Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Un sondaggio sulla visita del Papa alla Sinagoga Per il 70% degli intervistati i problemi non sono stati risolti. Commenti di Ugo Volli, Bernard-Henri Lévy, Andrea Monda. Cronaca di Maria Corbi
Testata:La Stampa - Corriere della Sera - Il Foglio Autore: Maria Corbi - Bernard-Henri Lévy - Andrea Monda Titolo: «Ratzinger, il bimbo e l’antisemitismo - Se anche Benedetto XVI e Pio XII diventano vittime del pregiudizio - Il Papa visto dal rabbino»
I sondaggi fotografano sempre stati d'animo passeggeri e magari contraddittori. Vanno presi quindi con un granellino di sale. ma questa volta sembra che il pubblico interpellato per La Stampa abbia capito molte cose, più dei commentatori ottimisti. E' vero che i problemi fra la Chiesa e il popolo ebraico non sono terminati, come dice quasi il 70% degli intervistati; anche se è altrettanto vero che questa visita ha introdotto dei chiarimenti. Interessanti sono le ragioni individuate: le "zone d'ombra" cioè il non detto, per il 26 per cento del campione, e in particolare per i mancati chiarimenti su Pio XII (un altro 14 per cento del campione). Oltre a questi intervistati che si concentrano giustamente sul bisogno di far chiarezza su un passato che non si può cancellare così, con un colpo di penna, quelli che pensano che la visita non "concluda" i problemi si dividono equamente fra ottimisti e pessimisti (entrambi intorno al 14%). Gli ottimisti pensano che il dialogo non debba finire mai, i pessimisti sanno che l'antisemitismo, e anche l'antigiudaismo cattolico, non sono affatto stati eliminati. Infine la minoranza che ritiene chiuso il discorso: è rilevante che sia piccola, grosso modo complessivamente pari alle ultime fette del campione. I più pensano, sbagliando, che il tempo cancelli ogni cosa e che ne sia passato abbastanza. Ma le religioni sono memoria, e ricordano eventi di millenni, non solo di decenni. Pochi, pochissimi, due per cento in tutto, non credono che ci sia stata una responsabilità della Chiesa; un certo numero infine rileva che la richiesta di perdono ci sia già stata, e hanno ragione; ma su alcuni temi questa richiesta oggi viene contraddetta, per esempio sulla beatificazione di Pio XII o sull'atteggiamento se non ostile, assai freddo che la Chiesa continua ad avere intorno a Israele. Come giudizio complessivo, si può dire che questa visita sia servita, che gli italiani hanno prestato attenzione al problema e che complessivamente l'abbiano capito bene. Ugo Volli
Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 20/01/2010, a pag. 12, l'articolo di Maria Corbi dal titolo " Ratzinger, il bimbo e l’antisemitismo ". Dal CORRIERE della SERA , a pag. 14, l'articolo di Bernard-Henri Lévy dal titolo " Se anche Benedetto XVI e Pio XII diventano vittime del pregiudizio ". Dal FOGLIO, a pag. III, l'articolo di Andrea Monda dal titolo " Il Papa visto dal rabbino ". Ecco gli articoli:
La STAMPA - Maria Corbi : " Ratzinger, il bimbo e l’antisemitismo "
