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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa - Corriere della Sera Rassegna Stampa
19.01.2010 Si è concluso il primo anno di amministrazione Obama. Qualche successo?
Analisi di Maurizio Molinari, Antonio Ferrari

Testata:La Stampa - Corriere della Sera
Autore: Maurizio Molinari - Antonio Ferrari
Titolo: «Obama il cambiamento è una fede - Tornano le minacce. La risposta: droni e CIA - È l’ora delle sanzioni all'Iran»

Obama ha appena concluso il suo primo anno da presidente degli Stati Uniti.
Il CORRIERE della SERA di questa mattina dedica diversi articoli all'argomento. Nel suo commento, Massimo Gaggi sostiene che se la percentuale di americani soddisfatti di Obama continua a scendere, la colpa è dei repubblicani che, invece di collaborare con lui, remano contro. Stessa tesi sostenuta da Jonathan Franzen, intervistato da Alessandra Farkas. Più che dei repubblicani, la responsabilità è di Obama, delle promesse fatte in campagna elettorale e non mantenute e della sua fallimentare politica estera.
Il commento di IC è contenuto nella Cartolina da Eurabia di Ugo Volli di questa mattina, pubblicata in altra pagina della rassegna

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 19/01/2010, a pag. 1-17, l'editoriale di Maurizio Molinari dal titolo " Obama il cambiamento è una fede ",a pag. 12, due suoi articoli titolati " Tornano le minacce. La risposta: droni e CIA " e " È l’ora delle sanzioni all'Iran ".
Dal CORRIERE della SERA, a pag. 20, l'articolo di Antonio Ferrari dal titolo " Prima la mano tesa, poi l'immobilismo. I musulmani sono delusi ". Ecco i pezzi:

La STAMPA - Maurizio Molinari : " Obama il cambiamento è una fede "

Barack Obama inizia il secondo anno di presidenza dal pulpito della chiesa battista di Vermont Avenue, a Washington, con un discorso in cui quasi si scusa con la nazione: «Non tutte le promesse di cambiamento fatte lo scorso anno sono state mantenute». A spingere l’ex candidato idealista fautore del «Change» a questa ammissione assai pragmatica è quanto sta avvenendo attorno a lui: la disoccupazione è cresciuta fino al 10 per cento, i soldati che combattono in Afghanistan sono saliti a 100 mila e la battaglia per le grandi riforme al Congresso si è arenata di fronte ad uno scontro duro fra democratici e repubblicani che ha azzerato i progetti di legislazione bipartisan. Senza contare che la riforma della Sanità destinata a curare 31 milioni di poveri, cavallo di battaglia del presidente, aspetta oggi con il fiato in gola l’esito del voto nello Stato del Massachusetts dove i repubblicani possono strappare ai democratici un seggio decisivo del Senato.
Per i conservatori, come scrive James Ceaser sul magazine «Weekly Standard», questa è la fotografia di un Paese dove Obama «registra la più sensibile caduta nei sondaggi nella storia recente» a causa dei numerosi e vistosi errori compiuti, ma ciò che più preoccupa la Casa Bianca è quanto sta avvenendo nelle roccaforti del pensiero democratico, da dove arrivano siluri ancor più insidiosi.

