Riportiamo dalla STAMPA, a pag. 13, l'articolo di Fabio Poletti dal titolo " La bambina del binario 21 ". Da REPUBBLICA, a pag. 58, l''intervista di Andrea Tarquini a Elie Wiesel dal titolo " Wiesel: L´eterna battaglia contro i negazionisti ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 35, l'articolo di Gian Antonio Stella dal titolo " Weisz e l’occasione che il calcio ha perso ". Ecco gli articoli:
La STAMPA - Fabio Poletti : " La bambina del binario 21 "

Liliana Segre
Il viaggio di Liliana Segre non è ancora finito. Anche se oggi ha ottant’anni, i capelli candidi, gli occhiali che le danno un’aria da anziana signora finalmente in pace, si sente ancora «la nonna di me stessa», come racconta nel film di Andrea Jarach «Binario 21».
Su quel binario nei sotterranei bui della stazione Centrale, a Milano, dove per decenni sono rimaste assopite coscienze insensibili a offese mostruose, Liliana Segre è tornata ieri. E anche se non era la prima volta, per lei, è stata un’occasione speciale. C’è venuta per inaugurare quel monumento, si spera inchiodato per sempre a un binario morto - un vagone piombato, il filo spinato là in alto -, che ricorda quelli che non tornarono da Auschwitz e i troppi che nei campi vennero deportati partendo dalla stazione di marmo lucido che Mussolini volle a dimostrare la «grandezza dell’Impero».
Era una bambina, Liliana Segre, quando partì. Aveva tredici anni e non sapeva ancora che essere ebrea, anche se italiana, fosse una colpa grave. Su quel treno, il 30 gennaio 1944, erano in seicentocinque. Quattrocentosettantasette tra i quali suo padre furono uccisi all’arrivo ad Auschwitz. Altri 108 morirono prima della liberazione e dell’arrivo dei russi. Alla fine della guerra torneranno in venti. Troveranno per anni porte chiuse, insensibili al dolore e alla memoria. La prima stesura del libro di Primo Levi «Se questo è un uomo» venne rifiutata dagli editori. Liliana Segre aspetterà cinquant’anni, prima di farsi «memoria» da sé.
«Oggi al binario 21 ho chiesto a tutti che si alzassero in piedi. Non volevo che onorassero solo chi, come me, è sopravvissuto ai campi. Volevo che si ricordassero di quelli che non sono più tornati. Sono arrivata a ottant’anni per vedere questo momento. Spero di avere la forza di esserci anche tra due, quando sarà finito il monumento» dice lei, che si sente una voce tra tante: identica a quella che avrebbero avuto quei 6 milioni di deportati se fossero tornati a casa.
Ebrei, antifascisti, antinazisti, omosessuali, comunisti, prigionieri politici, zingari, onorati e finalmente ricordati con una legge voluta dal Parlamento solo nel 2000. Una legge che finalmente istituisce il 27 gennaio, data in cui vennero abbattuti i cancelli di Auschwitz, «Giorno della Memoria».
«Questo è un Paese dalla memoria corta. È sempre fastidioso fare i conti con il proprio passato. Per anni i libri di storia si sono fermati alla prima Guerra mondiale. Il silenzio è stata una costanza. L’indifferenza è molto peggio della violenza», dice oggi Liliana Segre. Parole simili a quelle usate per raccontare cosa accadde un giorno di dicembre, quando tradita da una guardia di confine svizzera che la ricaccia in Italia insieme al padre, venne reclusa a San Vittore nel braccio degli ebrei voluto dalle leggi razziali.
Ricorda un giorno da bambina, Liliana Segre, nel libro scritto da Emanuela Zuccalà «Sopravvissuta ad Auschwitz»: «A calci e pugni fummo caricati su un camion e portati alla stazione Centrale. La città era deserta. I milanesi non provarono alcuna pietà per noi: restarono in silenzio dietro le loro finestre».
