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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Giornale - Libero - L'Opinione - La Stampa Rassegna Stampa
02.02.2010 Berlusconi in Israele: 2°giorno. I commenti
di R. A. Segre, Carlo Panella, Angelo Pezzana, Michael Sfaradi, Aldo Baquis

Testata:Il Giornale - Libero - L'Opinione - La Stampa
Autore: R. A. Segre - Carlo Panella - Angelo Pezzana - Michael Sfaradi - Aldo Baquis
Titolo: «Tra Silvio e gli ebrei una relazione magica - Israele ascolterà Silvio e non Obama - Con quell’intervista il Cavaliere si è beccato il mal di Golan»

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 02/02/2010, a pag. 8, ilcommento di R. A. Segre dal titolo " Tra Silvio e gli ebrei una relazione magica ". Da LIBERO, a pag. 1-16, il commento di Carlo Panella dal titolo "  Israele ascolterà Silvio e non Obama", a pag. 17, il commento di Angelo Pezzana dal titolo "  Con quell’intervista il Cavaliere si è beccato il mal di Golan". Dall'OPINIONE, l'articolo di Michael Sfaradi dal titolo " Berlusconi nello Stato ebraico si comporta da amico anche se chiede l'impossibile  ". Dalla STAMPA, a pag. 80, l'articolo di Aldo Baquis dal titolo " Che cosa sono le colonie  ". Ecco i pezzi:

Il GIORNALE - R. A. Segre : " Tra Silvio e gli ebrei una relazione magica "


R. A. Segre

Ci sono vari modi di analizzare il significato del viaggio del presidente Berlusconi in Israele. Lo si può descrivere come viaggio senza precedenti se si considera il numero di ministri che il premier si è portato appresso ovviamente per tradurre la retorica e l’immagine in fatti concreti. Si può pensare che Berlusconi - cosciente dell’enorme cassa di risonanza rappresentata da Israele, dall’ebraismo e dal conflitto mediorientale - abbia compreso meglio di altri leader europei il valore delle ricadute politiche e psicologiche di un viaggio del genere. Si può credere che, sia a causa di considerazioni elettorali sia a causa dei cambiamenti di rapporti di forza internazionali, essere presenti e visibili su un teatro di crisi dove la tradizionale presenza degli Stati Uniti è in declino, quella europea priva di credibilità, offre all’Italia condizioni da sfruttare per lo sviluppo di un ruolo italiano, spesso vagheggiato, mai realizzato da molti governi di Roma.
C’è tuttavia qualche cosa di più, diverso dal passato e dalla condotta di altri governanti europei che si è tentati di leggere in questo viaggio.
