Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 19/01/2010, a pag. 17, la cronaca di Mauro Montali dal titolo " Rapita dal padre-padrone ". Da LIBERO, a pag. 1-17, il commento di Maria Giovanna Maglie dal titolo " Rapita dal papà pakistano. Ora spiegatele la tolleranza ". Dal GIORNALE, a pag. 20, due articoli di Marcello Foa titolati " Così l’Egitto truffa le donne italiane che amano un islamico " e " Dalla gioia all’inferno: 'Mio marito mi picchiava e diceva: ora comando io'". Mentre scriviamo apprendiamo che la ragazza è stata ritrovata.
Ecco gli articoli:
La STAMPA - Mauro Montali : " Rapita dal padre-padrone "

Akatar Mahmood
La stanno cercando dappertutto. Almas, diciassette anni, d’origine pachistana, è stata rapita ieri all'uscita della scuola. Dal padre. «Un padre-padrone, rigido, severo e prepotente», così come lo fotografano testimoni e conoscenti, che l'aveva brutalmente picchiata più volte, costringendola a ricoveri in ospedale, e che odia lo stile di vita «troppo occidentale» della ragazza. L'ha prelevata con forza, con l'aiuto di un complice.
Posti di blocco di carabinieri e polizia, autostrada compresa, ricerche a tutto campo. Oltre alle forze dell'ordine si sono attivati amici, compagni di scuola, gli assistenti del centro onlus di Cante di Montevecchio, dove Almas aveva trovato riparo. La cercano ma, fino a tarda sera, senza risultati.
La comunità pachistana nelle Marche è forte, numerosa e molto solidale. Forse è a Corridonia, alle porte di Macerata, dove vivono e lavorano, nell'industria degli «scarpà», come si dice da queste parti, ben settecento pachistani che sono diventati i «padroni» della cittadina. Percorsi tortuosi e misteriosi, certo. Ma l'attenzione è tutta su Corridonia.
C'è un testimone del rapimento. E' Francesco Cavalieri, ex vicesindaco Pdl di Fano, che ha sentito delle urla mentre metteva in moto la sua auto, nel parcheggio davanti alla scuola, un istituto tecnico, dove Almas studiava. «Ho capito che c'era qualcosa che non andava - racconta Cavalieri - e mi sono appuntato il numero della targa della Chevrolet-Daewoo e poi ho dato l'allarme».
C'era un'altra persona a bordo dell'utilitaria, secondo la testimonianza di Cavalieri. Probabilmente la madre.
Un tribunale coranico familiare. Questa potrebbe essere l'ipotesi sulla motivazione del rapimento. La sentenza è stata applicata. La ragazza dev'essere punita.
Ad Almas non sono bastate, evidentemente, le reprimende e le punizioni del padre, Akatar Mahmood, venditore ambulante di Senigallia. Punizioni, come si diceva, terribili. Era finita in ospedale. Aveva denunciato il padre. Poi in Tribunale aveva ridimensionato le accuse, nei confronti del «padre-padrone» Akatar. Ma per i giudici del Tribunale dei minori di Ancona le cose dette (e contraddette da Almas) sono bastate per far capire loro una situazione di estremo disagio. I magistrati l'avevano affidata ad una comunità di supporto, a Cave di Montevecchio di Fano, per l'appunto. «Possiamo solo dire che la ritrovino presto», dicono gli operatori della struttura di accoglienza. Che avevano anche tentato un riavvicinamento della ragazza alla famiglia.
Ma non c'è stato nulla da fare. «L’atteggiamento del padre - dicono a Cante di Montevecchio - è stato pessimo. E l'abbiamo riportata indietro, nel centro».
E aggiungono: «E' una ragazza brava, brava, brava. Brava a scuola, buona e amichevole con tutti». Insomma, a parte l'enfasi dettata dal momento, Almas era molto amata. Parla un italiano perfetto, si era integrata alla perfezione con amici, insegnanti, e operatori sociali.
Portava i jeans a vita bassa e forse beveva qualche birra. Due peccati mortali per Akatar, il padre-padrone, che a casa aveva instaurato un vero e proprio clima di terrore.
Doveva essere punita: dalla famigilia, dal clan, dalla religione.
Nelle Marche seguono tutti con trepidazione la vicenda di Almas. A Corridonia, in particolare, dove, si presume che Akatar abbia portato sua figlia.
