia vera documentata dal Los Angeles Times. La bomba a orologeria che minaccia il cuore del regime ticchetta in tutte le Birjand d’Iran perché per Khamenei la platea di “Vita di Galileo” a Teheran è quasi una causa persa e chi rischia di stravolgere il destino dell’establishment sono tanti altri Mohammed e Hamed, chi minaccia il sorriso di Ahmadinejad sono gli operai che protestano e chiedono condizioni di lavoro decenti, ma per ora non rispondono agli appelli per uno sciopero generale, e i bazaari che resistono all’imponderabile per non perdere quel che resta dei loro privilegi. Tra poche ore ripartirà il lamento di quanti per credere in un altro Iran devono trovare prima un uomo della provvidenza e si ricomincerà con la conta della piazza, come fosse possibile equiparare coloro che inneggiano alla rivoluzione con i fucili a favore e coloro che la sfidano a mani nude. Torna in mente il Galileo di Brecht, quando il figlio Andrea, deluso dall’abiura esclama: “Sventurato il paese che non ha eroi”, e Galileo gli risponde: “Sventurato il paese che ha bisogno di eroi”.
La REPUBBLICA - Anais Ginori : " La rivolta dei diplomatici in 27 chiedono asilo politico "

Mohammed Reza Heydari
IL DIPLOMATICO riluttante è rimasto senza passaporto, vive sotto scorta, aspettando che il governo norvegese si pronunci sulla richiesta di asilo politico.
Fino a un mese fa, Mohammed Reza Heydari era il console iraniano a Oslo. Funzionario modello - venti anni di onorata carriera al servizio di Teheran- si è dimesso il 7 gennaio, pochi giorni dopo gli scontri nei cortei dell'Ashura. «La mia coscienza - spiega - mi ha impedito di continuare a servire il regime».
È stato il primo diplomatico iraniano a dissociarsi pubblicamente in modo così clamoroso da Teheran. Potrebbe essere il primo di una lunga lista. Almeno così sostiene. Spera infatti di far nascere un nuovo movimento di "Ambasciate Verdi", dal colore del partito di Mir Hossein Moussavi, leader dell'opposizione. Nelle ultime settimane, Reza Heydari dice di essere stato contattato da ventisette colleghi che, come lui, vorrebbero chiedere asilo politico.
Nel gruppo di diplomatici dissidenti ci sarebbero anche Ali Akbar Omidmehr, l'attuale ambasciatore iraniano in India, Pakistan e Afghanistan e Abdolfazl Esalmi, consigliere presso la rappresentanza di Tokyo. Quest'ultimo avrebbe già scritto la sua lettera di dimissioni, invitando gli altri dipendenti dell'ambasciata a prendere le distanze dall'attuale regime.
Prima di essere nominato in Norvegia, tre anni fa, Reza Heydari è stato inviato in Georgia e Germania. Per molto tempo, racconta, ha cercato di rappresentare all'estero il suo paese con «dignità e lealtà». «Servo il mio popolo, non il regime» ripeteva. Poi le frodi e la repressione durante le elezioni di giugno hanno messo in crisi il suo spirito di servizio. Le vittime in piazza durante gli scontri del 27 dicembre lo hanno definitivamente convinto che doveva uscire allo scoperto. Non poteva più tacere o schivare le domande, come ogni bravo diplomatico sa fare.
«Molti altri colleghi non approvano l'attuale regime ma scelgono il silenzio. Hanno paura di eventuali ritorsioni, soprattutto quando hanno parenti che vivono in Iran». Reza Heydari nota che, negli ultimi tempi, non ci sono molte interviste e dichiarazioni dei diplomatici iraniani in Occidente. Insiste.
«La dissidenza sta covando».
Il ministro degli Esteri, Manoucher Mottaki, ha inviato tre emissari fino a Oslo per cercare di rabbonirlo. «Mi hanno chiesto di smentire tutto e tornare nei ranghi». Lui non ha ceduto.