Nove ottobre 1982, mezzogiorno, il Sabbath degli ebrei romani, il rito dello «Shemini Azzereth», la benedizione dei bambini, la festa squarciata da spari, urla, paura. Stefano Tachè due anni, cade in un lago di sangue, vittima di quell’attentato terroristico armato dall’odio antisemita. Ventotto anni dopo, domenica scorsa il Papa gli ha reso omaggio insieme alle vittime della Shoah. Un segnale importante, l’aver riconosciuto con quel gesto un’unica tragedia, un’unica persecuzione. Mai finita. Sono passati tanti anni da allora, quando le grida dei bambini dalla gioia si trasformarono in terrore, da quando la famiglia di Stefano non è stata più la stessa. Divisa dal dolore, come spesso accade, ancora una volta insieme domenica, in Sinagoga, per il Papa, a ricevere parole di conforto. «E’ stato un onore», dice Joseph, il papà di Stefano, che in molti ricordano con una mano fasciata il giorno dei funerali, un pugno scagliato contro la vetrata della rianimazione per sfogare rabbia, dolore, impotenza mentre un dottore del Fatebenefratelli gli diceva che il figlio non c’era più. Lo aveva visto cadere, nel giardino del Tempio, a pochi metri da lui, senza poter far niente, insieme alla mamma Daniela e al fratellino Gabriele di due anni più grande, feriti anche loro. «Mi scusi ma ancora oggi non riesco a parlarne, ero commosso domenica e sono commosso oggi», spiega Joseph che ha ammirato il gesto del Papa e che non ha voglia di fare interpretazioni politiche. «Tanto cosa cambia?». Già cosa cambia? Stefano non c’è più e neanche quella bella famiglia con una mamma dagli occhi celesti, romana da generazioni, un papà di origine siriane, orgoglioso di quei due figli maschi e della loro fede. Hanno pagato gli assassini? «Solo in parte, molto relativamente. Uno è stato condannato in contumacia all’ergastolo, degli altri non si è più saputo nulla». Del gruppo terroristico l’unico identificato fu Osama Abdel Al Zomar, arrestato in Grecia a distanza di qualche tempo (qualcuno disse che si consegnò alla polizia ateniese per evitare di cadere sotto i colpi dei sicari del Mossad) e poi trasferito in Libia alla corte di Gheddafi che si rifiuta di estradarlo. Non c’è stata giustizia per Stefano e le altre vittime, 37 feriti, di quell’attentato, mutilate da quella violenza. «Recentemente si è parlato ancora di questa estradizione, ma non si è fatto niente. Non ci credo più. Purtroppo è così», dice Joseph. «Comunque credo che la giustizia umana sia relativa, confido di più in quella divina». Il Papa domenica ha portato se non giustizia, il conforto, il riconoscimento dell’odio che ha causato la morte di un bambino di soli due anni. Per anni la comunità ebraica ha sottolineato come quella tragedia fosse nata con una matrice e in un clima ben precisi: era l’anno di Sabra e Chatila, l’anno del dito puntato contro Israele, l’anno della visita di Arafat a Roma, della bara lasciata davanti alla sinagoga nel corso di una manifestazione scandita da slogan antisemiti. Come ha ricordato in una commemorazione di quel giorno Riccardo Pacifici, presidente della Comunità ebraica di Roma: «È importante ricordare che l’attentato fu l’apice di un crescendo. In Italia in quegli anni maturò un clima ostile verso gli ebrei». In molti oggi ricordano come allora il rabbino capo Elio Toaff chiese una maggiore sicurezza intorno alla sinagoga. Ma quando parli con i genitori di Stefano capisci che le spiegazioni sono rimaste fuori dalla porta insieme alla gioia. Mamma Daniela, quando risponde al telefono è gentile, ma perentoria: «Non ho mai parlato in tutti questi anni, non ho niente da dire, sarebbe troppo facile fare uscire tutto il dolore che ho dentro». L’abbraccio del Papa alle vittime della Shoah insieme a Stefano ha un forte valore simbolico, ma neanche questo può colmare il vuoto di una madre.
