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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Giornale - Libero - Il Foglio Rassegna Stampa
29.01.2010 Chi odia Israele è antisemita
Analisi di Giorgio Israel, Angelo Pezzana. Con un articolo di Maurizio Stefanini

Testata:Il Giornale - Libero - Il Foglio
Autore: Giorgio Israel - Angelo Pezzana - Maurizio Stefanini
Titolo: «È l’Iran il vero erede dei nazisti - Noi ebrei siamo perseguitati anche da chi si dice di sinistra - Nient'altro che il nudo vero»

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 29/01/2010, a pag. 1-13, l'articolo di Giorgio Israel dal titolo "È l’Iran il vero erede dei nazisti". Da LIBERO, a pag. 1-14, l'articolo di Angelo Pezzana dal titolo " Noi ebrei siamo perseguitati anche da chi si dice di sinistra ". Dal FOGLIO, a pag. III, l'articolo di Maurizio Stefanini dal titolo " Nient'altro che il nudo vero ".

Sullo stesso argomento invitiamo a leggere la Cartolina da Eurabia di Ugo Volli di questa mattina, pubblicata in altra pagina della rassegna.

Ecco gli articoli:

Il GIORNALE - Giorgio Israel : " È l’Iran il vero erede dei nazisti "


Giorgio Israel

È venuta la Giornata della Memoria 2010 e personalmente l’ho trascorsa in casa. Non sono stato chiamato a partecipare ad alcun evento o manifestazione, neppure come invitato, malgrado abbia dedicato qualche libro alla questione ebraica e alle leggi razziali del 1938 e una serie interminabile di articoli all'antisemitismo. Non me ne stupisco e non me ne dolgo perché ho da tempo assunto come regola quella di parlare, in queste occasioni, soltanto dell'antisemitismo che minaccia gli ebrei viventi. Del resto, non si ripete fino alla noia che conoscere la storia passata serve a non ripeterne gli orrori? Tuttavia, parlare dell'antisemitismo di oggi non è gradito e serve a farsi depennare. Come ha scritto Fiamma Nirenstein sul Giornale, per lo più si usano dire due parole di circostanza per poi parlare di Hiroshima, delle minoranze etniche e della Resistenza. A me capitò di sentir equiparare i campi di concentramento e i centri di permanenza temporanea (Cpt) per i clandestini. Qualcuno più audace passa dai Cpt a Gaza, e ne deriva l'equazione Gaza = Auschwitz, da cui discende il corollario che gli israeliani (e quindi gli ebrei) sono i nuovi nazisti. Ebbene, per poter parlare della Shoah non pago il pedaggio di dire che Maroni è il nuovo Himmler, per cui preferisco starmene a casa a sfogliare in silenzio le foto dei miei parenti trucidati ad Auschwitz, i pochi documenti che ne conservo, e a parlarne con i miei figli.
Tuttavia quest'anno sono successi alcuni fatti nuovi che potrebbero cambiare le cose - almeno speriamo. Il primo fatto è noto ed è stato riportato da tutti i giornali. Ma conta sottolinearne un aspetto cruciale che già il Giornale ha indicato con un titolo efficace: «Khamenei celebra la Shoah: “Un giorno Israele sarà distrutto”». Niente di nuovo, s'intende. I dirigenti iraniani ci hanno abituato al loro slogan ripetuto in tutte le salse: Israele va distrutto, Israele è un ramo secco che sta cadendo, basta dare una scossa all'albero, e così via. Ma quel che c'è di nuovo stavolta è la scelta di aver fatto questo proclama, e con tanto clamore, proprio nella Giornata della Memoria, nel giorno in cui si ricorda lo sterminio degli ebrei ad opera dei nazisti. Non è intervenuta soltanto la Guida Suprema del regime iraniano, l'ayatollah Ali Khamenei, ma anche il presidente del parlamento Alì Larijani - già capo della delegazione che trattava la questione nucleare e da tanti in occidente lodato come personalità ragionevole e moderata - che ha parlato in modo truculento di Israele ridotto a «terra bruciata».
In verità, non c'è neppure nulla di nuovo dal punto di vista delle intenzioni: il regime iraniano non ha mai fatto mistero di stabilire uno stretto collegamento tra questione israeliana e questione ebraica. L'Iran è oggi il centro mondiale del negazionismo, il Paese che promuove attivamente la propaganda della tesi secondo cui lo sterminio degli ebrei non è mai avvenuto, e che comunque in fin dei conti Hitler qualche buona ragione per detestare gli ebrei l'aveva. È un antisemitismo che si pone in continuità con i legami tra una parte del mondo islamico e il regime nazista simboleggiato dalle relazioni amichevoli tra Hitler e il Gran Muftì di Gerusalemme.
Tuttavia, fino ad ora, una parte consistente dell'opinione pubblica occidentale ha chiuso gli occhi di fronte al carattere esplicitamente antisemita dell'antisionismo iraniano. Anche il presidente Obama ha condannato certe espressioni ma non ha preso atto del fatto che esse erano ispirate da una volontà di vero e proprio genocidio razziale.
Ora nessuno può chiudere gli occhi. Non vi sono alibi. La dichiarazione della volontà di distruggere Israele fatta non in un giorno qualsiasi dell'anno, ma proprio il 27 gennaio, ha un significato inequivocabile. È quanto dire: nel giorno in cui si ricorda lo sterminio di un terzo degli ebrei del mondo, noi vi annunciamo che ci apprestiamo a proseguire l'opera sterminandone un altro terzo. E poi di questo sterminio si dirà che non è mai avvenuto, come lo si dice ora del primo. Chi può chiudere gli occhi di fronte al proclama sfrontato che la lotta contro Israele è una lotta contro gli ebrei? Come non vedere che «celebrare» così la Shoah appone a questa lotta un'etichetta razziale inequivocabile?
Tutto ciò è terribile ma potrebbe essere una buona notizia se servirà, una buona volta, ad aprire gli occhi e a svegliare le coscienze. La seconda buona notizia è che nel nostro Paese, nei discorsi ufficiali delle massime autorità - dal presidente della Repubblica Napolitano, al premier Berlusconi al presidente della Camera Fini - è stato denunciato esplicitamente il pericolo dell'antisemitismo di oggi e, in particolare, il pericolo di quello iraniano. Forse questi segnali inizieranno a svegliare l'opinione pubblica. E magari, l'anno prossimo, le celebrazioni del 27 gennaio potrebbero essere meno ritualistiche e commemorare gli ebrei morti per mettere in luce le minacce che incombono sugli ebrei viventi, e non per cambiare discorso.