Adesso, invece, i milanesi ricordano. Nei sotterranei bui della stazione ci sarà un monumento per non dimenticare. Dal binario 21 ogni anno - e anche oggi - partono treni verso Auschwitz carichi di studenti delle scuole superiori. «Qualche volta sento dire che ci sono le “gite” ad Auschwitz. Io, quei viaggi, preferisco chiamarli pellegrinaggi. Sono utili, è chiaro. Ma un po’ mi dispiace quando sento che nel programma è compresa anche la discoteca la sera, perché la gita non diventi troppo pesante per i ragazzi».
Dopo cos’ha visto e vissuto, adesso che ha ottant’anni, Liliana Segre non ha più tempo per diplomatici giri di parole. Il vento dell’oblio non la tocca. Ma davanti a polemiche che ogni anno spuntano dal calendario e da memorie distorte si è fatta meno sensibile. Negare certe pagine del diario di Anna Frank perché troppo crude la scuote come la leggerezza di chi parla a vanvera di Olocausto: «Mi è capitato di leggere romanzetti in cui si raccontava di Auschwitz... Fare diventare di moda la Shoah è come negarla».
Solo ai negazionisti, agli ostinati che non credono a quell’orrore, Liliana Segre non vuole rispondere: «Non è importante quello che io penso di loro. Vorrei sapere cosa loro pensano di me. Cosa pensano di quella bambina che salì su un treno al binario 21 e che, di quel giorno, ricorda allora ogni immagine, ogni odore, ogni voce».
La REPUBBLICA - Andrea Tarquini : " Wiesel: L´eterna battaglia contro i negazionisti "

Elie Wiesel
«Io, Elie Wiesel, sopravvissuto e testimone, ricordo ancora oggi ogni singolo momento. Quando fummo chiusi nel Ghetto, quando vennero a prenderci, quando ci caricarono sui treni, quando arrivammo ad Auschwitz, quando vidi mia madre, mio padre e mia sorella portati a morire». Così Elie Wiesel, Nobel per la pace, attivista di primo piano per la pace e i diritti umani nel mondo, racconta l´Olocausto. Oggi, nella Giornata della Memoria, terrà un discorso al Parlamento italiano. Ascoltiamolo.
Professor Wiesel, come rammenta quegli anni tremendi?
«Rivedo ancora oggi ogni episodio. L´arresto in massa, la deportazione. Il viaggio atroce nei carri-bestiame fino ad Auschwitz. Ricordo cosa voleva dire sentirsi improvvisamente trattati come "Untermenschen", come subumani da eliminare. Ricordo quando, io ancora piccolo, restai solo ad Auschwitz. Fu terribile, è difficile descrivere cosa vuol dire restare solo, senza più la famiglia che hai visto sterminare, e al tempo stesso sentire che non sei solo, che non lo saresti stato mai più. Perché eri insieme a migliaia e migliaia di persone, trattati da subumani da eliminare come te, e al loro fianco sentivi la vicinanza della Morte. Ognuno di noi la sentiva, e al tempo stesso non vivevamo accanto alla Morte, vivevamo nella Morte».
Com´era possibile sopravvivere a questo sentimento?
«Penso ancora oggi che quando entrammo ad Auschwitz entrammo in un´altra Creazione, una dimensione speculare, parallela, opposta e negativa. Nella Creazione che conoscevamo la Germania era il cuore della cultura, la patria di una letteratura straordinaria espressa da una grande lingua, la terra dei migliori ingegneri. Ma là entrammo come in un mondo parallelo, fatto solo di "to kill and to die", di chi uccide e di chi muore».
Il genocidio pianificato con precisione industriale fu un crimine speciale, tutto tedesco?
«Vede, una delle cose più terribili che la Storia ci ha riservato è questa: nella prima guerra mondiale i tedeschi si comportarono bene, combatterono contro i pogrom zaristi all´Est. Per il popolo ebraico, la Germania era terra di cultura, di alta tecnologia, di grandi talenti letterari. Non ce lo aspettavamo. I nazisti riuscirono a mobilitare tutto il talento dei tedeschi - talento in ogni forma, di psicologi, scienziati, ingegneri, giornalisti - per l´Olocausto. Per questo quel crimine senza pari fu così atrocemente efficiente».
Lei oggi si fida dei tedeschi?