CORRIERE della SERA - Bernard-Henri Lévy : " Se anche Benedetto XVI e Pio XII diventano vittime del pregiudizio "
Bernard-Henri Lévy
Bisognerebbe smetterla con la malafede, il partito preso e, per dirla tutta, la disinformazione, non appena si tratta di Benedetto XVI. Fin dalla sua elezione, si è intentato un processo al suo «ultraconservatorismo», ripreso di continuo dai mass media (come se un Papa potesse essere altra cosa che «conservatore»). Si è insistito con sottintesi, se non addirittura con battute pesanti, sul «Papa tedesco», sul «post-nazista» in sottana, su colui che la trasmissione satirica francese «Les Guignols» non esitava a soprannominare «Adolfo II». Si sono falsificati, puramente e semplicemente, i testi: per esempio, a proposito del suo viaggio ad Auschwitz del 2006, si sostenne e — dal momento che col passar del tempo i ricordi si fanno più incerti — ancor oggi si ripete che avrebbe reso onore alla memoria dei sei milioni di morti polacchi, vittime di una semplice «banda di criminali», senza precisare che la metà di loro erano ebrei (la controverità è davvero sbalorditiva, poiché Benedetto XVI in quell’occasione parlò effettivamente dei «potenti del III Reich» che tentarono «di eliminare» il «popolo ebraico» dal «rango delle nazioni della Terra» Le Monde, 30/5/2006). Ed ecco che, in occasione della visita del Papa alla sinagoga di Roma e dopo le sue due visite alle sinagoghe di Colonia e di New York, lo stesso coro di disinformatori ha stabilito un primato, stavo per dire che ha riportato la palma della vittoria, poiché non ha aspettato nemmeno che il Papa oltrepassasse il Tevere per annunciare, urbi et orbi, che egli non aveva saputo trovare le parole che bisognava dire, né compiuto i gesti che bisognava fare e che dunque aveva fallito nel suo intento… Allora, visto che l’evento è ancora caldo, mi si consentirà di mettere qualche puntino su qualche «i». Benedetto XVI, quando si è raccolto in preghiera davanti alla corona di rose rosse deposta di fronte alla targa commemorativa del martirio dei 1021 ebrei romani deportati, non ha fatto che il suo dovere, ma l’ha fatto. Benedetto XVI, quando ha reso omaggio ai «volti» degli «uomini, donne e bambini» presi in una retata nell’ambito del progetto di «sterminio del popolo dell’Alleanza di Mosè», ha detto un’evidenza, ma l’ha detta. Di Benedetto XVI che riprende, parola per parola, i termini della preghiera di Giovanni Paolo II, dieci anni fa, al Muro del Pianto; di Benedetto XVI che chiede quindi «perdono» al popolo ebraico devastato dal furore di un antisemitismo per lungo tempo di essenza cattolica e nel farlo, ripeto, legge il testo di Giovanni Paolo II, bisogna smettere di ripetere, come somari, che egli è indietro-rispetto-al-suo-predecessore. A Benedetto XVI che dichiara infine, dopo una seconda sosta davanti all’iscrizione che commemora l’attentato commesso nel 1982 dagli estremisti palestinesi, che il dialogo ebraico cattolico avviato dal Concilio Vaticano II è ormai «irrevocabile»; a Benedetto XVI che annuncia di aver l’intenzione di «approfondire» il «dibattito fra uguali» che è il dibattito con i «fratelli maggiori» che sono gli ebrei, si possono fare tutti i processi che si vuole, ma non quello di «congelare» i progressi compiuti da Giovanni XXIII. Quanto alla vicenda molto complessa di Pio XII, ci tornerò, se necessario. Tornerò sul caso di Rolf Hochhuth, autore del famoso «Il vicario», che nel 1963 lanciò la polemica sui «silenzi di Pio XII». In particolare, tornerò sul fatto che questo focoso giustiziere è anche un negazionista patentato, condannato più volte come tale e la cui ultima provocazione, cinque anni fa, fu di prendere le difese, in un’intervista al settimanale di estrema destra Junge Freiheit, di colui che nega l’esistenza delle camere a gas, David Irving. Per ora, voglio giusto ricordare, come ha appena fatto Laurent Dispot nella rivista che dirigo, La règle du jeu, che il terribile Pio XII, nel 1937, quando ancora era soltanto il cardinale Pacelli, fu il coautore con Pio XI dell’Enciclica «Con viva preoccupazione», che ancora oggi continua ad essere uno dei manifesti antinazisti più fermi e più eloquenti. Per ora, dobbiamo per esattezza storica precisare che, prima di optare per l’azione clandestina, prima di aprire, senza dirlo, i suoi conventi agli ebrei romani braccati dai fascisti, il silenzioso Pio XII pronunciò alcune allocuzioni radiofoniche (per esempio Natale 1941 e 1942) che gli valsero, dopo la morte, l’omaggio di Golda Meir: «Durante i dieci anni del terrore nazista, mentre il nostro popolo soffriva un martirio spaventoso, la voce del Papa si levò per condannare i carnefici». E, per ora, ci si meraviglierà soprattutto che, dell’assordante silenzio sceso nel mondo intero sulla Shoah, si faccia portare tutto il peso, o quasi, a colui che, fra i sovrani del momento: a) non aveva cannoni né aerei a disposizione; b) non risparmiò i propri sforzi per condividere, con chi disponeva di aerei e cannoni, le informazioni di cui veniva a conoscenza; c) salvò in prima persona, a Roma ma anche altrove, un grandissimo numero di coloro di cui aveva la responsabilità morale. Ultimo ritocco al Grande Libro della bassezza contemporanea: Pio o Benedetto, si può essere Papa e capro espiatorio.