LIBERO - Angelo Pezzana : " Noi ebrei siamo perseguitati anche da chi si dice di sinistra  "


Angelo Pezzana

Le scritte che esprimono odio verso gli ebrei, o contro i dirigenti delle Comunità ebraiche, che hanno insozzato i muri di Roma l’altro giorno, hanno diversi gradi di lettura. Tutti però riconducibili ad una espressione rozza, che travalica qualsiasi collegamento ad una analisi approfondita del pregiudizio e dell’ ostilità che esprimono. Sono la manifestazione di una azione di manovalanza, dietro la quale si cela il tradizionale antisemitismo becero, quello che vede nell’ebreo l’espressione di una forza nascosta, la volontà di impadronirsi del mondo, il capitalista dell’ economia o,  secondo l’ideologia opposta, il rivoluzionario comunista  che vuole sovvertire le istituzioni. La mano che insozza i muri è guidata da una fede che non ha bisogno di verifiche, che non si pone domande, l’ebreo è l’altro che forse neppure si conosce, e proprio per questo, obiettivo facile da colpire con l’insulto. Che, come si sa, non richiede ragionamento.  Il fatto che siano avvenute nella giornata che ricorda la Shoà ci dice  quanto chiaro sia il legame con l’ideologia nazista. Quell’odio, che si è fermato a qualche mano di vernice, non deve però farci credere che il pericolo sia circoscritto a pochi sciagurati, che sia sufficiente individuarli per risolvere il problema. Uno strumento per capire quale strada percorrere, per non cadere nelle affermazioni tranquillizzanti e auto assolutorie, tipiche delle condanne generiche, quelle che ci richiamano all’amore universale, ce l’ha fornito Elie Wiesel, che dopo essere sopravvissuto ad Auschwitz da ragazzo, ha dedicato tutta la vita a raccontare il non raccontabile, la Shoà. Ci ha detto che il male non è affatto scomparso, anzi, si sta ripresentando ai nostri occhi senza che noi sappiamo riconoscerlo.  E che attribuirlo soltanto ai rigurgiti nazisti è riconoscere una parte soltanto del quadro che abbiamo davanti. Finchè non capiremo che l’attuazione della soluzione finale voluta da Adolf Hitler porta il nome di antisionismo, non riusceremo a capire la realtà che abbiamo davanti. Per ammazzare gli ebrei, oggi, non bisogna riconoscerli come tali, anzi, occorre chiamarli sionisti, scrivere e dire che sono la riproduzione delle SS perchè occupano e sterminano un popolo, i palestinesi, che riducono alla fame gli abitanti di Gaza, negandogli addirittura l’elettricità, che i soldati di Israele uccidono i palestinesi per commerciarne gli organi,l’elenco delle menzogne è lungo, ce lo ricordano gli odiatori di Israele tutti i giorni, sui loro giornali, sui siti internet, nelle agenzie stampa che diffondono comunicati che sembrano la fotocopia di quelli Hamas o Hezbollah. Ma attenzione, non c’è soltanto il risultato dell’azione dei gruppuscoli neonazi, dietro a queste enormi menzogne c’è tutto lo spettro dell’odio verso gli ebrei che attraversa  la nostra società. C’è in gran parte la sinistra estrema, ma anche quella moderata, che di fatto accetta la vulgata palestinese, che vede in Israele il responsabile di tutti mali dell’umanità. L’odio che li acceca è legato a quello contro l’America,  arrivando alla giustificazione del terrorismo come legittima reazione degli “oppressi” contro gli “occupanti”. Per averne conferma basta leggere il Manifesto, ma anche l’Unità spesso non è da meno. I sei milioni di ebrei vivi in Israele, per essere perdonati, dovrebbero adeguarsi alla volontà di chi  vuole cancellare il loro diritto alla vita e alla sicurezza nel loro libero Stato. Nè si deve dimenticare l’ostilità dell’informazione cattolica, dai siti internet a quella ufficiale. Avvenire, quotidiano della CEI, ospita articoli che non hanno nulla da invidiare a quelli della sinistra ex-post-comunista. Nella propaganda clericale prevale la componente religiosa, che però si intreccia con la politica più estrema, Israele è responsabile a prescindere, mentre i palestinesi sono poveri quindi sono buoni. Il risultato è che oggi c’è uno Stato, l’Iran, che minaccia di distruggere Israele, come ci ha ricordato ancora l’altro giorno l’ayatollah Khamenei, nella totale assuefazione delle democrazie del mondo libero.