«Io non credo nella colpa collettiva. Solo i colpevoli sono colpevoli. Sono testimone, non giudice. Certo, purtroppo la Resistenza, l´opposizione al nazismo e alla Shoah, furono minoritari. Ma insisto, la colpa collettiva per me non esiste. E ammiro moltissimo Angela Merkel, perché lei che oggi guida la Germania sa parlare e agire nel mondo giusto: in nome della Memoria, e del diritto di Israele all´esistenza».
Qual è il significato della giornata della Memoria?
«Sono lieto di tenere un discorso al Parlamento italiano. E´ una giornata importante per tutto il mondo civile. Perché è fondamentale non solo ricordare, ma anche capire come e perché l´orrore assoluto accadde. E perché dimenticare è un grande pericolo, perché l´oblìo significa tradimento. Chi oggi chiede di dimenticare deve sapere che non sfugge a questa responsabilità: insisto, dimenticare vuol dire tradire la memoria delle vittime. E dai tradimenti non può mai derivare il bene».
E´ anche il pericolo posto dal negazionismo?
«Il più grande, pericoloso e attivo negazionista del mondo è Ahmadinejad, per questo conduco una campagna contro le sue posizioni. E´ il negazionista numero uno: nega in pubblico l´Olocausto, dichiara di volere bombe atomiche per distruggere Israele. Dovrebbe essere arrestato, dovrebbe venire tradotto davanti a un tribunale internazionale e processato dal mondo per incitamento a crimini contro l´umanità e all´odio razziale».
Una specie di Processo di Norimberga?
«Esiste già il Tribunale internazionale dell´Aja».
Lei è soddisfatto o no di come il mondo ricorda l´Olocausto?
«In Europa la situazione è migliorata. Gli Stati Uniti sono all´avanguardia: i due massimi memoriali sono a Washington e in Israele. In tutto il mondo percepisco più sensibilità di prima al tema. Forse perché alcuni di noi sopravvissuti sono ancora in vita. Il mondo comincia a pensare che un giorno, presto, non ci saremo più, e che è doveroso ricordare mentre siamo ancora in vita. Perché i sopravvissuti aiutano a tenere viva la Memoria, la comunicano al mondo di dopo l´Olocausto».
Ma quanto è grande il pericolo che, con sempre meno superstiti della Shoah ancora in vita, opinioni pubbliche e leader cedano alla tentazione di dimenticare, di "voltare pagina"?
«Io vedo che in molti paesi i giovani che studiano l´Olocausto sono più numerosi che mai. In America, e non solo, non c´è una scuola in cui la Shoah non sia materia d´insegnamento. Mai come oggi ho visto tanti corsi, seminari, mostre, programmi tv. Sono ottimista sulla capacità di ricordare. Ma c´è sempre da chiedere che uso si fa della Memoria, quanto la si usa per capire».
L´antisemitismo è vivo e spesso in ascesa, per esempio in Europa. Quanto è grave la minaccia?
«Sono trend pericolosi. Anche perché si manifestano spesso su uno sfondo d´indifferenza. Nel 2009, in tutto il mondo ma specie in Europa, si è registrato il numero più alto di manifestazioni di antisemitismo dal 1945. Recentemente sono stato in Ungheria, ho visto un aumento preoccupante dell´antisemitismo. E anche altrove, gli antisemiti conquistano nuove tribune. Come dico da decenni, spesso siamo di fronte a un antisemitismo senza ebrei, cioè a correnti antisemite in società dove quasi non vivono più ebrei. Poi c´è un violento, ingiusto odio verso Israele. Il bisogno di un capro espiatorio non è morto. E tocca sempre agli ebrei. Intanto, per esempio, dell´eccezionale efficienza dell´aiuto umanitario israeliano a Haiti si parla poco o nulla».
Le élite in Europa sono conosce della minaccia dell´antisemitismo e dell´oblìo o no?
«Lo spero. In alcuni paesi - l´Ungheria, l´Ucraina, ma anche paesi dell´Europa occidentale - vediamo trend pericolosi. Umori antisemiti, il sorgere di partiti filonazisti. Alle leadership politiche toccano anche doveri e considerazioni morali. Non possiamo separare la politica dalla morale. Serve una visione etica del mondo, e deve venire dai leader».
L´antisemitismo come ricerca del capro espiatorio è un male europeo?
