Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 05/02/2010, a pag. 17, il commento di R. A. Segre dal titolo " A Gerusalemme sperano nell’Italia mediatrice ". Dal CORRIERE della SERA , in prima pagina, l'editoriale di Angelo Panebianco dal titolo " Divorzio atlantico ", a pag. 6, l'intervista di Alessandra Farkas a Shirin Ebadi dal titolo " Le sanzioni non servono, bisogna isolare il regime ", a pag. 5, la cronaca di Cecilia Zecchinelli dal titolo " Visita in Israele, l’Iran attacca Berlusconi ". Dal FOGLIO, a pag. 3, l'editoriale dal titolo " Il risentimento di Teheran ". Ecco i pezzi:
Il GIORNALE - R. A. Segre : " A Gerusalemme sperano nell’Italia mediatrice "

R. A. Segre
La telefonata del mio amico Shilo arriva dall'insediamento ebraico di Bel El, vicino a Ramallah. Mi chiede: Berlusconi fa sul serio? Quattro parole che riassumono la meraviglia e la preoccupazione create dallo shock psicologico e politico su Israele e, per estensione, sul mondo arabo e internazionale provocato dal viaggio del premier italiano.
Incominciamo da Israele. Bisogna tener conto delle complesse conseguenze che genera una guerra infinita - terrorismo crudele, isolamento psicologico, preoccupazione di sopravvivenza, tentativi di delegittimazione, necessità spasmodica di essere compresi - per misurare l'effetto Berlusconi. Il cielo non è crollato quando ha detto che Israele dovrebbe essere ringraziato per il solo fatto di esistere, sola democrazia nel Medio Oriente. Quando, denunciando il rapporto Goldstone dell'Onu, ha dichiarato che la risposta militare israeliana ai missili di Gaza era giustificata. Quando ha ricordato con parole di sincerità e affetto che gli israeliani non erano più abituati a sentire il pericolo di un nuovo Olocausto che l'Europa deve ricordare.
Scegliendo di parlare al cuore di Israele in maniera fraterna, opposta a quella insultante scelta dal premier turco Erdogan, si è costruito un ruolo di mediatore che altri hanno bruciato. Ruolo che Berlusconi può assumere perché è oggi l’unico capace di strappare concessioni a Netanyahu dopo il plauso che ha ricevuto tanto dalla destra che dalla sinistra israeliana.
I palestinesi lo hanno capito. Hanno ingoiato quasi senza reagire il riconoscimento indiscusso di Berlusconi per l’esistenza e la legittimità dello Stato ebraico; per la legittimità della risposta militare contro Gaza. Delusi dall’America e dall’Europa, sperano di trovare nell’Italia, militarmente e economicamente presente nel mondo arabo, un «mediatore» capace di farli tornare alla tavola del negoziato senza perdere la faccia. La critica alla estensione degli insediamenti su «territori che dovranno essere restituiti» è l’appiglio offerto loro da Berlusconi per aiutarli a scendere dall’albero su cui sono inutilmente saliti rifiutando ogni contatto col governo di Netanyahu.
Non a caso Berlusconi ha riparlato di Erice come luogo di possibile incontro. Perfino nella Gaza islamica sunnita si alzano voci per denunciare lo «sfruttamento» che l’Iran islamico sciita sta facendo della causa palestinese «per la quale non un iraniano è morto». Ma è a livello internazionale che il viaggio sta creando le onde più interessanti. Berlusconi ha smosso l'acquitrino stantio del conflitto mediorientale. Ha valorizzato a pieno la cassa di risonanza mediatica ebraica e del conflitto palestinese per rilanciare la sua l'immagine di leader internazionale, per sfruttare l'impotenza diplomatica dell'Europa, dell'America, dell'Onu e della Russia (i membri del Quartetto) nel conflitto mediorientale, per prendere la guida di una iniziativa europea per far uscire il conflitto dalla palude diplomatica in cui si è impantanato.