Anzitutto c’è la rottura dichiarata di Berlusconi con la politica passata dell’Italia verso Israele. Una politica voluta ugualmente, nonostante le differenze ideologiche, dai comunisti, dai socialisti e dai democristiani che per motivi ideologici, religiosi e di interessi economici a Israele non hanno mai veramente creduto. Hanno fatto propria per abitudine mentale, per compromessi ispirati dai servizi segreti, per logica statistica (duecento e più milioni di arabi contro meno di mezza dozzina di israeliani, un miliardo e mezzo di musulmani contro tredici milioni di giudei), per interessi legati a forniture d’armi e di petrolio, per l’accettazione acritica del vittimismo palestinese e dei tentativi di delegittimazione di Israele una specie di costante politica. Una abitudine mentale che con variazioni di colore continuava a pensare in termini di un mare nostrum diventato ogni giorno più islamico meno italiano o europeo.
Per cambiare radicalmente politica verso Israele occorreva, più che coraggio, una visione nuova della realtà. Non era la continuazione logica del cambiamento di politica interna del berlusconismo nel corso dei suoi tre mandati governativi. Una visione che il premier ha tratteggiato nell’intervista data al quotidiano israeliano Haaretz di Tel Aviv, pubblicata ieri dal Giornale. In essa Berlusconi ricorda di aver sempre amato la libertà, la democrazia e per questo il coraggio e la costanza del popolo ebraico. Ma in Berlusconi, tanto come imprenditore quanto come presidente del Consiglio, ci sono due altre considerazioni.
La prima è basata sull’aritmetica. In un mondo dove la tecnologia usurpa sempre più gli spazi che furono tradizionalmente quelli della potenza economica e militare, bisogna essere ciechi per non comprendere il significato di due numeri legati al riconoscimento internazionale di brevetti: l’intero mondo arabo ne ha registrati un po’ meno di duecento; Israele un po’ meno di ottomila.
La seconda considerazione è di ordine psicologico. Berlusconi come leader della destra non ha bisogno come Fini di Israele, degli ebrei e del riconoscimento della Shoah per legittimarsi. Appare aperto, sia pure inconsciamente, a una visione meta-storica di Israele che altri leader - da Balfour a Truman passando per Nixon che filosemita non era - hanno avuto e usato a sostegno delle loro fortune politiche. Personaggi che non avevano bisogno di Lenin per sapere che l’antisemitismo è «il socialismo degli imbecilli». Ma che non si sono mai vergognati di sostenere i diritti degli ebrei.
Il comunismo, il socialismo, il jet set con tutti i loro molti ebrei questa vergogna l’hanno sempre avuta più o meno apertamente. Forse perché non credevano nella scaramanzia. Ma in un Paese come l’Italia, dove Benedetto Croce affermava che «il malocchio non c’è, ma ci credo», la storia dovrebbe far riflettere. L’ascesa di casa Savoia - come dinastia del regno d’Italia - iniziò con il riconoscimento dell’uguaglianza dei diritti degli ebrei nello Statuto del 1848. Crollò novant’anni dopo con la firma apposta da Vittorio Emanuele III al testo delle leggi razziali che a quello Statuto, fra l’altro, poneva fine.

