Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Visita in sinagoga: un'accoglienza di altissimo livello Cronache, commenti, di Angelo Pezzana,Ugo Volli, Fiamma Nirenstein, Franco Garelli, Claudio Gallo, Gian Guido Vecchi, interventi di Riccardo Pacifici,Renzo Gattegna, Riccardo Di Segni, , B-XVI
Testata:Il Giornale - La Stampa - Corriere della Sera Autore: Fiamma Nirenstein - Franco Garelli - Claudio Gallo - Gian Guido Vecchi Titolo: «Un discorso pieno d’affetto ma non ha mai citato Israele - Nessuno può dirsi soddisfatto - Presenti per dire che possiamo vivere insieme - Il Papa nella sinagoga di Roma: via la piaga dell’antisemitismo»
La visita di Benedetto XVI al Tempio Maggiore di Roma è stato un fatto rilevante, qualunque lettura se ne voglia dare. I commenti che seguono evidenziano le diverse interpretazioni. Da parte nostra vogliamo sottolineare un aspetto, quello dell'accoglienza, che ci è sembrato di altissimo livello. Il discorso di apertura di Riccardo Pacifici sarà ricordato per la qualità delle argomentazioni, profondamente equilibrato, con una capacità indubbia nel non avere tralasciato nulla di quanto doveva essere detto. Un discorso politico, nel quale ha dosato sapientemente gli elementi positivi dell'incontro senza nascondere i contrasti che tuttora permangono sul passato e sul presente della Chiesa cattolica nel suo rapporto con gli ebrei. Aggiungiamo la forte partecipazione, diciamo pure commozione, che ha caratterizzato le sue parole. Non sappiamo se la Santa Sede, abituata a ben altre circonlocuzioni diplomatiche, avrà apprezzato tanta sincerità. Noi sì. Insieme agli interventi successivi - che riportiamo in questa pagina, seguiti da quello del Papa - le parole di Pacifici sono state quelle di un leader ebraico che segnano un legame, diretto e inalienabile della diaspora con lo Stato d'Israele. Lo ricordino oltre Tevere, l'antisemitismo, che il Papa ha severamente condannato, può assumere molti aspetti, tra questi anche l'abitudine di chiamare terra santa uno Stato che risponde al nome di Israele. Angelo Pezzana
Ecco il commento di Ugo Volli sull'intervento di Benedetto XVI:
Oltre all'aspetto politico e storico, il discorso del Papa alla Sinagoga di Roma ha avuto un lato teologico, che ha occupato buona parte del suo spazio. Su questo piano il Papa ha sostenuto fra l'altro una tesi importante: in sintesi che la promessa fatta al popolo ebraico è eterna e sempre valida. E' un punto particolarmente significativo, perché da Paolo di Tarso in poi la Chiesa ha spesso preteso che, non avendo Israele riconosciuto la divinità di Gesù, esso è decaduto dalla sua missione ed ora è la Chiesa il "verus Israele". Questa teologia della sostituzione ha giustificato le violenze più o meno estreme che la Chiesa ha inferto agli ebrei a partire dall'impero di Costantino e fino all'Ottocento: i ghetti, i roghi di testi sacri, le espulsioni, le conversioni estorte e imposte, i pogrom e le stragi vere e proprie. A partire dal Pontificato di Giovanni XXIII la Chiesa ha riconosciuto che il messaggio evangelico non annulla l'elezione di Israele, e dunque ha proposto un rapporto di "fratellanza" fra le due religioni. Nel discorso del papa questa tesi è espressa con grande chiarezza, insieme alle scuse per "antisemitismo e antigiudaismo", messi assieme com'è giusto. Più che il "velato" accenno al silenzio di Pio XII e l'assente rimando a Israele, è qui il contenuto positivo della visita. Ugo Volli
Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 18/01/2010, a pag. 12, il commento di Fiamma Nirenstein dal titolo " Un discorso pieno d’affetto ma non ha mai citato Israele". Dalla STAMPA, a pag. 1-27 l'articolo di Franco Garelli dal titolo " Nessuno può dirsi soddisfatto ", preceduto dal nostro commento, a pag. 3, l'articolo di Claudio Gallo dal titolo " Presenti per dire che possiamo vivere insieme ". Sempre sulla STAMPA, segnaliamo l'articolo di Lucia Annunziata, che non riportiamo, un'analisi per molti versi condivisibile. Dal CORRIERE della SERA, a pag. 2, la cronaca di Gian Guido Vecchi dal titolo " Il Papa nella sinagoga di Roma: via la piaga dell’antisemitismo ".