Washington ne è tanto più soddisfatta dal momento che Berlusconi, con le sue denunce dell’aggressività iraniana, ha dimostrato che non intende farsi influenzare dagli interessi economici italiani in Iran. Molto ora dipenderà dalla maniera in cui l'Europa, così stanca, divisa, così anti-israeliana nella sua intellighenzia sinistroide, così sprezzante delle capacità di statista del premier italiano, saprà riconoscere la porta che le ha aperto. Se si confronta il successo del viaggio di Berlusconi con quello di altri leader americani, europei e arabi c’è da rimanere stupiti. Israele lo è, ma si preoccupa che possa non aver seguito.
CORRIERE della SERA - Angelo Panebianco : " Divorzio atlantico "

Angelo Panebianco
La visita di Silvio Berlusconi in Israele non è stata solo un successo personale del premier italiano. Non ha soltanto ribadito agli israeliani (e ai loro nemici), ma anche all’opinione pubblica italiana, che il deciso schieramento dell’Italia a fianco del «più grande esempio di democrazia e libertà del Medio Oriente» rappresenta — come ha osservato giustamente Peppino Caldarola sul Riformista — la più forte discontinuità di politica estera fra i governi del centrodestra berlusconiano e tutti i precedenti governi italiani. Quella visita, che dà ulteriore forza alla posizione energica assunta sulle questioni della difesa di Israele e del nucleare iraniano dal cancelliere tedesco Angela Merkel, ha anche varie implicazioni di politica internazionale. Soprattutto, contribuisce a segnalare all’Amministrazione Obama che la distratta negligenza con cui il presidente ha trattato gli storici alleati europei dell’America nel suo primo anno di governo è stata forse uno dei suoi più gravi errori politici (da cui non sembra abbia voglia di emendarsi, come dimostrerebbe, se venisse confermato, anche il recente annullamento della sua visita in occasione del prossimo vertice, fissato per maggio, fra Unione Europea e Stati Uniti).
Noi europei, per lo più con ragione, siamo soliti lamentarci di noi stessi, della nostra incapacità di darci quel tanto di coesione necessaria per parlare al mondo con una sola voce (continua a mancare quel numero telefonico unico che Henry Kissinger non trovava quando voleva comunicare con l’Europa). E sappiamo che questo stato di cose durerà probabilmente ancora per generazioni, se mai finirà. Inoltre, è più che lecito, e anche Obama ha ragione a farlo, rimproverare gli europei per la loro mancanza di nerbo quando si tratta di concorrere con l’America a fronteggiare le minacce. I tanti «no», soprattutto tedeschi e francesi, alla disperata richiesta di Obama di un maggiore impegno in Afghanistan, stanno lì a dimostrare di quanta poca determinazione alcuni dei principali Paesi europei siano dotati quando ci sono in gioco questioni cruciali per la sorte del mondo occidentale, come il contenimento dell’islamismo radicale o la stessa sopravvivenza della Nato.
Detto tutto il male che si può dire dell’Europa, resta però il fatto che Obama, fin dai primi giorni del suo insediamento, ha probabilmente sbagliato i calcoli. Ha pensato che fosse ormai tempo di ridimensionare il peso e il ruolo di quella speciale «relazione transatlantica» fra Stati Uniti ed Europa, che è stata, per cinquant’anni, uno dei pilastri della stessa potenza americana nel mondo. Non si è reso conto che se andasse in pezzi la «comunità euro-atlantica», il declino americano, comunque in atto (un declino che spaventa tanti e rallegra tanti altri) potrebbe solo subire un’accelerazione.