LIBERO - Carlo Panella : "  Israele ascolterà Silvio e non Obama"


Carlo Panella

«Abbiamo bisogno di Berlusconi, Israele non ha un amico più grande di lui nella comunità internazionale »: il premier Netanyahu non ha usato mezzi termini nell’accogliere a Gerusalemme il premier italiano (sicuramente non avrebbe mai accolto con tale enfasi Prodi e tantomeno D’Alema) ed è stato ricambiato con pari calore da parte di Berlusconi: «Siamo qui, con il nostro governo a testimoniare il nostro amore, la nostra vicinanza, la nostra volontà di collaborare; Italia e Israele sono due Stati vicini e due popoli vicini e condividiamo l’orgoglio di essere noi, con la nostra cultura giudaico- cristiana alla base della civiltà europea». Eppure, per la prima volta, i due premier sono perfettamente coscienti che i colloqui non saranno semplici, come nel passato, perché Berlusconi si è fatto precedere da una sua intervista al quotidiano Haaretz (opinion leader dell’opposizione a Netanyahu) in cui ha espresso una forte critica al governo di Gerusalemme: «La politica israeliana degli insediamenti può rappresentare un ostacolo alla pace. Voglio dire al popolo e al governo israeliani che perseverare in questa politica sarebbe un errore. Non si potrà mai convincere i palestinesi della buona volontà di Israele, se Israele continuerà a edificare su territori che dovrebbero essere restituiti nel quadro di un accordo di pace». Naturalmente c’è una spiegazione alla apparente contraddizione di un’accoglienza così calorosa di parte israeliana ad un alleato che però si fa portatore di così pungenti critiche. Netanyhau sa bene che Berlusconi, come spesso sa fare, ha perfettamente scelto i tempi, e sa altrettanto bene che proprio l’Italia, questa Italia, può dare un impulso al processo di pace con Abu Mazen, ormai nelle secche. Nonostante le roboanti promesse di inizio mandato, infatti, Barack Obama si disinteressa da mesi – incredibilmente - della crisi israelo- palestinese e non ha avanzato nessuna proposta di mediazione, tanto che Haaretz paragona il suo emissario George Mitchell «ad un canguro che salta da una capitale all’altra con una borsa vuota, perché non c’è niente da offrire». L’Ue peraltro, con la sua miss Pesc Lady Ashton e col suo emissario Tony Blair, brilla per la sua inerzia (fatte salve le faraoniche spese delle missioni di Blair). Ma la Farnesina e palazzo Chigi hanno intravisto l’apertura di una “finestra di opportunità” per muovere le acque e hanno deciso di calare due assi: l’assoluta fiducia che le due parti hanno nel premier italiano e nel suo ministro egli esteri (Berlusconi, grazie a Bettino Craxi e a Ben Ammar ha sempre avuto eccellenti rapporti personali con Yasser Arafat e poi con Abu Mazen). E poi la concretezza del premier italiano, che vola a Gerusalemme con mezzo governo per firmare consistenti contratti economici, fondamentali per Gerusalemme, che si dichiara paladino entusiasta dell’ingresso di Israele nell’Ue e che dall’altro lato promette ai palestinesi un mastodontico “Piano Marshall” di aiuti economici se mai concluderanno le trattative. La mediazione sugli insediamenti dunque oggi è possibile: questo è il segreto del viaggio. Abu Mazen, ha dichiarato che basterebbero solo 3 mesi di congelamento completo degli insediamenti (anche quelli in costruzione, punto di rifiuto da parte di Netanyahu) per far ripartire il negoziato. Netanyahu, da parte sua può – il condizionale è d’ob - bligo - accettare da Berlusconi quello che ha rifiutato ad Obama e concordare sull’apertura di una finestra negoziale con un congelamento limitato nel tempo. Tra due giorni sapremo se la mossa italiana ha avuto successo.

LIBERO - Angelo Pezzana : "  Con quell’intervista il Cavaliere si è beccato il mal di Golan"