LIBERO - Maria Giovanna Maglie : " Rapita dal papà pakistano. Ora spiegatele la tolleranza "
Maria Giovanna Maglie
Se l’ambulante pakistano padre padrone che si è ripreso con la forza e contro la nostra legge la figlia minorenne che le autorità gli avevano sottratto, ha potuto concepire il suo gesto, non è, credetemi, solo perché è un integralista islamico, un torturatore della famiglia, un uomo malvagio; è anche perché questa categoria, purtroppo frequente, di emigrati, che delle nostre belle parole di integrazione e accoglienza se ne infischia altamente, non ha sentito sul collo il respiro vicino, pressante, dello Stato che lo ospita. È questo il punto, e auguriamoci tutti che quella povera ragazzinanonsia già stata sacrificata, uccisa magari secondo il barbaro rito prescelto, otrasportata comeun paccoin Pakistan.Auguriamoci che il rapitore e i suoi complici, probabilmente è la moglie il complice, vengano catturati, condannati, messi in galera e al termine della pena cacciati dal Paese, che la ragazza torni ai suoi studi e alla vita protetta che aveva sperato, chiedendo disperatamente aiuto mentre era pesta in ospedale, di riuscire a vivere in Italia. Avevamo il dovere di garantirgliela. Non credo alla confutazione possibile che gesti come questi siano frutto di follia, di ignoranza, che nulla si possa fare per evitarli. Non è così, prima di chiacchierare di cittadinanza breve bisogna affermare il dovere di chi entra nel Paese di vivere secondole leggi e le regole delPaeseche ospita,ebisogna affermare il diritto di chi, una volta qui, chiede di vivere secondo quelle leggi e quelle regole, di essere incoraggiato, aiutato, intitolato a farlo anche ricorrendo al rigore delle leggi. Invece non è così che va nella vita quotidiana di Hina, per citare il caso più conosciuto, e delle altre. L’Italia èancora troppo spesso, nonostante le iniziative importanti che il governo sta cercando di far applicare, un territorio franco. Lo è anche perché noi siamo abituati a pensare male, a coltivare come il mito tanto ridicolo quanto pericoloso dell’accoglienza e della tolleranza a uso e consumo di chi non apprezza né l’accoglienza né la tolleranza. Sentite che cosa ha detto il preside della scuola nella quale studiava la ragazza, studi ai quali naturalmente il padre era contrario. «Mi è sembrato un uomo che si è integrato nella nostra società dal punto di vista economico, ma non da quello culturale. L’ho incontrato una volta e gli ho spiegato che le leggi in Italia sono queste, che se la figlia era stata affidata a un istituto lui doveva rispettare la decisione del tribunale».Mache razza di integrazione è quella economica e non culturale? Sentite che cosa ha detto l’avvocato Monica Clementi, nominata ad aprile tutore della ragazza. «Il padre ha minacciato ripetutamente chiunque cercasse di aiutarla e le persone dei Servizi Sociali. Lei aveva spiegato chiaramente ai giudici della corte d’Appello di non voler più vivere con la sua famiglia. Si era inserita bene nella nuova realtà scolastica, con la comunità di accoglienza di Fano stavamo studiando un percorso anche per il futuro: per ottenere una borsa di studio e, al compimento dei 18 anni, il permesso di soggiorno in Italia, grazie aunlavoro e a una nuova sistemazione abitativa». Che significa? Che l’uomo costituiva unaminaccia ma era libero di continuare a esserlo; che non sappiamo nemmeno se vive nel nostro Paese legalmente. Inutile poi armare manifestazioni, chiedere di costituirsi parte civile, scrivere fiumi di inutile inchiostro, come fu per la povera Hina Salem. Quando il rumore e la pubblicità per i protagonisti eroici sono finiti, resta la realtà nuda e triste di un Paese che non si decide a credere nelle proprie leggi e a farle rispettare con tutta la durezza necessaria.
Il GIORNALE - Marcello Foa : " Così l’Egitto truffa le donne italiane che amano un islamico "

Marcello Foa
Entri in un consolato stranieri e pensi «Mi posso fidare». Ma se ti trovi in quello egiziano di Milano, sei un’italiana e intendi trascrivere un atto di matrimonio contratto, nel tuo Paese, con un cittadino egiziano, non è detto che i tuoi diritti vengano tutelati. Anzi, nove volte su dieci finirai per firmare un documento che non sai decifrare, perché scritto in arabo, ma che non corrisponde a quello che tu credi. E se un giorno cercherai di divorziare capirai la portata dell’errore che, a tua insaputa, sei stata indotta a commettere.