Gli è stato tolto il passaporto, ha dovuto traslocare con la moglie e i due figli dall'appartamento di rappresentanza e chiedere asilo politico. «In Iran la mia vita sarebbe in pericolo». Le autorità locali garantiscono adesso la sua sicurezza. Oggi, nell'anniversario della rivoluzione iraniana, terrà un discorso parlare davanti al parlamento norvegese. Questa volta, assicura, non parlerà più da diplomatico. Ma da uomo libero.
La REPUBBLICA - Arturo Zampaglione : "Pipes: Per le pressioni è tardi l'unica via d'uscita è attaccare "

Daniel Pipes
NEW YORK - «L'inasprimento delle sanzioni contro l'Iran è solo una mossa di pubbliche relazioni», polemizza Daniel Pipes, direttore del Middle East forum e personaggio di punta dei neocon americani. «Forse cinque anni fa sarebbe servito a qualcosa, oggi no: è troppo tardi. L'unica vera scelta è se accettare che Teheran possieda armi nucleari, o se distruggere preventivamente i suoi impianti». Da vero "falco", Pipes è naturalmente in favore dell'opzione militare. E in un pezzo scritto di recente (e ripubblicato sul sito di Die Welt) ha suggerito a Barack Obama di imboccare questa strada, in modo anche da recuperare il consenso dell'opinione pubblica americana dopo la sconfitta elettorale nel Massachusetts.
Una boutade, certo. Un consiglio provocatorio, visti gli indirizzi di politica estera della Casa Bianca.
Ma dietro alle posizioni di Pipes ci sono anni di ricerca, una ventina di libri e una interpretazione delle dinamiche mediorientali con cui è importante fare i conti, anche per chi non si riconosce nell'ideologia neocon.
Signor Pipes, cominciamo dall'ultimo round di sanzioni su cui lavora la Casa Bianca: perché è così scettico? «Perché non otterrà risultati concreti. Nessuno si illude che il regime di Teheran si impaurisca a tal punto da fare marcia indietro sul programma nucleare. E la stretta economica non sarà sufficiente a imporre una sommossa popolare contro gli Ayatollah. Lo scopo delle sanzioniè un altro: far finta di fare qualcosa per arginare l'Iran. In questo senso mi ricorda le mosse di George Bush senior alla vigilia della prima guerra del Golfo, quando mandò il segretario di stato James Baker a parlare con l'iracheno Tareq Aziz: anche quell'incontro non servì a nulla».
Ma contribuì a solidificare la coalizione internazionale contro Saddam Hussein. Bush junior, invece, procedette unilateralmente indebolendo le alleanze militari e diplomatiche degli Stati Uniti. Le sanzioni che vuole Obama non potrebbero accelerare una risposta multilaterale? «Ripeto: adesso è tardi per balletti del genere. L'unica vera scelta è se accettare l'atomica iraniana o bombardare gli impianti segreti di Mahmoud Ahmadinejad». Analizziamone i rischi. Che succederebbe nel primo caso? «Innanzitutto verrebbe creato un precedente: tutti i paesi saprebbero che si possono violare impunemente i trattati di nonproliferazione. Poi altri stati arabi tradizionalmente avversari dell'Iran, come l'Egitto e l'Arabia Saudita, sarebbero spinti ad avere un arsenale atomico. Un altra pericolosa conseguenza? Incoraggerebbe la leadership iraniana verso iniziative destabilizzanti, come un maggiore aiuto a gruppi terroristici. E non dimentichiamoci, naturalmente, che Teheran potrebbe usare veramente le sue bombe, ad esempio facendole esplodere nei cieli europeio americani per distruggere le infrastrutture elettriche con una onda elettro-magnetica e farci tornare all'età della pietra».
Ma anche un'azione militare contro l'Iran non sarebbe una passeggiata. «Non c'è dubbio. Ed è per quello che i piani del Pentagono sono top secret e che i generali israeliani, a differenza del governo di Gerusalemme, sembrano molto cauti. I rischi maggiori: 1) che il popolo iraniano si schieri con il regime per ragioni nazionalistiche; 2) che Teheran risponda con una guerra a Israele, o bloccando lo stretto di Hormuz, o con una offensiva terroristica; 3) che il prezzo del petrolio vada alle stelle, magari superando i 200-300 dollari al barile».