Angelo Pezzana

Vorremmo sapere chi o che cosa ha spinto il Presidente Berlusconi a scegliere Haaretz per concedere l’unica intervista ad un giornale israeliano prima di mettersi in viaggio. Haaretz è l’ultimo fra i quotidiani israeliani con distribuzione nazionale per copie vendute, è letto dall’intellighenzia di sinistra del Paese, oltre che, è vero, dai politici e da buona parte degli intellettuali per la qualità delle sue pagine culturali. Ma per quanto riguarda l’in - formazione politica viene giudicato da molti, anche da chi lo legge tutti i giorni, il “quoti - diano arabo scritto in ebraico”, per l’abitudi - ne a schierarsi dalla parte delle posizioni arabe, usando un linguaggio che nulla ha di diverso da quello dei giornali palestinesi. Ritorna in sé quando c’è una guerra, allora è il primo a diventare interventista, sempre meglio vincere che perdere. Ci siamo chiesti quindi quale poteva essere il senso di questa scelta, come se in Italia il Cavaliere avesse scelto Repubblica o l’Unità per far conoscere il suo pensiero sulla politica estera del suo programma, perché Haaretz, come l’Economist, il País, il Guardian e via enumerando, appartengono a quella schiera di giornali per i quali il nostro premier è “un - fit”, non adatto a governare, e lo dimostrano ogni volta che è possibile con articoli al vetriolo. Il risultato di questa scelta infelice sono state le prime pagine di quasi tutti i quotidiani italiani, più i Tg, di domenica, che hanno enfatizzato, molti con titoli in prima pagina, le dichiarazioni che Haaretz ha riportato sulle “colonie” e sul Golan da restituire alla Siria. Non facciamo fatica a credere che l’intervi - statore abbia reso più marcate, e quindi più intriganti, le valutazioni di Berlusconi al riguardo, è quello che i lettori di Haaretz si aspettano dal loro giornale, ma anche in questo caso è inutile dire dopo che uno è stato male interpretato, che il senso era un altro. La novità era che il premier europeo più filoisraeliano aveva sugli argomenti che più dividono le parti nel conflitto arabo-israeliano, gli stessi timori, le stesse proposte e anche le stesse speranze che esprimono la maggior parte dei governi europei. Per fortuna Bibi Netanyahu e Shimon Peres, che conoscono bene quanto Berlusconi non sia un uomo di chiacchiere, un “luftmensch”, un uomo d’aria, ma uno che dimostra la propria amicizia non a parole, non se ne saranno fatti un problema, perché, appunto, i fatti parlano da soli. Se Hamas è stato messo fuori legge dalla UE è grazie al governo italiano che l’ha proposto, e se è fallita Durban 2 a Ginevra lo scorso anno, praticamente il festival mondiale dell’antisemitismo sponsorizzato dall’Onu, è ancora una volta grazie al lavoro di lobby fatto dal ministro Frattini che ha invitato i colleghi europei a boicottare quell’orrida assemblea. Né ignorano le posizioni dell’Italia nei confronti dell’Iran espresse nelle sedi internazionali. Per questo le accoglienze durante la tre giorni saranno quelle riservate al “miglior amico che Israele ha oggi”, e così sarà. Rimane la domanda, perché Haaretz. Forse Berlusconi voleva raggiungere un pubblico ostile, renderlo più malleabile presentandosi più bipartisan di quanto non lo sia, ma sono nostre interpretazioni, nient’altro. Che però i nostri media hanno subito colto, presentando un Berlusconi che potrebbe persino piacere a quelli che passano il tempo a odiarlo. Se così fosse, ci togliamo il cappello, una mossa di alta strategia. Basta che i risultati diano buoni frutti, lo vedremo nei prossimi giorni.

L'OPINIONE - Michael Sfaradi : " Berlusconi nello Stato ebraico si comporta da amico anche se chiede l'impossibile "