Nonostante i suoi continui omaggi al multilateralismo, Obama è stato fin qui altrettanto «unilateralista» del suo predecessore Bush. Ha pensato che i vecchi alleati democratici fossero solo un ingombro, non un punto di forza, per le relazioni internazionali dell’America. Come ha osservato Robert Kagan in un recente scritto molto critico sull'attuale Presidenza, la svalutazione delle relazioni euro-atlantiche da parte di Obama discende, almeno in parte, da una visione che, volendo liquidare l'eredità wilsoniana (la tradizione di interventismo democratico che si fa risalire al presidente Woodrow Wilson) in tutte le varianti, assume l'alleanza e il rapporto privilegiato con le democrazie (europee, ma non solo) come non più vitale per gli interessi dell'America. Per Obama, nel suo primo anno di Presidenza, era invece vitale solo cercare intese realistiche con chiunque (persino all'Iran è stata tesa la mano, ed è stata ritirata solo perché gli iraniani l'hanno morsa) sulla base dell'irenico, e sbagliato, presupposto che sia sempre possibile mettersi d'accordo, trovare comunque una convergenza su interessi comuni. Gli esiti non sono stati fin qui brillanti. Il rapporto privilegiato che Obama pensava di stabilire con la Cina (il G2) non ha soltanto spaventato altri Paesi asiatici (come l'India), è anche stato privo di buoni frutti. I cinesi hanno detto «no» a tutte le richieste americane (il viaggio di Obama a Pechino fu per molti versi umiliante). Adesso fa la voce grossa (forniture d'armi a Taiwan, scontro su Internet, visita preannunciata del Dalai Lama a Washington), ma sapendo bene di non poter rompere con il principale creditore dell'America. L'indecisione strategica è evidente. Così come è evidente nel caso dell'Iran. Si è passati da una fase in cui, alla ricerca di chissà quali concessioni del regime iraniano, si scelse di non sostenere la rivolta popolare, a una fase in cui si torna a un atteggiamento duro e deciso (sperando che la Russia, ma soprattutto la Cina, non impediscano un'azione concertata della comunità internazionale contro il nucleare iraniano). La grande forza dell'America, dopo la seconda guerra mondiale, è sempre consistita nel fatto che, pur trattando e negoziando con le tirannie, essa non perdeva di vista l'importanza del suo rapporto privilegiato con le altre democrazie, europee in primo luogo. L'Amministrazione Obama sembra non averlo capito. Per giunta, e nonostante le tante magagne dell'Europa, quale altro vero alleato l'America potrebbe mai trovare per contrastare la minaccia del terrorismo islamico? Tenuto conto che l'Europa, per geografia, risorse e storia, è, da un lato, la più esposta al pericolo e, dall'altro, quella dotata della migliore expertise per muoversi con una qualche efficacia nello scenario mediorientale. Forse il declino della potenza americana è inarrestabile, come molti ritengono, a causa del deterioramento della forza economica che la sosteneva e dell'emergere di altre potenze. Forse, come pensano altri, non c'è nulla di già scritto, di predeterminato, in queste faccende. E' però plausibile aspettarsi un'accelerazione del declino se la dirigenza americana penserà di poter fare a meno di quel rapporto con l'Europa che per tanto tempo ha contribuito ad assicurare a noi la libertà e agli Stati Uniti il primato.
