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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - Il Foglio Rassegna Stampa
19.01.2010 B-XVI in Sinagoga
Intervista di Paolo Conti a Riccardo Di Segni, analisi di Giorgio Israel

Testata:Corriere della Sera - Il Foglio
Autore: Paolo Conti - Giorgio Israel
Titolo: «Poteva dire di più su Pio XII - La visita del Papa in sinagoga è stata un successo, altroché»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 19/01/2010, a pag. 25, l'intervista di Paolo Conti a Riccardo Di Segni dal titolo " Poteva dire di più su Pio XII ". Dal FOGLIO, a pag. 4, l'articolo di Giorgio Israel dal titolo " La visita del Papa in sinagoga è stata un successo, altroché ". Ecco i due articoli:

CORRIERE della SERA - Paolo Conti : " Poteva dire di più su Pio XII "


Riccardo Di Segni

ROMA — Come commenta, il giorno dopo la visita di Benedetto XVI alla Sinagoga maggiore, rabbino Di Segni?
«Complessivamente un evento importante col segno positivo».
«Complessivamente»? Questo scarso entusiasmo è forse legato alle ombre che hanno preceduto l’avvenimento?
«Le ombre ci sono state e hanno lasciato il sapore amaro negli organizzatori. Hanno diviso la comunità, il rabbinato, il mondo ebraico romano. E non abbiamo certo bisogno di motivi per dividerci tra noi. Poi abbiamo preso la decisione, malgrado tutto. Una decisione sofferta».
Ma se è stata così sofferta, perché prenderla?
«Quando una visita di simile portata viene programmata, ritornare indietro diventa un gesto clamoroso. E non compreso. Anche se le novità sopravvenute sono importanti...».
Pensa alla notizia della beatificazione di Pio XII?
«Ovviamente. Il tempo stabilirà se abbiamo fatto bene. Oggi sono contento e sento di sì».
Benedetto XVI ha detto che «purtroppo molti rimasero indifferenti» di fronte alla Shoah. Per lei è incluso Pacelli?
«Si sta aprendo l’esegesi su quel passaggio... Io credo sia stata usata una espressione diplomatica per non chiudere il discorso con noi » Avrebbe potuto dire di più? «Certo» C’è chi si dichiara deluso, su quel punto. Lei lo è?
«Per rimanere delusi bisogna avere delle aspettative». Ne avevate? (sorride, non risponde) C’è chi lamenta il mancato accenno a Israele.
«Sì, è mancato. In altre sedi no, non è mancato. Qui forse non c’è stato altrimenti, penso, avrebbe dovuto citare anche l’Islam. Sarebbe stato un passaggio difficile. E il non farlo qui sarebbe diventato probabilmente un problema per il Vaticano».
Lei ha insistito sulle conversioni forzate. Cosa aspettate ora dal Vaticano?
«Gesti concreti e indicazioni precise. Non si può andare alla cieca. E poi dobbiamo calcolare che parliamo di persone ormai anziane che rischiano di ritrovarsi con questo pacco dono: "Tu sei ebreo..." Comunque sarebbe un gesto importante. Nel 1945 il rabbino capo di Israele recuperò in Francia molti bambini ebrei convertiti. Alcuni scelsero liberamente di rimanere cattolici. Uno di loro diventò il cardinale di Parigi, Jean-Marie Lustiger».
Rabbino, lei ha chiesto accesso agli archivi vaticani per studiare su Pio XII. Ha detto di «ritenere implicita» la richiesta di un rinvio della beatificazione. Conferma?
«Sì, per me la cosa è implicita. Se si chiede agli storici di studiare, significa che un itinerario si sospende. È bene aprire presto gli archivi e capire».
È chiuso il suo dissidio col rabbino Laras?
«Vorrei precisare che la discussione tra me e Laras era sull’opportunità politica su un rinvio della visita. Io ero per farla subito, lui per procrastinarla. Una normale discussione per risolvere un problema. Né Laras né io eravamo a favore della beatificazione di Pacelli...»
Ora quale futuro atteggiamento vaticano vi aspettate?
«Attenzione e rispetto per la nostra sensibilità. E che problemi difficili che ci riguardano possano essere discussi prima delle decisioni». Naturalmente su Pio XII... «Nessuno vuole limitare la loro libertà e capacità di decidere. Ma se la cosa ci riguarda occorre il dialogo per fare chiarezza».