Michael Sfaradi

In Europa, con l´eccezione di Germania e Italia, il resto delle nazioni ha nei confronti dello Stato ebraico (da anni obiettivo di critiche e attacchi feroci) delle semplici "amicizie politiche" spesso sull´orlo dello "strappo diplomatico". Vista in questa ottica la visita in Israele di Silvio Berlusconi e di una nutrita rappresentanza di ministri e sottosegretari, è considerata dal governo israeliano molto importante, soprattutto tenendo conto del momento come quello attuale che è caratterizzato da diversi focolai di tensione che potrebbero far saltare gli equilibri da un momento all´altro. Il Premier, come prova di amicizia, è stato invitato a parlare davanti alla Knesset, il parlamento israeliano e l´unico democraticamente eletto di tutto il Medio Oriente. A pochi personaggi politici internazionali è stata data questa possibilità, da ricordare Anwar Sadat il presidente egiziano artefice degli accordi di pace del 1979 e, più recentemente, alla cancelleria tedesca Angela Merkel. Al suo arrivo a Gerusalemme, Berlusconi ha sottolineato il forte legame tra Israele e l´Occidente, ritornando su quello che ha definito il "mio più grande sogno", poter "annoverare Israele tra i Paesi dell´Unione Europea". "Abbiamo l'orgoglio di essere noi, con la cultura giudaico-cristiana, alla base della civiltà europea", ha aggiunto Berlusconi.
Questa visita è stata anticipata da un´intervista che Berlusconi ha rilasciato al quotidiano israeliano Haaretz, intervista che è stata ripresa dalla quasi totalità dei quotidiani italiani che, come al solito, ne hanno coperto di polvere e luci i contenuti. Vasta eco è stata data alla dichiarazione del premier dove esprimeva la sua idea che Israele debba definitivamente congelare le costruzioni su determinati territori, in modo da permettere una riapertura del tavolo di trattative fra Israele e l´Autorità Nazionale Palestinese, ma soprattutto il consiglio "con il cuore in mano" di ritirarsi dalle alture del Golan per permettere una pace fra Israele e Siria. Berlusconi ha anche dichiarato che è molto difficile restituire dei territori e vedere poi, com´è successo nella striscia di Gaza, che anziché ottenere tranquillità si è testimoni di fatti gravissimi come l´incendio delle sinagoghe e il lancio di missili verso il proprio territorio. Questa parte dell´intervista, quando è stata riportata, è stata abilmente messa sotto un cono d´ombra in modo da dare l´impressione che anche il premier italiano faccia parte di quella nutrita schiera di governanti europei e non, che vede un´eventuale pace in Medio Oriente solo e unicamente a spese dello Stato ebraico.
Tornando al Golan sappiamo che per Israele muoversi da quel caposaldo è impossibile, e il governo che dovesse prendere una decisione di questo tipo si assumerebbe la responsabilità di un azzardo talmente pericoloso da mettere in serio pericolo la stessa sopravvivenza della nazione. Non bisogna dimenticare che le alture hanno per Israele un´importanza strategico-militare vitale, sono infatti l´unico baluardo geografico difendibile dopo il quale si apre una pianura che, in caso di attacco, cosa che in Medio Oriente e considerando la natura dei vicini con i quali Israele è costretta a convivere, è tutt´altro che improbabile, diventerebbe un´autostrada verso il porto di Haifa da un lato e verso Tel Aviv dall´altro.
E´ anche giusto ricordare, anche se sono passati più di quaranta anni dalla guerra dei sei giorni del 1967, quali furono i motivi che portarono Israele alla sua annessione. Fin dal 1945 anno dell´indipendenza di Damasco dalla Francia, al giugno 1967, le artiglierie siriane hanno sfruttato il vantaggio geografico che avevano, per bersagliare quotidianamente i Kibbutz, i villaggi e le piccole città della Galilea del Nord. Migliaia furono allora i civili israeliani che persero la vita sotto il fuoco siriano. Gli israeliani sanno che l´amicizia del premier italiano è sincera e che i consigli sono dati in buona fede. A volte però, anche agli amici si è costretti a dire no. Restituire l´unico punto difendibile in cambio di un trattato di pace freddo e sterile, fratello gemello di quelli già firmati con Egitto e Giordania, che sono rimasti lettera morta dal punto di vista dei commerci, della ricerca scientifica, della cultura e che di fatto non hanno avvicinato di un millimetro le popolazioni, francamente non è un buon affare, come non lo sarebbe il mettere le chiavi della propria casa in mano ad un tiranno sanguinario come Assad di Siria.

La STAMPA - Aldo Baquis : " Che cosa sono le colonie "