A fondo pagina pubblichiamo i discorsi di Riccardo Pacifici, Presidente della Comunità Ebraica di Roma, Renzo Gattegna, Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Riccardo Di Segni, Rabbino capo della Comunità Ebraica di Roma, Papa Benedetto XVI. Per quanto riguarda Pio XII e la Shoà, invitiamo a cliccare sul link sottostante per leggere il documento : " Pio XII definì 'meritevoli' le leggi razziali "
Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein : " Un discorso pieno d’affetto ma non ha mai citato Israele "
Ine ma tov u ma naim shevet ahim beyahad. Com’è bello e com’è dolce sedersi insieme da fratelli. Il salmo lo dice, e ieri non è stata retorica: quando lo hanno ripetuto sia Rav Di Segni che Benedetto XVI alla sinagoga di Roma, l’ha cantato il coro, si è avuto il senso di come sia possibile cambiare, svoltare, forgiare la storia con la volontà. Quante ferite nel rapporto fra cristiani e ebrei, e quale ammirevole gesto di amicizia. Il pubblico fitto degli ebrei romani ieri ha riempito la sinagoga, ha coperto di affetto e di rispetto Papa Ratzinger, e Papa Ratzinger ha a sua volta dardeggiato simpatia, per quello che si può capire dal sorriso timido e tutto preso nel suo ragionamento, con molteplici sguardi e segni personali affettuosi agli ex deportati e a Rita Levi Montalcini, oltre che alla sinagoga calda, cerimoniale, ecumenica con gli alti cappelli, gli abiti, i tallit roteanti, i canti tenorili e ben intonati, che solo a Roma sono così italiani. L’antisemitismo e la Shoah sono stati protagonisti del discorso del Papa, il puntiglio della memoria che ha ripercorso la tragedia ebraica risponde chiaramente alle polemiche sui vescovi lefebvriani (come dire «non ho un briciolo di simpatia per le loro tesi»), la lode per chi cercò di salvare gli ebrei ha messo un punto personale sulla polemica su Pio XII: take the best, forget the rest, prendiamo ciò che c’è stato di buono e dimentichiamo le mancanze, dedichiamoci insieme alla memoria dei giusti. Del resto il bel discorso del presidente Riccardo Pacifici della comunità romana gliene aveva dato l’offa, da una parte condannando i colpevoli silenzi e dall’altra ricordando le suore che hanno salvato suo padre Emanuele bambino nascondendolo. Il Papa ha detto in sostanza: «Non dimentichiamo i giusti, e noi ricorderemo sempre con intenzione e determinazione la Shoah, e così sconfiggeremo l’antisemitismo». La storia ebraico cristiana, difficile, tragica, non è volata via, ma ha lavorato, elaborato, con le sue falle, ma in avanti. Ebrei e cattolici ieri hanno messo qualche mattone a un patto di amicizia «in progress» inaugurato nel ’63 da Giovanni XXIII: in nome dei dieci comandamenti, dell’unicità del Creatore, dell’amore per la vita... buone ragioni ne sono state date a bizzeffe. Vedere curare una ferita plurimillenaria è come restituire la vita a un animale preistorico. È entusiasmante. Giustamente i discorsi dei protagonisti ebrei, entusiasti e benedicenti, erano però cauti, un po’ sospettosi. Qualcosa dentro punge, ricorda gli ebrei romani rotolati nella pece e nelle piume, tenuti prigionieri nel ghetto, ricorda le deportazioni su cui ci fu il silenzio della Chiesa. Ha detto orgoglioso Rav Di Segni: «Eravamo chiusi, limitati nei movimenti. Con l’epoca della libertà è venuta quella della pari dignità e del rispetto reciproco. Qui è la base del dialogo». Il discorso del Papa è stato addirittura audace nell’affettuosità, nello scorgere identità e analogie; forse più esposto, ma incerto e perplesso su alcuni punti fondamentali, come l’evangelizzazione e Israele. Punti difficili da delimitare teologicamente, così che poi non si è capito bene cosa volesse dire che gli ebrei per formazione, per origine, sono già predisposti alla vera religione, che naturalmente per un Papa non può essere che la sua. E soprattutto, benché variamente lodato per la grande svolta del riconoscimento di Israele che la Chiesa intraprese con Giovanni Paolo II, e per il suo viaggio, il Papa ne ha riportato la memoria nominando ben quattro volte la «Terra Santa». Non ce l’ha fatta, non ha voluto proferire il nome che gli ebrei amano più, cui appartengono tutti: Israele. È strano: avevamo ipotizzato che ormai la Chiesa, riconoscendo, come ha fatto, Israele, avesse rinunciato a negare questo nome agli ebrei, facendosi il verus Israel. Siamo certi che il Papa non pensa che perché la Chiesa abbia un senso Israele non debba portare il suo nome.