Non sono conseguenze da prendere a cuor leggero.
«Tutt'altro. Ma la responsabilità è nostra: se avessimo agito con più decisione cinque anni fa, non ci troveremmo oggi in questa impasse. Insisto: la colpa è di tutti, a cominciare dai tedeschi e da voi italiani che avete sempre condannato a parole le violazioni dei diritti umani di Teheran, continuando poi a ottenere commesse e sviluppare il commercio».
Al di là delle sue riserve, come dovrebbero essere strutturate le nuove sanzioni per avere il maggior impatto impossibile? Teme una opposizione della Cina? «In teoria le sanzioni dovrebbero colpire il regime, risparmiando la popolazione iraniana che appare sempre più in rotta di collisione con gli Ayatollah. La Cina rappresenta un duplice problema: da un lato ha potere di veto nel Consiglio di sicurezza, dall'altro sembra interessata solo ai suoi legami economici senza alcun interesse per i risvolti etici».
La STAMPA - Domenico Quirico : " Pronti a morire. La Rivoluzione è forte come all'inizio "

Mohsen Makhamalbaf
L'ondata verde non rifluisce, Ahmadinejad cadrà prima della fine del suo mandato, e le sanzioni occidentali possono svolgere un ruolo chiave»: Mohsen Makhamalbaf, il regista di «Viaggio a Kandahar», portavoce ufficioso all'estero del leader dell'opposizione Mousavi, è fiducioso sulla nuova sfida che la rivoluzione delle strade di Teheran porta al regime.
La rivoluzione verde torna in piazza. Qual è la forza dell’opposizione iraniana?
«Sono rimasto 5 anni nelle carceri dello Shah e mi hanno torturato, eppure il regime islamico di oggi è ben peggio. 31 anni fa, quando hanno rovesciato il regime di Reza, gli iraniani cercavano libertà e socialismo. Non solo non sono riusciti a raggiungere i loro scopi, hanno pure perso la libertà privata. Nel 1979 la popolazione era di 50 milioni e adesso stiamo sui 70. La maggioranza degli iraniani è sotto i 30 anni, vogliono un lavoro, vita migliore e libertà. Hanno votato per cambiare la situazione. Otto mesi dopo le elezioni la gente manifesta ancora, è pronta a morire. Dopo otto mesi, la rivoluzione verde è potente come nei primi giorni».
Hossein Mousavi è ancora la figura centrale dell’opposizione ?
«Sì, è il primo e principale dirigente della rivoluzione verde. Nella sua ultima dichiarazione ha detto che non c’era differenza tra oggi e trentuno anni fa, c’è sempre una dittatura».
Quali sono i pilastri del potere di Ahmadinejad ?
«Khamenei e i Guardiani della rivoluzione. Però l’80 per cento dei Guardiani appoggia in segreto Mousavi. Il resto è con Ahmadinejad e con i soldi del petrolio. Dalla parte della rivoluzione verde, però, abbiamo nazione e popolazione. Prima delle elezioni truccate, nessuno sapeva che gli iraniani non volevano questo governo. E poi adesso, la gente in Iran non ha più paura».
Lei pensa che sia possibile ottenere l’adesione dei pasdaran, che sono divisi?
«Sostegno, sì, prima o poi, però non so quando. Bisogna vedere cosa succederà durante le manifestazioni».
Saranno molti in piazza?
«Sì, certo. Ma il governo ha previsto di raccogliere gente fuori Teheran e portarli nella capitale per far vedere che ha sostenitori. In realtà, la maggior parte di loro sono soldati che verranno a manifestare per il governo, in borghese. Perché sono soldati e devono obbedire».
Pensa che la rivoluzione verde abbia una chance di abbattere Ahmadinejad ?
«Sì, è molto probabile che non completi il mandato. Le sanzioni possono avere un ruolo chiave adesso e nel futuro».