Menachem Begin

Berlusconi è in Israele e si torna a parlare di colonie ebraiche in Cisgiordania. Come sono nate?
Per volere dei governi laburisti degli anni Settanta, i primi insediamenti furono creati nella disabitata e ribollente valle del Giordano. I coloni-pionieri dissodavano la terra e al tempo stesso presidiavano il confine con la Giordania per segnalare infiltrazioni di fedayn palestinesi o possibili attacchi militari arabi.
Quando è iniziato a cambiare il loro ruolo?
Nel 1977, con il Likud al potere, il premier Menachem Begin teorizzò (e poi sostenne) il ritorno del popolo ebraico nelle terre della Giudea-Samaria: appunto le zone cisgiordane di Hebron, Betlemme e Nablus, dove avevano vissuto i patriarchi biblici. In seguito Ariel Sharon avrebbe visto la dispersione delle colonie come «una polizza di assicurazione» per impedire a futuri governi di sinistra di ritirarsi dalla Cisgiordania.
Perché le colonie sono al centro del conflitto israelo-palestinese?
Agli occhi dei palestinesi l’edificazione di colonie israeliane in Cisgiordania va ritenuta illegale, tanto più quando avviene non su terre demaniali, ma anche su terre private. La necessità di rimuoverle nel contesto di futuri accordi di pace è spesso ribadita dagli esponenti politici palestinesi, ma per Israele gli insediamenti sono di importanza vitale per garantirsi confini difendibili e «profondità strategica». All'altezza di Natanya, la Cisgiordania dista appena 15 km dalla fascia costiera.
A che punto sono le trattative?
L'ex premier israeliano Ehud Olmert ha cercato di concordare con il presidente dell'Anp Abu Mazen uno scambio di terre che garantisse a Israele il controllo sulle colonie a Ovest della Barriera di sicurezza, dove vive il 60-80% dei coloni. In cambio Israele cederebbe al futuro Stato palestinese territori equivalenti a Nord di Jenin e a Sud di Hebron, nonché un corridoio terrestre con la striscia di Gaza.
Da dove nasce il timore della sinistra israeliana di fronte al movimento dei coloni?
Nel 2005 il movimento dei coloni ha guidato accese manifestazioni contro il ritiro israeliano da Gaza ordinato da Ariel Sharon. In questi anni ha messo a punto un’ideologia di confronto e talvolta anche di delegittimazione delle istituzioni democratiche israeliane. L'incubo per molti israeliani è che un eventuale ordine di sgombero (totale o parziale) della Cisgiordania potrebbe provocare episodi di disobbedienza nelle stesse forze armate. Anche se la maggior parte dei coloni resta nella legalità, secondo i servizi di sicurezza, tra loro c’è una minoranza radicale che in casi estremi potrebbe ricorrere alla violenza: la «minaccia n°1» è rappresentata da un blitz nella Spianata delle Moschee di Gerusalemme, uno dei luoghi più sacri all'Islam.
Quanti sono i coloni?
In Cisgiordania vivono 300 mila israeliani. Secondo i palestinesi, tuttavia, andrebbero tecnicamente visti alla stregua di coloni anche i 200 mila israeliani che vivono nei rioni di Gerusalemme Est. Per Israele questi ultimi non differiscono in alcun modo dagli abitanti di Gerusalemme Ovest.
In che misura si può parlare di una popolazione omogenea?
A ridosso della linea di demarcazione fra Israele e Cisgiordania, nelle zone omogenee di insediamento ebraico, vivono decine di migliaia di coloni non necessariamenti «ideologici» e di umori piccolo-borghesi. Negli insediamenti fondati negli Anni Ottanta, invece, la popolazione è composta in prevalenza da attivisti nazional-religiosi, con forti sentimenti pionieristici e, in casi estremi, messianici. In due nuove città-colonie (Beitar Illit e Modiin Illit-Kiryat Sefer) si sono stipati 100 mila ebrei ultra-ortodossi.
Per chi votano i coloni?
In prevalenza il loro è un voto di centro-destra. Nelle città-colonie ortodosse i partiti rabbinici rastrellano tutti i voti a disposizione. Sparute presenze laburiste sono segnalate fra le poche migliaia di agricoltori della valle del Giordano, nonché nelle città-colonie di Ariel e Maaleh Adumim.
Com’è la qualità della vita nelle colonie?
Il tenore medio di vita è più elevato che nel resto di Israele e gli istituti scolastici sono migliori, mentre la disoccupazione è più bassa. In ogni colonia la popolazione è omogenea e le famiglie tendono a essere numerose.
Allora perché «solo» in 300 mila si sono trasferiti in Cisgiordania?
Negli anni di Intifada le arterie della Cisgiordania sono state insicure e si sono avuti non pochi agguati armati palestinesi. Ancora oggi lanci sporadici di sassi contro auto israeliane sono all'ordine del giorno. Ecco perché sono state create superstrade che aggirano i villaggi palestinesi.

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