Di Segni ha individuato in una comune battaglia per salvare la Terra dalla rovina ecologica un bel programma futuro. È un’idea gentile e non controversa; tuttavia abbiamo la sensazione che l’impellenza più netta dell’alleanza ebraico-cristiana sia la difesa della democrazia e dei diritti umani, da grosse, pericolose forze che le attaccano, prima fra tutte l’integralismo islamico che odia sia cristiani che ebrei. Cristiani e ebrei, dice giusto il Papa, sono sullo stesso fronte nella battaglia per la vita e per la pace. La parola pace, shalom, è stata ripetuta da tutti. Ma quando sentiremo parlare i capi religiosi di che cosa fare, qui, nel mondo, sul campo, perché la pace non venga scardinata da forze malefiche al lavoro? O il male è stato bandito a nostra insaputa?
La STAMPA - Franco Garelli : " Nessuno può dirsi soddisfatto "
Garelli scrive : " La visita del Papa alla Sinagoga di Roma è stata abbellita dalla inedita presenza di una delegazione della grande moschea della capitale ". I musulmani presenti erano una delegazione del COREIS (al riguardo vedere l'articolo di Claudio Gallo, pubblicato in questa pagina), che non ha nulla a che vedere con la grande moschea di Roma, in mano all'UCOII. Ecco l'articolo di Garelli:
Franco Garelli
E’ stato senza dubbio un incontro dal valore storico, ma che non poteva sorvolare sulle spine che da tempo ostacolano i rapporti tra la chiesa cattolica e gli Ebrei. La visita del Papa alla Sinagoga di Roma è stata abbellita dalla inedita presenza di una delegazione della grande moschea della capitale, che però non ha spostato l’asse di fondo della riflessione e del confronto. Tra i protagonisti dell’evento vi sono state molte attenzioni reciproche, importanti accenni al ruolo essenziale (sui temi della spiritualità, della pace, dell’ecologia, della solidarietà umana) che le grandi religioni storiche devono avere nel mondo; ma soprattutto gli esponenti della comunità ebraica, e in parte anche il Papa, non hanno mancato a più riprese di richiamare i problemi che oggi condizionano il reciproco riconoscimento tra le due fedi religiose.
Così Benedetto XVI, accennando ieri all’Angelus che nel pomeriggio si sarebbe recato al Tempio Maggiore, ha ricordato il clima di dialogo che oggi intercorre tra cattolici e ebrei «malgrado i problemi e le difficoltà»; mentre ancora più espliciti sono stati gli accenni ai problemi tra le due confessioni religiose fatti durante la visita da esponenti della comunità ebraica, che in vari passi dei loro discorsi sembravano riferirsi ad un clima di rapporti tra cattolici ed ebrei che si sta complicando nel tempo. C’è chi ha parlato di «ferite ancora aperte», chi ha auspicato che non si perda il clima del Concilio; chi ha ricordato i «padri e gli zii» che durante la Shoah hanno trovato rifugio nei conventi delle suore cattoliche ma anche il «silenzio dell’uomo» (con un riferimento che a molti è sembrato rivolto a Pio XII) «che ci interroga, ci sfida e non sfugge al giudizio». Chi ancora ha detto che bisogna porre in primo piano le visioni condivise e i comuni obiettivi «malgrado una storia drammatica, i problemi aperti e le incomprensioni». «Che cosa ancora ci separa» - si è chiesto di fronte al Papa il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni - «dal recupero di un rapporto autentico di fratellanza e comprensione?». A molti dei presenti queste parole avranno richiamato il primo pontefice a entrare in un tempio ebraico a Roma dopo San Pietro, quel Karol Wojtyla che in quell’occasione (era il 13 aprile 1986) ha spiazzato gli ebrei (e molti secoli di incomprensioni) chiamandoli «nostri fratelli maggiori». Ecco, forse ciò che è mancato nella Sinagoga di Roma ieri è stato il pathos di un incontro - come quello avvenuto 24 anni fa tra Giovanni Paolo II e il rabbino Toaff - capace di dire al mondo, anche simbolicamente, che i cattolici e gli ebrei vivono una nuova storia, che a quei tempi significava ribadire con forza la scelta del Concilio di cancellare l’accusa di deicidio al popolo