Il FOGLIO - Andrea Monda : " Il Papa visto dal rabbino "
Jacob Neusner
Sono stato in compagnia di Jacob Neusner in questo tranquillo weekend romano di dicembre senza pioggia, ed è stata un’esperienza singolare che vorrei augurare a tutti noi italiani dagli occhi pigri e impolverati. Ho capito infatti quello che intende Tolkien quando scrive che “Dovremmo guardare ancora il verde, ed essere nuovamente stupiti […] riguadagnare, un ritrovare una visione chiara. Dobbiamo, in ogni caso, pulire le nostre finestre, in modo che le cose viste con chiarezza possano essere liberate dalla tediosa opacità del banale o del familiare”. Per un romano niente di più familiare del Papa. Anche quando è di un paese lontano, il Papa è sempre trasteverino. E se è bello che il Papa sia qualcuno di familiare, può essere un rischio se diventa banale, se le nostre finestre si opacizzano e s’incrostano di pregiudizi. Per fortuna, sempre secondo Tolkien, c’è “l’umiltà. E c’è, soprattutto per gli umili, Mooreeffoc, vale a dire la fantasia chestertoniana. Mooreeffoc è una parola immaginaria, ma la si può trovare bell’e scritta in ogni villaggio del nostro paese. E’ infatti l’insegna di un Coffeeroom, un caffé, vista dall’interno, attraverso una porta vetrata, come è stata vista da Dickens in una buia giornata londinese; e Chesterton se ne è servito per designare la bizzarria di cose che sono divenute ovvie, quando le si scorga, all’improvviso, da un altro punto di vista”. Jacob Neusner è venuto qui in Italia per rispolverare occhi e pulire qualche finestra. Lo avevo conosciuto solo via mail, nel maggio del 2007, per intervistarlo per il Foglio sul libro del Papa che lo aveva chiamato in causa dedicandogli diverse pagine a commento del Discorso della Montagna. Ora è venuto qui a Roma proprio a esporre il suo commento a quello che è il più famoso di tutti i discorsi in un dialogo pubblico con monsignor Bruno Forte che si è svolto lunedì sera all’Auditorium di Roma in occasione della presentazione del libro Imago Christi realizzato dalla Fondazione Marilena Ferrari- FMR. Era stata proprio la Fondazione a chiedermi di invitare Jacob Neusner per un confronto sul testo dei capitoli 5-7 del Vangelo secondo Matteo e non c’era scelta più indovinata: già nel 1993 Neusner aveva scritto un saggio “A Rabbi talks with Jesus” (poi pubblicato dalla San Paolo nel 2007) in cui il rabbino immaginava di essere lì, sulla montagna ad ascoltare le ipsissima verba Christi per la prima volta, sforzandosi di eliminare quel bimillenario accumulo di giudizi e pregiudizi, commenti, comprensioni e precomprensioni che si era creato su quel testo. Lo sforzo era piaciuto tanto all’allora cardinale prefetto della Dottrina della Fede Joseph Ratzinger (“Questa disputa mi ha aperto gli occhi sulla grandezza della parola di Gesù”) al punto che quindici anni dopo, una volta diventato Papa, ha inteso ripercorrere sul suo libro su Gesù di Nazareth quel lungo dialogo a distanza con l’amico rabbino americano. La cosa mi colpì anche perché mi era stata sottolineata dall’amico Elio Guerriero, curatore dell’edizione italiana del volume papale: “Lo spazio dedicato al rabbino Neusner è davvero sorprendente, segnale di una precisa volontà, un grande passo in avanti nel dialogo con gli Ebrei”. E così feci la cosa più semplice da fare: navigai su Internet e in pochi secondi trovai l’indirizzo mail di Neusner che intervistai. Al termine della lunga chiacchierata via mail eravamo amici: il rabbino, che rispondeva subito, laconicamente ma con