Già, perché quel documento non è una trascrizione legale, che non è nemmeno contemplata dalla legislazione del Cairo, ma un nuovo atto di matrimonio, secondo il diritto egiziano, ovvero secondo la legge islamica, che, come noto, non riconosce la parità religiosa. Se un musulmano sposa una cristiana o un’ebrea, la moglie perde ogni diritto nei confronti dei figli e, in caso di morte del congiunto, non riceve l’eredità.
Purtroppo le ragazze italiane vittime inconsapevoli di questo raggiro sono decine ogni anno. Il film è più o meno lo stesso. Si innamorano, si sposano in un Comune italiano. Tutto fila bene. Poi, un giorno, il marito egiziano chiede alla moglie di fare un giro fino a via Porpora, al consolato, per una formalità; ovvero per firmare le pratiche affinché la loro unione sia registrata anche al Cairo. La donna non sospetta nulla. Che male c’è? Si chiede. E accetta.
La legge internazionale impone l’obbligo della traduzione di qualunque documento qualora non si conosca la lingua; ma quando arriverà alla sede diplomatica nessuno le ricorderà questo diritto. Non solo. Quasi sempre troverà un funzionario che parla solo l’arabo. Non le verrà presentato nessun testo in italiano e di solito sarà lo stesso marito a provvedere a una parziale, rassicurante traduzione. Nessuno, insomma, la avvertirà che quello è in realtà un vero e proprio contratto di nozze islamico.
Se il matrimonio dura, tutto bene; ma se va male l’uomo potrà prendere i figli, portarli in Egitto e affidarli alla nonna o a una zia allo scopo di provvedere a una sana educazione musulmana. E i tentativi della moglie italiana di riportarli in Italia o, talvolta, solo di vederli risulteranno vani: in quanto non musulmana il governo del Cairo non le riconoscerà alcun diritto. Di fatto, non esiste.
Uno scandalo che non sarebbe possibile se le autorità diplomatiche rispettassero le procedure internazionali e le leggi italiane. Come dovrebbe essere normale, tra Paesi amici e alleati. E invece la sede di via Porpora da anni assume i dipendenti locali in nero, come denunciato dal Giornale prima di Natale. E in occasione della sanatoria di colf e badanti, lo stesso consolato si è dimenticato di avvertire le nostre autorità che le donne egiziane non avrebbero potuto beneficiarne, in quanto una legge, varata per impedire gli abusi a cui molte ragazze sono state sottoposte nelle case degli emiri del Golfo, vieta l’emigrazione delle collaboratrici domestiche.
Dettagli. A Milano loro possono far di tutto, anche far sposare le italiane con l’inganno. Tanto poi ci pensa il ministro degli Esteri egiziano a rimettere a posto le cose, denunciando il razzismo e la prevaricazione. Del nostro governo, naturalmente.
Il GIORNALE - Marcello Foa : " Dalla gioia all’inferno: 'Mio marito mi picchiava e diceva: ora comando io' "

Paola ha 30 anni, ma ne dimostra meno. Ha il volto pulito della brava ragazza, indossa un giubbotto alla moda. Come tante sue coetanee. Ma basta rimanere con lei pochi secondi per cogliere nel suo sguardo un’inquietudine, anomala e profonda. La incontro per strada a Milano, dove vive. Si gira, osserva i volti dei passanti, poi cammina con passo rapido. Entriamo in un bar e chiede di sedersi in fondo, con le spalle alla parete in un punto che le permetta di osservare chi entra nel locale. Paola ha paura, molta paura da quando è sposata con un egiziano.
«L’ho conosciuto durante una vacanza in Egitto e me ne sono innamorata perdutamente. Mohammed era gentile, dolce, romantico: mi sembrava l’uomo ideale» racconta e sul suo volto si apre un sorriso. «Lo invitai in Italia e tutto filava a perfezione. Potevo vestirmi come volevo, fumare, bere vino. La nostra era una storia meravigliosa: io da cristiana rispettavo il suo essere musulmano, lui da islamico rispettava la mia identità di cattolica e occidentale».