Le scritte sui muri fanno ribrezzo, ma non fermiamoci a questo. Dietro c’è un pericolo molto maggiore, contro il quale servono leggi adeguate, fermezza, decisioni senza alcun timore nel prenderle, e soprattutto, chiamare le cose con il loro nome. Chi odia gli ebrei può manifestarlo in molti modi, da quelli più rozzi a quelli più raffinati, il modo più forte per combatterli è far capire le ragioni di Israele, perchè la sua difesa è quella di tutti noi.

Il FOGLIO - Maurizio Stefanini : " Nient'altro che il nudo vero "

Auschwitz

Oltre una cinquantina sono stati i musei, istituzioni, fondazioni, enti, archivi, biblioteche e privati che da Italia, Belgio, Francia, Germania, Israele, Polonia, Scozia, Stati Uniti e Svizzera hanno fornito il materiale per la grande mostra sul campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau che il Vittoriano ospita dal 28 gennaio al 21 marzo. Foto dei crematori, dei deportati, delle baracche. Dei cadaveri inscheletriti e degli scheletri viventi trovati dopo la liberazione. Di bambini ritratti prima di essere deportati in un’epoca in cui la loro vita era ancora normale: come Emma Di Veroli, di cui è esposto anche il vestito che le avevano messo per la festa di Mishamarà, ai suoi quaranta giorni. Nacque il 26 giugno 1941; fu catturata con i suoi genitori durante la retata degli ebrei romani del 16 ottobre 1943; fu uccisa con la madre appena arrivata ad Auschwitz. Ma ci sono anche le famose divise, macabri pigiama a strisce bianche e azzurre. I contenitori e le etichette del gas Zyklon. I distintivi: triangolo rosso politico, viola “asociale”, arancione omosessuale. Le monete e le banconote che potevano essere usate solo nei lager o nei ghetti. Le cartoline che i deportati potevano mandare. La propaganda antisemita. Le pile di oggetti tolte ai morti. E, forse più tremendi ancora delle foto, i disegni realizzati a memoria da qualche scampato. Il polacco Waklaw Kolodziejczyk, con le sue enormi graticole in fiamme alimentate da tappeti di teschi. Il romano Aldo Gay: ex pugile dal tratto alla Beltrame o Molino della Domenica del Corriere, coi suoi schizzi in diretta del rastrellamento del 16 ottobre 1943. O il francese David Olère, che ha documentato le attività del Sonderkommando dove era finito: l’“unità speciale” dei deportati prescelti per aiutare nei compiti di smistamento dei cadaveri. Le donne e i bambini costretti a spogliarsi prima di entrare nella camera a gas; un soldato delle Ss che scaglia il cadaverino di un neonato in una fossa di cremazione; il cadavere di una donna tirato con una coda al collo da un uomo che ha nell’altra mano una bambina; altri membri del Sonderkommando che con mostruosi pestelli frantumano le ossa rimaste intatte dopo la bruciatura dei cadaveri. In un altro disegno di Olère tra gli uomini del Sonderkommando ritratti a tagliare i capelli e estrarre i denti d’oro delle vittime c’è l’italiano Shlomo Venezia: che prese poi parte alla disperata rivolta dello stesso Sonderkommando, e che di quella rivolta è l’unico ancora in vita. C’era anche lui all’inaugurazione della mostra, ed è il suo numero di detenuto marchiato al fuoco quello della foto sulla copertina del catalogo. 