una prontezza commovente e sorprendente per i miei tempi italicamente pigri, mi disse che mi poteva chiamare Jacobbo, che per lui è l’equivalente italiano di Jacob (ma ora ha capito lo spelling esatto e quando mi ha fatto l’autografo sul suo libro ha scritto correttamente Giacomo). Il mio amico Giacomo mi ha infatti regalato un libro, l’edizione italiana della sua introduzione al Talmud di cui è uno dei massimi esperti al mondo (il suo sito universitario elenca più di 800 pubblicazioni sulla tradizione rabbinica) e mi ha anche fatto dono di un detto del Talmud che lui ha scelto come stile di vita: “Say little but do much: dire poco ma fare molto”. Gli ho citato il detto italiano “chi fa non parla, chi parla non fa” e se n’è rallegrato, non solo perché capisce molto bene l’italiano, nonostante gli anni e gli acciacchi si facciano sentire, ma anche perché sente profondamente la vicinanza tra l’Italia e l’America. “Roma mi ricorda New York”, mi dice mentre passeggiamo nei pressi di Villa Borghese, “è un centro vitale, pulsante, e ricco di bellezza”. Ma la vicinanza che a lui sta a cuore è un’altra: “Il Talmud è un testo che si riferisce alla tradizione orale del giudaismo. Oltre alla parte scritta, la Torah, noi ebrei diamo molta importanza alla parte orale, al Talmud. Proprio come nella chiesa cattolica dove c’è non solo la Scrittura ma anche la Tradizione. Ecco un’altra cosa che ci accomuna”. Gli chiedo ancora del Talmud, dire che ne è affascinato non renderebbe l’idea, e mi spiega che è un libro frutto dello studio di generazioni di rabbini, quasi uno studio sul concetto di studio. E’ una cosa fondamentale per Neusner lo studio e mi cita Elie Wiesel che nel saggio Celebrazione talmudica afferma: “Lo studio significa opporsi alla morte; e a ciò che vi è di peggio della morte: all’oblio”. Gli comincio a parlare di Benedetto XVI che già nel suo primo viaggio apostolico, a Colonia nel 2005, andò a visitare una sinagoga tedesca e parlò ai giovani del mondo contemporaneo affetto da “una strana dimenticanza di Dio” e lui si mostra in perfetta sintonia: “Oggi si vive nell’oblio. Ciò che manca è lo studio della storia. Penso alla questione delle radici cristiane. Forse è sempre stato un po’ così… mi viene in mente che per i giovani americani di oggi parlare della guerra del Vietnam è come quando a me parlavano della Prima guerra mondiale, un passato che non mi apparteneva”. Ma Neusner non dispera, si dichiara felice di essere nato americano (da una famiglia proveniente da Odessa) perché, dice, “ho speranza nel popolo americano in quanto è un popolo capace di autocritica. Siamo patriottici nel senso profondo e buono del termine”. Gli chiedo quali siano i rapporti negli Stati Uniti tra ebrei e cristiani e la risposta è lapidaria: “Ottimi. Soprattutto nei piccoli centri c’è un bellissimo rapporto tra cristiani ed ebrei. Io ho tanti amici cristiani e cattolici, penso a monsignor John Favalora, arcivescovo di Miami, e al professore Andrew Greley di Chicago. Ma anche qui in Italia, come gli amici della Comunità di Sant’Egidio. Ricordo quando mi invitarono negli anni Novanta a Milano dove incontrai il rabbino Giuseppe Laras che era amico dell’allora arcivescovo della città”. Neusner stesso è un crocevia vivente del rapporto tra ebrei e cristiani: a 78 anni ancora insegna e nel semestre primaverile tiene un corso, alla Bard University, di studi comparativi sulla dottrina sociale secondo il giudaismo e il cristianesimo classico, da Paolo a Ireneo, da Origene ad Agostino. Ancora