Ma se verranno davvero decise, non rischiano di colpire soprattutto la popolazione?
«L’Iran può scegliere di aspettare e perdere la vita sotto il regno di dittatori, o rischiare di essere attaccato come l’Iraq e l’Afghanistan, o accettare piccole sanzioni. Le sanzioni devono essere rivolte contro i Guardiani della rivoluzione, il governo, e meno contro la popolazione. Ma un ruolo chiave avranno quelle sul petrolio».
La strategia nucleare dell’Iran è una sfida alla comunità internazionale o un modo per consolidare un consenso interno?
«Il regime ha bisogno della bomba perché non ha più sostenitori. E ha bisogno di aver nemici per non cadere. I nemici sono gli Stati Uniti, i Paesi occidentali e Israele. La sua strategia è accettare negoziati e poi alla fine rispondere no. E così all’infinito. Perché anche se vogliono a tutti costi fare la bomba, hanno paura delle reazioni dei paesi occidentali e di Israele».
Il GIORNALE - Rolla Scolari : " Il dissidente "

Ebrahim Nabavi
«Il popolo non ha nulla a che vedere con i recenti attacchi all’ambasciata italiana a Teheran e la ferma posizione di Roma sulle sanzioni all’Iran per il suo programma nucleare «può servire». Ne è convinto Ebrahim Nabavi, scrittore e autore di satira iraniano, in esilio in Belgio a causa della sua penna (in Italia è uscito il suo Iran. Gnomi e giganti, paradossi e malintesi). Dietro all’assalto alle sedi diplomatiche, dice al Giornale, ci sono i basiji, milizia legata al regime, e l’obiettivo degli attacchi è interno: rinvigorire il fronte antioccidentale nel Paese.
Che cosa pensa dell’assalto all’ambasciata italiana a Teheran e degli slogan contro il Paese dopo la visita di Silvio Berlusconi in Israele?
«Attaccare le ambasciate dei Paesi stranieri, dopo l’assalto alla sede diplomatica americana nel 1979, è diventata una tradizione rivoluzionaria. I recenti attacchi non hanno niente a che fare con la popolazione: sono stati i basiji per fare pressioni sull’Europa e rendere più forte «l’onda antistranieri».
Qual è il motivo dell’attacco?
«Non il viaggio di Berlusconi in Israele. Lo stesso giorno, altre sedi diplomatiche sono state attaccate. L’obiettivo è la risoluzione dei problemi interni».
Come reputa la posizione dell’Italia, che insiste sull’imposizione di sanzioni?
«È una posizione che può servire. Da un lato, i pasdaran, per ordine del governo, attaccano ambasciate; dall’altro, il governo accetta le proteste occidentali e cerca di bloccare gli assalti. Il regime tenta di provare che dietro ai problemi interni ci sono gli stranieri»
Che cosa pensa delle sanzioni?
«Se le sanzioni hanno come obiettivo il governo sono efficaci. Non sono d’accordo con sanzioni che raddoppiano i problemi della popolazione. Purtroppo, voi europei non siete severi con l’Iran: da una parte pensate a sanzioni; dall’altra lo corteggiate».
Il movimento verde è ancora attivo nonostante gli arresti e le sentenze di morte?
«Domani (oggi, ndr) ci saranno più di due milioni di “verdi” in piazza. Il movimento, nonostante gli arresti e le sentenze di morte, è pronto a dimostrare la sua grande vitalità».
Manca un leader carismatico?
«Il movimento verde ha migliaia di leader intelligenti e saggi. Il motivo per cui è sempre vivo è proprio perché tutti sono leader e se uno viene arrestato si può andare avanti».
Chi sono le «vittime» della sua satira?
«Le mie ultime “vittime” sono state Ahmadinejad e l’ayatollah Khamenei. Ho scritto sugli assalti all’ambasciata: “I basiji hanno attaccato l’ambasciata italiana e dopo quattro ore di sforzo e fatica sono riusciti a staccare tre chiodi della placca via Roma”».
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