Prima fra tutte la «Brookings Institution» di Strobe Talbott che pubblica un saggio di Simon Serfaty intitolato «I limiti dell’audacia» nel quale si rimprovera a Obama di aver «dimostrato inconsistenza strategica fino al punto dell’avventatezza tattica».
Obama ha preferito il desiderabile al fattibile e il giocoliere all’architetto, si legge nell’atto d’accusa verso un’agenda globale di politica estera e di sicurezza ispirata a concetti vaghi come gli «interessi comuni» e «l’impegno per la pace» che garantiscono al presidente record di apprezzamento positivo all’estero e negativo in patria. Sul fronte economico l’affondo più aspro arriva dalla corazzata liberal del «New York Times» di Bill Keller, il cui economista e premio Nobel Paul Krugman chiama in causa l’«eccesso di timidezza» di misure fiscali «non abbastanza grandi» per consentire la ripresa dell’occupazione. Come dire: Obama non ha il coraggio di essere keynesiano fino in fondo. A leggere assieme i rimproveri della Brookings e di Krugman è E. J. Dionne, editorialista del «Washington Post» e fra i sostenitori più decisi di Obama, secondo il quale se è in difficoltà è perché «non sta seguendo l’esempio di Ronald Reagan», il presidente-simbolo dei conservatori che, quando al termine del primo anno alla Casa Bianca registrò un analogo brusco calo nei sondaggi, reagì lanciando un’offensiva ideologica a tutto campo contro gli avversari liberal. Assediato dai repubblicani che lo accusano di «uno statalismo destinato ad affondare il bilancio e indebitare le future generazioni» e rimproverato dai democratici di non essere stato abbastanza liberal nelle scelte compiute su economia, sicurezza, aborto e sorte di Guantanamo, Obama sta saggiando quelli che Dan Balz sul «Washington Post» definisce «i limiti del pragmatismo» in America, ovvero la difficoltà di tentare di governare dallo Studio Ovale uscendo dalla contrapposizione ideologica originata dai disaccordi sul 1968. All’idealismo del candidato eletto con una valanga di voti perché fautore del «cambiamento» sono infatti seguiti 12 mesi di amministrazione durante i quali Obama ha provato a governare in maniera pragmatica: offrendo il dialogo agli avversari e cercando soluzioni condivise ai problemi comuni. Ma il tallone d’Achille di questo approccio sta, come osserva Margaret Warner della tv Pbs, nell’«assenza di risultati». Se nel primo anno di presidenza l’America dà fiducia a chi ha eletto, subito dopo non ha più pazienza, chiede risultati visibili che Obama in questo momento non è in grado di consegnare. A cominciare da quello più importante: la ripresa dell’occupazione. Essendo stato eletto sull’onda della crisi finanziaria del settembre 2008 che spinse il ceto medio bianco impoverito lontano dai repubblicani, Obama vede il suo destino politico legato alla capacità di risollevare le entrate e i consumi di questo cruciale segmento dell’elettorato. Nel discorso di Vermont Avenue è stato lo stesso Obama ad ammetterlo, tradendo tensione emotiva: «La disoccupazione è ancora troppo alta». Ma subito dopo ha difeso il suo approccio: «Se resto calmo di fronte a tali difficoltà senza precedenti è perché ho fede nel cambiamento come l’aveva Martin Luther King». Obama dunque non cambia strada né ricetta, resta convinto di poter riuscire a «unire l’America divisa» proponendo non soluzioni politiche di parte ma quelle da lui ritenute le migliori a disposizione. E’ una scommessa in contraddizione con la recente storia politica americana e, osserva lo storico Michael Barone, che conferma l’anomalia del personaggio-Obama. Che può spingersi a rischiare tanto perché sul fronte opposto ancora non si intravede un leader conservatore in grado di insidiare il suo - seppur indebolito - primato di popolarità.

La STAMPA - Maurizio Molinari : " Tornano le minacce. La risposta: droni e CIA "

Obama ha sostituito l’espressione di Bush «guerra al terrorismo» con «lotta agli estremisti violenti» ma combatte ancor più del predecessore al fine strategico di «smantellare, sconfiggere e distruggere Al Qaeda», da lui stesso illustrato parlando ai cadetti di West Point. L’accordo con l’Iraq per il ritiro del grosso delle truppe entro agosto e degli ultimi soldati entro il dicembre 2011 mantiene la promessa fatta agli elettori ma i tempi sono simili a quelli che erano stati pianificati del predecessore mentre la base liberal premeva per accelerarli.
In Afghanistan la decisione di portare il contingente a 100 mila uomini nasce dalla convinzione che quella contro Al Qaeda sia una «guerra giusta» e preannuncia l’intensificazione dei combattimenti con i taleban - e il conseguente aumento delle vittime americane - dalla primavera mentre non pochi deputati e senatori democratici puntavano a procedere con chiarezza verso il disimpegno. Obama conquista favori fra i conservatori, e lascia perplessi molti liberal, anche per combatte anche sugli altri fronti: in Pakistan adopera i droni della Cia per bombardare i jihadisti, in Yemen sostiene le truppe governative nelle operazioni anti-Al Qaeda e in Somalia ricorre alle truppe speciali contro le milizie degli Shebaab. A guidarlo sono i consigli del Segretario di Stato Hillary Clinton e del ministro della Difesa Robert Gates oltre ai memorandum della Cia di Leon Panetta che descrivono molteplici piani di Al Qaeda per colpire gli Usa con attacchi più devastanti dell’11 settembre 2001. Sul fronte interno il fallito attentato di Natale al volo 253 Amsterdam-Detroit e la strage di Fort Hood spingono a rivedere la sicurezza interna e aumentare la prevenzione, aumentando in particolare la sorveglianza sui gruppi islamici americani. Ed è questo che fa temere violazioni dei diritti umani ai gruppi per le libertà civili già contrariate per il ritardo nella chiusura del carcere di Guantanamo.