più lapidaria è la risposta alla mia domanda, forse troppo candida, sul perché si sia tanto interessato al cristianesimo: “Perché è la religione che ha conquistato il mondo ed è il futuro del mondo, perché si erge a difesa della vita contro la morte”. Tre sono stati i momenti forti di questi quattro giorni romani di Neusner: la partecipazione alla visita del Papa in sinagoga, l’udienza privata del Papa riservata a lui e alla moglie Suzanne e il dialogo all’Auditorium con monsignor Forte sul Discorso della Montagna. Sul primo Neusner è stato chiaro: “Un incredibile evento di partecipazione, con ogni posto a sedere occupato, sono stato davvero felice di parteciparvi, un buon segno per il dialogo religioso”. Sul secondo si dilunga invece molto di più, parliamo “a caldo” (l’ho accompagnato io in Vaticano), cioè a visita appena avvenuta, e il racconto che ne fanno i coniugi Neusner vale la pena di riportarlo per intero: “Siamo arrivati al Cortile San Damaso alle 11,15 e abbiamo aspettato a lungo per essere ricevuti, il Papa infatti era in ritardo sugli appuntamenti. Ci hanno fatto accomodare in una stanza, molto bella in verità, poi ci hanno chiesto di spostarci in un’altra ancora più bella, poi in un’altra ancora… insomma, abbiamo visitato cinque diverse stanze, tutte splendide, e in ognuna entrava qualcuno che ci chiedeva scusa a nome del Papa; persone gentilissime che parlavano ognuna una lingua diversa, noi ce la siamo cavata con l’inglese. Nessuno però ci ha mai indicato dove fosse la toilette, mi ha colpito, quando siamo stati ricevuti alla Casa Bianca più volte ci hanno chiesto se avevamo bisogno del bagno, ma si sa, noi americani siamo gente più pratica. Finalmente entriamo nello studio del Papa (ma quant’è grande, lo studio!) ed eravamo veramente elettrizzati. Lui è stato gentilissimo e ci ha messo a nostro agio. Eravamo solo noi tre e siamo rimasti soli per quindici minuti, il tempo sufficiente direi, per due professori. Conoscevo da tanti anni lo studioso e lo stimavo, ora ero molto interessato a incontrare e conoscere l’uomo. E Ratzinger è un uomo umile, gentile. Non sente l’urgenza di riempire il silenzio tra una parola e l’altra, si mette in ascolto. Inoltre ha ancora la sana curiosità dello studioso, non l’ha messa da parte. Mi ha chiesto dei miei studenti, gli ho detto che li adoro e lui ha sorriso, ha capito cosa intendevo con quell’espressione. La cosa che più mi ha colpito sono stati i suoi occhi penetranti, capace di attraversarti”. Mentre Neusner parla mi viene in mente l’espressione che usa Pier Paolo Pasolini nel suo libro sull’India quando parla di Madre Teresa di Calcutta: “Quando guarda, vede” e poi la Deus Caritas est che al punto n. 31 afferma: “Il programma del cristiano è un cuore che vede”. Neusner continua su questo aspetto degli occhi e della visione. “Ratzinger è un uomo che ha una visione: per l’Europa, per il mondo, per l’umanità, per la vita (e contro la morte). Nessun altro oggi sembra avere una visione, anche la politica un po’ dovunque è in crisi. Quest’uomo gentile sa dove vuole andare”. Gli chiedo se hanno parlato di politica, nega recisamente: “Non abbiamo parlato di politica”. E dell’incontro di ieri in sinagoga? Niente. E di che cosa avete discusso? “Abbiamo parlato dei nostri libri, come si fa tra professori. Io gli ho regalato due libri, l’edizione italiana del mio saggio sul Talmud e l’edizione tedesca di “Un rabbino parla con Gesù” e lui lo ha molto gradito perché l’aveva letto in inglese (lingua che conosce e