Il FOGLIO - " Il risentimento di Teheran "

Teheran ha reagito alle parole di Silvio Berlusconi in Israele con durezza e con una punta di risentimento inusuale, quasi a sottolineare: da voi italiani proprio non ce l’aspettavamo, non siete gli americani o peggio ancora i britannici, siete i nostri primi partner commerciali in Europa, abbiamo rapporti cordiali da decenni. Il risentimento è la dimostrazione che la visita in Israele di Berlusconi è stata importante e strategica, ha dato un messaggio forte e chiaro a tutti, alleati e non. La nota della tv di stato iraniana dice che il premier italiano “ha completato tutta la serie di servigi fatti ai padroni israeliani”, definendo giusta la guerra a Gaza – “calpestando così i cadaveri di 1.400 civili palestinesi uccisi l’anno scorso da Israele durante tre settimane di folli bombardamenti” – e rivolgendo all’Iran “tutte le accuse possibili, a partire da quella di voler sviluppare armi nucleari”. Berlusconi – continua la nota – “si è davvero superato definendo ‘esempio di democrazia e libertà’ il regime israeliano, nato con la forza bruta sulla terra altrui e che si è macchiato dei crimini più orrendi e che da tre anni ha assediato e murato un milione e mezzo di persone a Gaza”. Con la missione in Israele Berlusconi ha ribadito l’alleanza con Gerusalemme e la volontà di fare di tutto per impedire che Teheran si doti di una bomba atomica. Ha iniziato con un’intervista a Haaretz in cui sottilineava l’impegno dell’Italia a non laciare alla Repubblica islamica la possibilità di prendersi gioco della comunità internazionale e ha finito con il discorso alla Knesset in cui ha detto che non sono ammessi ulteriori cedimenti. Alle parole sono seguiti i fatti, e questo ha fatto imbestialire le autorità italiane. Il capo di Eni, Paolo Scaroni, ha dichiarato che non saranno stipulati contratti nuovi con Teheran: ce ne sono due ancora in essere, firmati anni fa, e saranno onorati, però non si creeranno altre opportunità di business con il regime. E’ quello che serve per isolare l’Iran, allineandosi con gli Stati Uniti, Israele, con i paesi europei come Germania, Francia e Inghilterra, superando in qualche modo la riottosità di Cina e Russia. Gli strepiti del regime iraniano non devono distogliere l’Italia dall’unica strategia praticabile contro il regime islamico.
CORRIERE della SERA - Cecilia Zecchinelli : " Visita in Israele, l’Iran attacca Berlusconi "
«Servigi fatti ai padroni israeliani». Anzi: «il completamento di tutta una serie di servigi» resi al Piccolo Satana da parte del presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi. È con la consueta retorica belligerante che la Tv di Stato della Repubblica Islamica, l’Irib, ha attaccato ieri l’intervento tenuto mercoledì dal premier italiano al Parlamento israeliano. «Berlusconi, che prima e durante la visita in Israele ha rivolto all’Iran tutte le accuse possibili ad iniziare da quella di voler sviluppare armi nucleari, alla Knesset si è davvero superato —, si legge nel sito in italiano della Tv —. Ha definito "esempio di democrazia e libertà" il regime israeliano, nato con la forza bruta sulla terra altrui e che si è macchiato dei crimini più orrendi e che da tre anni ha assediato e murato un milione e mezzo di persone a Gaza. Ma non è tutto, Berlusconi ha definito giusta la guerra contro Gaza e ha anche sventolato con orgoglio il no dell’Italia all’Onu al rapporto Goldstone che condannava i crimini di guerra israeliani a Gaza».
La forte irritazione di Teheran nei confronti di Berlusconi per il suo sostegno all'opposizione iraniana e a «sanzioni forti» in chiave antinucleare era già emersa mercoledì: Kazem Jalali, portavoce della commissione Esteri del Parlamento, aveva denunciato «l’aperta interferenza negli affari interni di uno Stato sovrano». E se nessun commento è arrivato da Teheran sulle altre parole di Berlusconi (Israele nell’Ue, Ahmadinejad come Hitler, drastica riduzione del business italiano in Iran), è evidente che i rapporti bilaterali sono a un passo dalla crisi diplomatica. I tempi in cui Ahmadinejad dichiarava che «l’Italia è un Paese amico, il più amico di tutti» sono lontani. Eppure quella frase risale solo al 2008, quando il presidente iraniano incontrò a Roma una delegazione di operatori economici e ricordò i lunghi anni di ottimi rapporti tra i due Paesi, a partire da Enrico Mattei.