Il FOGLIO - Giorgio Israel : " La visita del Papa in sinagoga è stata un successo, altroché "


Giorgio Israel

Alla vigilia della visita del Papa Benedetto XVI alla sinagoga di Roma, il rabbino capo Riccardo Di Segni aveva osservato – riferendosi al confronto di opinioni sull’opportunità della visita stessa – che sarebbe stato il tempo a decidere chi aveva avuto ragione. Il tempo è stato molto più breve del previsto: l’esito della visita ha dato chiaramente ragione a chi l’aveva voluta e ha tenuto ferma la barra perché si svolgesse. La spiegazione è semplice: questa visita ha avuto un valore storico perché è stata un esercizio concreto e costruttivo di dialogo e non una manifestazione di principio e di metodo circa l’opportunità del dialogo – e usiamo questo termine per comodità di discorso poiché, come anche stavolta è emerso dalle parole del Papa, ciò che unisce ebraismo e cristianesimo è qualcosa di più profondo di un semplice “dialogo”. Pesava su tutto l’immagine emozionante della visita del 1986 di Giovanni Paolo II: un evento storico, epocale, che ha invertito in modo radicale un corso storico secolare intriso di drammi. Un simile evento non poteva essere semplicemente ripetuto, copiato. Dopo 24 anni non poteva non esserci forse qualcosa di meno sul piano dell’emozione, certamente qualcosa di più sul piano della comprensione e del dialogo effettivo. Chi voleva fermarsi all’evento del 1986, auspicandone tutt’al più una sorta di clonazione, oppure poneva condizioni preliminari, sbagliava. Difatti, la portata della visita di Giovanni Paolo II veniva così ridotta a una celebrazione retorica anziché a un atto concreto paragonabile all’apertura di porte sbarrate da tanto tempo, e solo raramente violate da entrambe le parti dalla scorribanda di qualche spirito audace. Quando le porte si aprono non si può restare sulla soglia. Occorre varcarla con decisione, e camminare sul terreno aperto, a costo di inciampare su qualche sasso. Forse l’aspetto più sorprendente, quasi inatteso dell’incontro dell’altroieri – e che gli attribuisce un valore storico non inferiore al precedente – è che esso ha permesso di toccare con mano il cammino compiuto in questi anni. Molto più di quanto si fosse immaginato. Per questo abbiamo scoperto che il tempo aveva già deciso per conto suo chi aveva ragione. Questo non significa affatto che le difficoltà siano state superate. Significa che le difficoltà o i dissensi sono divenuti oggetto di un confronto amichevole, fraterno e non una questione pregiudiziale di tale confronto. Ha avuto ragione chi ha ritenuto che il tempo delle pregiudiziali fosse ormai dietro le spalle e che si era oltre le porte aperte dalla visita del 1986 e che bisognava continuare a camminare e a parlare. E parlare non significa fare celebrazioni retoriche; mentre smettere di parlare poteva essere l’errore più grave. Molte sono le ragioni per cui l’incontro di domenica scorsa ha permesso di percepire il cammino compiuto, e cercherò di dirne alcune, ma esso è forse rappresentato vividamente da un mutamento linguistico: se gli ebrei erano indicati nel 1986 come i “fratelli maggiori” dei cristiani, ad essi Benedetto XVI si è sistematicamente riferito come al “popolo dell’Alleanza” – alleanza irrevocabile – riprendendo un’espressione usata da Giovanni Paolo II nel 2000 davanti al muro del tempio a Gerusalemme. Tra queste due espressioni vi è un cammino che è emerso dal discorso del presidente della comunità romana, Riccardo Pacifici, un discorso perfettamente calibrato e di grande valore, il quale ha messo subito l’incontro sui binari di un dialogo autentico, non diplomatico o di maniera. Ha ricordato Pacifici che, nel 1986, il rabbino capo Elio Toaff aveva auspicato un impegno comune di ebrei e cristiani contro l’apartheid in Sudafrica e a favore della libertà religiosa in Unione sovietica e che entrambi questi obiettivi sono stati conquistati. Sempre nel 1986 l’allora presidente della comunità Giacomo Saban aveva auspicato l’apertura di relazioni diplomatiche fra lo stato d’Israele e lo stato del Vaticano e anche questo sogno si è avverato nel 1993. Pacifici ha sottolineato che Benedetto XVI era il primo vescovo di Roma ad aver reso omaggio alla lapide di Stefano Tachè, vittima di un attentato terroristico palestinese. Di qui sono emersi i temi che dovranno essere oggetto di iniziative comuni: la lotta contro il razzismo, la xenofobia e l’intolleranza, la questione del fondamentalismo islamico e della minaccia che esso rappresenta per Israele e il popolo ebraico. Sarebbe vano e retorico deprecare il razzismo e l’antisemitismo se non se ne combattesse la più inquietante e perversa manifestazione, mirante ad annientare lo stato d’Israele nel quadro di una visione esplicitamente antisemita e negatrice della Shoah. Un’altra grande questione comune sollevata da Pacifici è la necessità di agire per fermare lo sterminio di cristiani in molti paesi asiatici e africani e la mancanza di