pronuncia in modo eccellente) e anche perché, ha detto, ‘non sono libri molto lunghi… così li potrò leggere’, ha soggiunto quasi sospirando e mi ha parlato del suo nuovo libro, il secondo volume su Gesù di Nazareth che ha da poco finito e che uscirà tra sei mesi. Gli ho chiesto se aveva in mente di scrivere altri libri ma la risposta (che sembra rivelare il suo desiderio reale) è stata piuttosto negativa: “Ho 83 anni, altre cose da fare”. Al che ho desistito dal mio intento, quello di proporgli di scrivere un libro insieme”. L’ho lasciato parlare, finire di raccontare questo strano incontro tra due vecchi professori che ora si trovano di nuovo a migliaia di chilometri di distanza e, pur essendosi incontrati per soli quindici minuti, forse sono un po’ meno soli. Il terzo momento è stato lunedì sera all’Auditorium, il dialogo pubblico tra lui e S. E. monsignor Forte. Avevamo pranzato insieme con Neusner e mi aveva detto che aveva letto e apprezzato il testo che l’arcivescovo di Chieti avrebbe letto apparso sul Sole 24 Ore (il rabbino legge e parla correttamente l’italiano). Il rischio a questo punto era, per dirla con Bernanos, che l’incontro tra il teologo cattolico e il rabbino ebreo fosse una conversazione all’insegna del miele piuttosto che un dibattito con la giusta dose di sale, ma il rischio è stato scongiurato grazie soprattutto alla sincerità dei due interlocutori che sono rimasti amabilmente in disaccordo. “Un vero maestro non è chi dice qualcosa di nuovo, ma chi dice qualcosa di vero”, ha affermato Neusner, e monsignor Forte ha apprezzato la franchezza aggiungendo che: “La novità del messaggio di Cristo non sta nel messaggio ma nel messaggero”. “Chi si dichiara Signore del Sabato si pone fuori e al di sopra della Torah”, ha ribadito il rabbino, ma “il Discorso della Montagna non è una legge che si contrappone alla legge mosaica”, ha concluso il teologo (citando il protestante Jeremias), “bensì un Vangelo, la buona notizia sull’amore di Dio che si incarna per salvare gli uomini”. Un confronto vero contrassegnato dalle rotondità delle arcate dei discorsi di Forte e dalle secche e rapide risposte di Neusner. E laconico è stato anche in auto mentre ritornava in albergo, quando ho pensato di provocarlo chiedendogli di Pio XII: “Ora è troppo presto per giudicare. Certo mi sembra che ci siano degli attacchi contro il dialogo tra noi e la chiesa da persone che disonestamente non hanno alcun interesse nemmeno nella causa del giudaismo”, ma non ha voluto aggiungere di più. Gli ricordo la posizione di un ebreo italiano come Paolo Mieli, che ha più volte affermato di aver apprezzato molto di più gli interventi reali e concreti della chiesa che ha salvato tante vite umane, rispetto all’ipotetico discorso pubblico di denuncia da parte del Papa. Neusner mi ha guardato e mi ha risposto ancora una volta laconicamente: “Say little but do much”. Alla fine di questo intenso weekend con un anziano rabbino in giro per Roma, con il suo fare un po’ stravagante, teso più a osservare che a parlare, posso dire che proprio il suo essere e venire “da fuori” mi ha aiutato a ripulire le mie finestre e a vedere una cosa così vicina, come il Papa, da un’altra prospettiva. E se invece penso al mio amico Jacob-Giacomo, che ora è in viaggio per New York, mi viene subito in mente quello che Gesù disse del baldanzoso apostolo Natanaele, quello che lo sfotteva sulle sue origini di Nazareth: “Ecco un israelita senza falsità!” (Gv 1,47).
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