«L´antisemitismo è il più antico pregiudizio di gruppo della Storia. Ed è presente tuttora, nel nostro quotidiano. Dobbiamo combatterlo, non illuderci che la lotta sia finita».
Tra i negazionisti ci sono anche esponenti religiosi, come il vescovo Williamson. Quanto sono pericolosi?
«Sono pericolosi prima di tutto per la Chiesa cattolica. Il fatto che papa Benedetto non abbia revocato la revoca della scomunica è al di là della mia comprensione. Parliamo di un negazionista dell´Olocausto, predica odio verso gli ebrei e Israele, come può essere ancora un vescovo? Scomunicato o perdonato, come può essere ancora vescovo? Angela Merkel ha avuto ragione a criticare il Papa su questo tema».
CORRIERE della SERA - Gian Antonio Stella : " Weisz e l’occasione che il calcio ha perso "

Árpád Weisz
Peccato. Poteva essere l’occasione giusta, il derby, perché l’Inter ricordasse la tragedia di uno dei suoi allenatori più grandi. Perché la partita con il Milan era proprio alla vigilia del Giorno della Memoria, celebrato oggi. Perché da mesi è in corso un’indecente offensiva razzista contro Mario Balottelli. Perché, infine, si giocava nello stadio intitolato a Pepin Meazza, il più famoso dei fuoriclasse scoperti dall’uomo straordinario di cui stiamo parlando: l’ebreo Árpád Weisz, morto ad Auschwitz nel 1944 dopo essere sopravvissuto qualche anno allo sterminio della moglie e dei due figli. Bastava un minuto di silenzio. Solo un minuto di silenzio. Macché.
Ancora una volta, nonostante la sempre più ammorbante spazzatura negazionista quotidianamente rovesciata in internet suggerisse la necessità di un forte gesto simbolico, non solo la Lega, la Figc, il mondo del calcio in generale (che si limita nel ricordo da pochi anni all’organizzazione di un torneo giovanile a Roma...) ma anche l’Inter multietnica di Massimo Moratti hanno totalmente dimenticato quel pezzo del loro passato.
Non era uno qualunque, Árpád Weisz. Intendiamoci, l’infamia del suo assassinio sarebbe stata uguale se fosse stato un mediocre «mister» di una mediocre squadretta di mediocri dilettanti. Ma Árpád Weisz, ungherese, giocatore del Padova, dell’Inter e della nazionale magiara prima di appendere le scarpette al chiodo, fu un grande. Che non solo scoprì eccezionali talenti come appunto Giuseppe Meazza, ma vinse tre scudetti negli anni d’oro del calcio italiano: uno nella stagione 1929-30 con l’Inter (allora Ambrosiana) e due, nel 1935-36 e nel 1936-37, col Bologna. Altra società che di nuovo si è scordata di lui nonostante Weisz l’avesse portata nel ’37 a vincere a Parigi quella che allora era una specie di Coppa dei Campioni, la Coppa dell’Esposizione, stracciando per 4 a 1 in finale i «maestri» inglesi del Chelsea.
Era ai vertici del calcio italiano e non solo, Árpád Weisz, quando vennero varate nel 1938 le leggi razziali fasciste. Anche per aver scritto con Aldo Molinari un famoso manuale, «Il Giuoco del calcio», con la prefazione di Vittorio Pozzo. Eppure, quando l’anno dopo il trionfo europeo fu costretto ad andarsene dal Bologna, sparì nel nulla come spariscono i pali e le reti e le strisce bianche dei campi quando, dopo le partite in notturna, un clic dell’interruttore spegne i fari. Così come, contemporaneamente, si spegnevano i fari sulle più celebri cantanti dell’epoca, Alexandrina, Judith e Kathrina Leschan, il Trio Lescano, loro stesse «colpevoli» di essere ebree.
Eppure lo sanno, Moratti e Abete e Beretta e tutti quanti, quale fu il destino di Árpád Weisz. Lo sanno almeno da quando un paio di anni fa, il direttore del Guerin sportivo Matteo Marani raccontò la sua tragedia nel libro «Dallo scudetto ad Auschwitz» (Aliberti). Era così difficile fare, di questi tempi, un piccolo sforzo di memoria?
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