182727. Più sinistri ancora di foto, oggetti o disegni sono però forse certi semplici foglietti ingialliti. Su un foglio a righe da quaderno scolastico, la lista dei 219 prigionieri che il 10 agosto 1942 morirono nell’arco di sole dodici ore. O un protocollo dall’Archivio politico dell’ufficio degli Esteri di Berlino, con la lista degli ebrei europei da eliminare. Vecchia Germania 131.800, Austria 43.700, Territori orientali 420.000, Governatorato generale di Polonia 2.284.000… Totale, 11.000.000. Un obiettivo raggiunto per oltre il 50 per cento. Ma più sinistri di tutti, forse, i semplici ritagli di alcuni giornali occidentali del luglio 1944. “Inquiry confirms Nazi Death Camps”, è il titolo del New York Times. “Jewish Victims of Nazis Disclosed”, quello del Christian Science Monitor, data del 3 luglio. “Un dispaccio da Ginevra del New York Times di oggi afferma che 1.715.000 ebrei sono stati giustiziati dai tedeschi nei campi di sterminio dell’Alta Slesia a Auschwitz e Birkenau nei due anni fino al 15 aprile 1944”. “‘I prigionieri erano condotti in celle e veniva loro ordinato di spogliarsi per la doccia’, ha detto il dispaccio del Times. ‘quindi sarebbe stato emesso il gas di cianuro, provocando la morte entro tre o cinque minuti’”. Ogni tanto torna la polemica su Pio XII, ma in realtà sapevano in tanti. E il 29 giugno 1944 John W. Pehle, Executive director del War Refugee Board Usa, aveva chiesto al Deputy secretary of War John J. McCloy di bombardare le ferrovie che collegavano l’Ungheria alla Polonia, per impedire la deportazione degli ebrei magiari a Auschwitz. La risposta, del 4 luglio: “L’operazione non è praticabile. Potrebbe essere condotta solamente impiegando un considerevole supporto aereo che però, a tutt’oggi, è essenziale per il successo delle nostre forze impegnate in azioni decisive e comunque l’operazione sarebbe di dubbia efficacia”. George Orwell dedicò pagine acute al modo in cui l’eccesso di propaganda durante la Prima guerra mondiale aveva vaccinato le opinioni pubbliche anglosassoni contro le tremende accuse della Seconda. Insomma, per aver creduto alla storia fasulla dei tedeschi che tagliavano le mani ai bambini belgi, non si volle credere alla storia vera dei tedeschi che gassavano gli ebrei. “Dopo Auschwitz scrivere una poesia è un atto di barbarie”, disse Theodor Wilhelm Adorno nel 1949. “Un romanzo su Auschwitz o non è un romanzo o non è su Auschwitz”, ha scritto Elie Wiesel. Scherzando perfino su questo, l’umorismo ebraico ha inventato la storiella del sarto che ha continuato a pregare Jahvé anche dopo aver perso tutta la famiglia ad Auschwitz, fino al giorno che per una telefonata improvvisa dimentica un ferro da stiro acceso sui calzoni del suo cliente più importante. Attacca il telefono, contempla il disastro, e grida al cielo: “Quel che è troppo, è troppo!”. Hans Jonas è un filosofo ebreo che ha cercato di risolvere il problema teologico del “Concetto di Dio dopo Auschwitz”: “Pensavo di essere in debito verso quelle anime, di non poter negare loro qualcosa che somigliasse a una risposta all’invocazione, spentasi ormai da lungo tempo, che avevano rivolto a un Dio muto”. La sua risposta: Dio “non intervenne ad Auschwitz non perché non lo volle, ma perché non fu in condizione di farlo”. Nell’atto della creazione Dio avrebbe infatti rinunciato a parte della sua potenza per concedere all’Uomo la libertà, e “rinunciando alla sua inviolabilità il fondamento eterno consentì al mondo di essere. Ogni creatura è debitrice dell’esistenza a questo atto di autonegazione e ha ricevuto con essa tutto ciò che può ricevere dall’aldilà”. Il cattolico Erich Marie Remarque l’aveva risolta in un altro modo: “Non è Dio che deve chiedere perdono a noi, siamo noi che dobbiamo chiedere perdono a Dio”. O, per dirla con Papa Benedetto XVI: “Ad Auschwitz volevano uccidere Dio”. Isaac Singer ha dunque teorizzato che non si dovrebbe mai ambientare un racconto nel lager, ma solo descrivere la figura