«Noi siamo al servigio dei nostri valori e dei nostri ideali. Questi dicono che l’Olocausto è stata la più grande tragedia dell’umanità e che Israele è uno Stato libero e democratico che va difeso —, ha replicato ieri il ministro degli Esteri Franco Frattini —. Le reazioni dell’Iran mostrano la debolezza di un regime a cui abbiamo detto molte volte "vogliamo un negoziato serio". L'Unione Europea, gli Usa e i Paesi arabi continueranno a lavorare insieme per indicare che l'unica strada percorribile è quella del dialogo e della rinuncia al programma nucleare per scopi militari». In realtà, visto l’insuccesso di ogni negoziato con Teheran, la maggior parte dei Paesi occidentali (Italia compresa) punta ormai a varare nuove sanzioni Onu entro la fine di marzo. Impresa non solo dagli esiti incerti (l’Iran sopravvive da anni alle sanzioni) ma anche di difficile attuazione: ieri la Cina ha ribadito che punire in tal modo l’Iran sarebbe solo «controproducente».
CORRIERE della SERA - Alessandra Farkas : " Le sanzioni non servono, bisogna isolare il regime "


Shirin Ebadi, Alessandra Farkas
WASHINGTON — Il premio Nobel Shirin Ebadi non se la sente di commentare l'aggravarsi dei rapporti bilaterali Usa-Cina. E neppure i riflessi che l’imminente incontro tra il presidente Obama e il Dalai Lama (suo grande amico) potrà avere sul futuro delle sanzioni contro Teheran fortemente volute dagli americani ma osteggiate da Pechino.
«La mia posizione su questo punto è chiara», spiega la Ebadi, «sono convinta che le sanzioni economiche peggiorino le condizioni di vita della popolazione iraniana, accrescendo la povertà nel mio Paese».
Cosa possono fare, allora, Europa e America per fermare la corsa al nucleare e gli abusi contro i dissidenti?
«Quello che noi vi chiediamo è di non vendere al regime iraniano gli armamenti e di non aiutare i dittatori e gli ayatollah a reprimere la gente».
A cosa si riferisce in particolare?
«Il colosso Nokia ha fornito al regime iraniano il know-how per mettere sotto controllo email e cellulari dei suoi cittadini. L'Occidente può e deve impedire alla dittatura di inviare segnali per disturbare o oscurare le trasmissioni delle stazioni tv estere che trasmettono i loro programmi per l'Iran, come la Bbc in farsi o Radio Domani da Praga. Anche l'Italia ha sbagliato» . Cosa intende dire? «Ho appreso dai siti iraniani che il vostro Paese ha venduto armi al regime iraniano. Mi appello al popolo italiano affinché protesti contro questo genere di affari che comporta l’uccisione di iraniani innocenti e rovina la reputazione internazionale dell'Italia».
Come giudica la politica dell'Amministrazione Obama nei confronti dell'Iran?
«È presto per giudicarla perché, per ora, il presidente americano ha solo parlato e non ha fatto niente su cui si possa esprimere un giudizio».
Qual è lo stato di salute dell'Onda Verde?
«Per fortuna Karroubi e Mousavi sono in sintonia con la gente e riescono a comunicare attraverso Internet. Hanno invitato il popolo dell' Onda Verde alla manifestazione dell'11 febbraio, 31esimo anniversario della Rivoluzione Islamica, alla quale parteciperanno loro stessi».
Che ne è del grande movimento delle donne iraniane?
«Il movimento delle donne iraniane è il più grande e forte in tutto il Medio Oriente. Funziona come una rete e non come un partito: non ha né un leader, né una sede centrale, né delle sezioni. Vive e respira nella casa di ogni iraniano che crede nella parità di diritti. Molte attiviste sono state picchiate e arrestate, ma la brutalità del regime non ha potuto bloccare le manifestazioni pacifiche. Per ogni donna arrestata, al raduno successivo si presentano cinque donne».
Avete in progetto qualcosa di speciale per l'8 di marzo?
«L'8 marzo ha un significato importante e profondo per le iraniane. È il giorno in cui le donne dell'Iran devono far arrivare il loro urlo di protesta contro le leggi discriminatorie, sia al regime iraniano sia a tutto il mondo. Vi saranno cerimonie e festeggiamenti in tutte le città in cui vive una comunità iraniana. In Iran non ci sarà la possibilità di celebrare questo giorno apertamente e quindi le cerimonie saranno organizzate dentro le case».
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