Due anni di fidanzamento, poi decisero di sposarsi in Egitto, nel suo Paese natale, un villaggio di contadini non lontano dal Cairo. «Gli ho detto sì alle sei di sera, ma alle sette era già un altro uomo», afferma Paola. «La sua cortesia era svanita, il suo sguardo non era più dolce, ma arrogante. La sera successiva dovevamo andare alla festa di un cugino, gli dissi che avrei messo un abito da sera nero, piuttosto casto, con le maniche lunghe, senza scollatura e la gonna appena sopra il ginocchio. Mohammed mi disse di no. Io pensavo che scherzasse, ma lui imperterrito affermò che da quel momento avrei dovuto chiedere il suo consenso sull’abbigliamento. Avrei dovuto capire subito, ma ero troppo innamorata, pensai che fosse solo un po’ possessivo e lasciai correre».
Paola si agita, incrocia le mani e stringe le dita. I suoi polpastrelli si arrossano. Mi supplica di non rivelare il suo cognome, né altri dettagli che possano permettere a chi la conosce di identificarla. La rassicuro, si calma e continua a parlare. «Tornammo in Italia io lavoravo, lui rimaneva in casa. Dormiva, pregava, andava a spasso. Quando tornavo dall’ufficio, Mohammed cominciò a trattarmi male. Impartiva ordini e non accettava obiezioni. Non appena tentavo di discutere, mi strattonava per il braccio, mi spingeva, mi afferrava per la mascella stringendola e, guardandomi dritto negli occhi, affermava: “Sei mia moglie e devi fare quel che dico io!”».
Dopo appena un mese, Paola scappò dai genitori e chiese il divorzio, ma lui non ne voleva sapere. Lei scoprì che il diritto matrimoniale non era uguale a quello italiano, come lui le aveva assicurato, ma islamico e che nell’atto di nozze aveva dichiarato di averle dato una dote di ben 5 euro.
Paola si rivolse a un avvocato, Mohammed si infuriò e iniziò a tormentarla. «Aveva copiato i numeri dal mio telefonino. Chiamava tutti i miei conoscenti per sapere dov’ero, cosa facevo. Mi aspettava all’uscita dal lavoro, sotto casa. Potevo uscire solo se accompagnata da un uomo. Sul cellulare arrivavano minacce di morte a me e alla mia famiglia. Iniziai ad avere attacchi d’ansia, a non dormire più di notte. Una sera era così angosciata che mi si bloccarono i muscoli degli arti e rimasi irrigidita sul letto».
La persecuzione cessò quando Mohammed nel luglio del 2009 tornò in Egitto in vista del Ramadan. Poi un giorno la chiamò con voce dolce e suadente, come un tempo: «Se vieni qui, ti concedo il divorzio», le disse. Paola partì, accompagnata dalla sorella e da due amici. E conobbe l’inferno. Lui la portò e casa e la riempì di botte. Pugni, schiaffi, le strappò i capelli, la prese a calci, facendola anche rotolare giù dalle scale. Quasi ogni sera. «Perché mia moglie non mi ascolta», ripeteva ai familiari. Quando iniziò il Ramadan, la portò in un negozio e la obbligò a indossare la tunica e il velo. «Ho pensato: è finita, rimarrò qui per sempre», ricorda Paola. Ma Mohammed voleva tornare in Italia e aveva bisogno di sua moglie per rinnovare il permesso di soggiorno. Le permise di partire in pieno Ramadan, ovviamente senza divorzio. Appena tornata a Milano si affidò a un avvocato che avviò le pratiche in questura per ottenere la revoca del visto e del permesso di soggiorno, ma quando Mohammed atterrò a Malpensa passò regolarmente il controllo doganale.
Gli occhi di Paola si arrossano. Inizia a singhiozzare. «Le minacce diventarono insistenti. Da allora mi sono rivolta in procura ai carabinieri, chiedendo protezione ho mostrato le prove. Tutti mi hanno detto: finché lui non le fa niente, noi non possiamo intervenire. Dunque devo morire o farmi spaccare un braccio per ottenere aiuto dalla polizia del mio Stato?».
Quando Mohammed viene a sapere delle denunce diventa ancora più pressante. Paola ha cambiato casa e lavoro, ma lui l’ha rintracciata. E per due volte lei si è trovata l’auto rigata. «Mi fa seguire persino dai suoi amici». Paola non si trattiene più. Piange. «La mia vita è rovinata», mormora; poi, tra le lacrime, implora: «Che nessuna ragazza commetta il mio errore! La prego lo scriva. Almeno il mio dramma sarà servito a qualcosa».
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