La STAMPA - Maurizio Molinari : " È l’ora delle sanzioni all'Iran "

La possibilità che Teheran ottenga l’atomica è la maggiore preoccupazione di politica estera del momento per gli Stati Uniti. Obama non ha lesinato nel corso dell’anno aperture a Teheran credendo nel dialogo per ottenere lo stop al nucleare: emissari, lettere segrete, incontri bilaterali, discorsi radio-tv e appelli al «rispetto comune» non hanno però spinto la Repubblica Islamica ad accettare il pacchetto di incentivi concordato con Ue, Russia e Cina.
Ecco perché adesso Obama si avvia su un binario diverso, il varo di più rigide sanzioni, ma anche qui il percorso si annuncia accidentato perché se l’Unione Europea e la Russia sembrano favorevoli, la Cina si oppone. Lo scenario di un’impasse sull’Iran espone Obama al rischio di apparire un presidente inefficace, tanto nel dialogo che nel confronto, senza contare le critiche ricevute in patria per il ritardo nel sostenere le manifestazioni dell’opposizione iraniana.
Obama resta però convinto della sua ricetta: occorre un forte raccordo internazionale contro la proliferazione e niente interferenze in Iran. È un approccio che il presidente americano condivide con Mosca. La vera novità strategica del primo anno è il «reset» dei rapporti con il Cremlino che ruota attorno all’Iran: Obama ha rinunciato alla versione della difesa antimissile di Bush per sostituirla con un’altra che Mosca condivide. Col Cremlino c’è accordo anche sull’accelerazione verso la nascita dello Stato di Palestina a fianco di Israele mentre manca l’intesa sul nuovo Start.

CORRIERE della SERA - Antonio Ferrari : " Prima la mano tesa, poi l'immobilismo. I musulmani sono delusi "

Il mondo musulmano, che aveva seguito con curiosità e partecipazione la campagna elettorale di Obama, era rimasto prima incredulo poi ammirato all’annuncio che gli Usa avevano scelto il primo presidente afroamericano. La seduzione non era soltanto provocata dal nome dell’eletto (Barack Hussein) e dal colore della pelle, ma dalla consapevolezza che la più grande potenza del mondo avesse deciso di imprimere una svolta alla sua storia. Le reazioni si erano polarizzate su quattro distinte posizioni: gli entusiasti: «Farà quello che i predecessori non hanno avuto il coraggio di fare». Gli scettici: «Gli Usa non cambieranno mai. Sempre e comunque a fianco di Israele». I pragmatici: «Vediamo che cosa farà. Senza illusioni». I negativi: «Sarà come tutti gli altri: un nemico». Il discorso in Turchia e subito dopo quello del Cairo, pronunciati con accorata convinzione dal neopresidente, avevano cercato di avvicinare le quattro posizioni. Se da una parte, infatti, Obama sosteneva con forza il diritto dei palestinesi ad avere il loro Stato a fianco di Israele, dall’altra si impegnava ad evitare le scorciatoie dei tavoli separati, annunciando di impegnarsi per un processo di pace globale. Non solo. La mano tesa, con l’invito a sciogliere il pugno (riferito all’Iran ma anche ai talebani dell’Afghanistan) era stato il sigillo al suo pensiero. Obama aveva escluso ogni richiamo a guerre di religione e di culture, riconoscendo il valore dell’Islam e la sua positiva influenza nella storia del mondo. Un anno dopo, la seduzione è finita anche se non sono svanite tutte le speranze. Per ora, Obama ha fatto assai poco per affrontare i problemi di quel Grande Medio Oriente di cui parlava il suo predecessore. Prudenza comprensibile. La minaccia iraniana, invece di ridursi, si è accentuata. Il terrorismo internazionale, figlio del fanatismo islamico, è tornato ad aggredire l’Occidente. E i nodi cruciali della regione, a cominciare dal problema palestinese, sono come congelati, fermi, immobili. Pare che le parti abbiano compreso che, per il momento, non esistono vie d’uscita. Ai musulmani la pazienza non fa difetto. Ma quel che verrà dopo l’immobilismo, nessuno lo sa. Forse neppure Obama.

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