del superstite: indicazione seguita anche da Giorgio Bassani. Georges Perec ha però ribaltato l’assioma: Auschwitz non squalifica l’arte ma la mobilita, nel senso che la costringe a reagire e a rifiutare la pura esteticità. Nel frattempo c’erano state la poesia di Quasimodo e la canzone di Guccini. Ma Bruno Vespa, uno dei due curatori della mostra, ricorda che quando lui andava a scuola i programmi non arrivavano mai all’Olocausto. In un certo modo, la conclusione di Adorno ha pesato su Primo Levi come una maledizione. “Se questo è un uomo” e “La tregua” finirono tra gli scaffali delle librerie nel settore “memorialistica”, invece che in quello di letteratura, per cui volendo fare lo scrittore sul serio Levi si diede alla fantascienza e all’operaismo: prima di poter tornare nel 1986 al punto di partenza con “I sommersi e i salvati”. Alla fine, a far entrare veramente il dramma nella coscienza collettiva era stato uno sceneggiato tv: l’efficacissimo anche se edulcorato “Olocausto”, a fine anni Settanta. Ma ciò non risparmiò a Levi il suicidio. L’astratto problema etico-estetico di Auschwitz si era rovesciato per molti sopravvissuti nella concretissima angoscia di sentirsi non creduti. Prima ancora della polemica sul negazionismo, il problema era quello di un male troppo banale, come aveva concluso Hannah Arendt: pur includendo Auschwitz tra i punti di svolta del totalitarismo moderno. Un banale che rimbalza anche nella mostra del Vittoriano, tra foto di carnefici nei momenti di relax a suonare la chitarra o la fisarmonica, o di fronte all’albero di Natale. E’ vero che, Giorgio Perlasca insegna, anche il bene può essere banale. Ma è noto che al villaggio polacco di Auschwitz gradiscono pochissimo la notorietà che la storia ha fatto piombare su di loro, coi giovani a lamentarsi che “in un posto di nome Auschwitz sembra che non sia consentito divertirsi”. Tensioni testimoniate anche dal recente furto della targa “Arbeit macht frei”. Anche in Israele si sta da ultimo contestando il modo in cui Auschwitz è venuta a sostituire il sionismo come mito fondante del nuovo stato. Ma parlando alla presentazione a nome dell’associazione Israele60 Itzhak Palin ha ricordato i propri genitori, sopravvissuti di Auschwitz. Proprio perché il mondo in cui erano vissuti non c’era più, dopo essersi stabiliti in Francia avevano deciso di farlo nascere in Israele: “Un posto dove gli ebrei potessero sentirsi in casa”. Però, come ha ricordato il presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane Renzo Gattegna, Auschwitz all’inizio fu aperto non per gli ebrei ma per i polacchi: esponenti delle classi dirigenti, intellettuali, resistenti, e molti religiosi. Mentre per gli ebrei i primi ordini di sterminio erano stati per fucilazione: anch’essi documentati da allucinanti istantanee. Ma la prassi fu presto interrotta, perché lasciava troppe tracce e esauriva psichicamente i soldati. Inoltre il lager permetteva di utilizzare la manodopera dei deportati prima della morte: una razionalizzazione che però va inquadrata in un altro grande dibattito su Auschwitz. C’era razionalità, nel sistema dei lager? E’ la tesi marxista classica, che considera il lager la fase suprema dello sfruttamento capitalista. Oppure un’irrazionalità che danneggiò gli stessi obiettivi bellici ma era conseguenziale al definitivo impazzimento dell’ideologia? L’altra tesi che appunto, alla Arendt, rimette assieme il lager al gulag sovietico. Da oggi, la galleria immagini con tutte le foto è disponibile su www.ilfoglio.it

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