reciprocità religiosa che rende impossibile in quei paesi costruire una chiesa o una sinagoga. Altrettanto autentico è stato il bel discorso del rabbino capo Di Segni che ha affrontato limpidamente le questioni cruciali: la memoria dell’antigiudaismo cristiano legata al ricordo delle processioni con cui gli ebrei erano costretti a rendere omaggio, in modo umiliante, ad ogni Papa appena eletto e che contrasta con lo stato presente dei rapporti ebraico-cristiani; la rinascita dello stato di Israele, entità politica, ma anche “terra d’Israele”, non tanto “terrasanta”, quanto “terra di Colui che è Santo” e promessa di Dio al popolo dell’Alleanza. Riprendendo il tema del rapporto tra fratelli evocato da Giovanni Paolo II nella visita del 1986, Di Segni ha ricordato le drammatiche storie di rapporti tra fratelli nella Bibbia poi felicemente culminate nella riconciliazione finale tra Giuseppe e i suoi fratelli ed ha chiesto con franchezza: “A che punto siamo di questo percorso e quanto ci separa ancora dal recupero di un rapporto autentico di fratellanza e comprensione; e cosa dobbiamo fare per arrivarci?”. Una domanda sincera che stava già tutta entro un cammino che costruisce quel rapporto nei fatti e nell’autenticità e non nelle questioni di metodo e nelle pregiudiziali e che è sfociata nella dichiarazione che “le visioni condivise e gli obiettivi comuni” devono essere messi avanti a una storia drammatica, ai problemi aperti e alle incomprensioni persistenti. Benedetto XVI è una persona straordinaria, “complessa” – per dirla con Di Segni – perché l’evidente emozione con cui ha seguito tutti gli istanti dell’incontro si è inquadrata in una compostezza attentissima che ha proiettato un’immagine di grande intensità spirituale. Un teologo di grande razionalità – lo si è detto molto sottovalutando talvolta la partecipazione spirituale di cui è intessuta questa razionalità. Questa disposizione si è riflettuta nel discorso del Papa, tanto limpido e organizzato quanto intenso e commosso. Abbiamo udito una condanna senza appello della Shoah, identificata come il massimo crimine contro l’umanità, in quanto tentativo di distruggere quel Dio di Abramo “che parlando sul Sinai stabilì i criteri orientativi dell’umanità che restano validi in eterno” – parole tanto più significative in quanto provenienti da un Papa tedesco. Abbiamo udito un ricordo commosso della deportazione degli ebrei romani e dell’“orrendo strazio con cui vennero uccisi ad Auschwitz”. E abbiamo udito una deplorazione per tutto ciò che i cristiani hanno potuto fare per “favorire in qualche modo le piaghe dell’antisemitismo e dell’antigiudaismo” – e va sottolineata l’importanza che siano stati usati entrambi i termini, additando così sia le responsabilità nell’antigiudaismo religioso che le complicità con l’antisemitismo razziale. Abbiamo soprattutto udito la riproposizione della visione di Benedetto XVI circa il rapporto tra ebraismo e cristianesimo che rende inevitabile per un cristiano incontrare l’ebraismo, a meno di non negare sé stesso, e che costituisce la specifica “differenza” rispetto ai rapporti con le altre religioni non cristiane e che ne fa qualcosa di molto di più di un dialogo. Di qui le implicazioni per un cammino futuro. Il comune riconoscimento della centralità del Decalogo come “faro e norma di vita”, “codice etico dell’umanità”, indica obiettivi comuni, in particolare la difesa del valore della persona umana, della sua dignità e libertà, del valore della famiglia come “cellula essenziale della società” in cui si apprendono le “virtù umane”. E come questo valore potrebbe non essere sentito dall’ebraismo che affida tanta parte delle sue celebrazioni più sacre alla famiglia? Sono emerse altre questioni, in particolare quelle che sembravano dover compromettere l’incontro, come il giudizio sull’operato del Papa Pio XII. Le differenze di giudizio sono apparse evidenti ma è saggio affidarle alla storiografia, nella consapevolezza che questa non è una scienza esatta capace di fornire conclusioni indiscutibili al pari di un teorema matematico e che le questioni di beatificazione appartengono alla libera e autonoma scelta della chiesa cattolica. Chi scrive non ha vincoli di ufficialità e si sente libero di concludere osservando che ha perso chi, da entrambi i lati, ha scommesso sulle ombre del passato e sulla diffidenza. Ha perso chi si è lasciato condizionare da logiche di schieramento politico, rigettando l’idea di un dialogo che non si svolga sotto l’ombrello di un’ideologia “progressista” e che considera inconcepibile ogni rapporto con un Papa considerato aprioristicamente come “reazionario”. Ha perso chi preferisce vedere uno stuolo di integralisti islamici sdraiati davanti al Duomo di Milano piuttosto che avere rapporti con il mondo ebraico e indulge a inaccettabili paragoni tra Gaza e Auschwitz. Ha vinto chi ha scommesso sul futuro e sulla fiducia reciproca.

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