ebraico e la condanna dell’antisemitismo e dell’antigiudaismo. Ovviamente ieri Benedetto XVI non ha mancato di porsi in continuità col cammino di amicizia con gli ebrei indicato da Papa Wojtyla, così come ha deplorato a più riprese il dramma sconvolgente della Shoah, riconoscendo qualche silenzio di troppo di alcuni figli della chiesa al riguardo. Ma ha anche ricordato che la Santa Sede ha allora svolto un’azione di soccorso «spesso nascosta e discreta»; come a dire che sull’operato di Pio XII le valutazioni storiche possono essere diverse e che una forte presa di posizione pubblica da parte del Papa avrebbe potuto avere ripercussioni più negative sulla condizione degli ebrei di quelle che si sono verificate. Pur a fronte di rapporti rinsaldati, le ombre che attualmente incombono tra la chiesa cattolica e la comunità ebraica non sembrano diradarsi, sia per i tratti culturali e gli orientamenti teologici di chi dirige le due confessioni religiose sia per una stagione storica in cui in tutti i campi sembra prevalere la voglia di distinzione. Non c’è soltanto il silenzio sulla Shoah di Papa Pacelli (che Benedetto XVI vuole beatificare) a dividere le due comunità, o l’apertura del Papa a vescovi lefebvriani che ancor oggi non ripudiano la Shoah. Ma la contesa può riguardare temi più ampi, come l’interpretazione del messianesimo, che per Israele è ancora del tutto aperto, mentre per la chiesa cattolica il messia ha un nome ed è Gesù Cristo. Oppure i problemi connessi alla politica religiosa dello Stato di Israele in Terra Santa, che - a detta della chiesa cattolica - tende a isolare o ridurre la presenza delle comunità cristiane in un ambiente che per le tre religioni monoteistiche è strettamente legato all’evento della rivelazione.
La STAMPA - Claudio Gallo : "Presenti per dire che possiamo vivere insieme"
«Noi costruiamo ponti, non muri». La Comunità islamica d’Italia, rappresentata ieri in sinagoga dal presidente del Coreis, Wahid Pallavicini, si appella al Papa per dialogare con cattolici ed ebrei. «Questo incontro fa sperare che, almeno a livello intellettuale, possano ancora incontrarsi gli esponenti delle varie religioni- scrive il Coreis al Pontefice -.Il mondo ha bisogno di un ritorno alla sacralità, come all’epoca di Federico II quando i saggi delle tre rivelazioni monoteistiche, da Maimonide a Sant’Alberto Magno, fino a Muhyddin Ibn ’Arabi, si incoraggiavano vicendevolmente sulla via di Dio nella fedeltà alle loro rispettive appartenenze confessionali». Il Coreis invita il Papa «nella nostra moschea di Milano dopo il successo in Vaticano del forum cattolico-musulmano» e auspica «un’Italia in cui le autorità religiose e i credenti dei tre monoteismi risolvano insieme i problemi». E aggiunge: «Abbiamo molto da imparare da come la comunità ebraica sa difendere l’identità e la dignità degli ebrei nella storia».
CORRIERE della SERA - Gian Guido Vecchi : " Il Papa nella sinagoga di Roma: via la piaga dell’antisemitismo "
ROMA— «Terribile». Lontano dai microfoni, il Papa sosta davanti alla lapide che all’esterno ricorda il 16 ottobre 1943, il rastrellamento nazista del ghetto, «terribile», mormora, mentre ascolta la sorte dei 1.021 ebrei che finirono a Birkenau, lo sguardo fisso davanti a sé: tornarono in 17. Quando riprenderà la richiesta di «perdono» della Chiesa per le «mancanze dei suoi figli e figlie» e per «tutto ciò che ha potuto favorire in qualche modo le piaghe dell’antisemitismo e dell’antigiudaismo», esclamerà: «Possano queste piaghe essere sanate per sempre!».
L’arrivo del Pontefice alla sinagoga di Roma, quasi ventiquattro anni dopo Giovanni Paolo II, non può che cominciare da lì. «Il silenzio dell’uomo non sfugge al giudizio» dirà più tardi, nel Tempio, il rabbino capo Riccardo Di Segni: e il giudizio è quello di Dio. «Anche la Sede apostolica svolse un’azione di soccorso, spesso nascosta e discreta», alzerà lo sguardo Benedetto XVI mentre un sopravvissuto scuote la testa: ma anche Ratzinger non nomina Pacelli né parla del Papa, solo la «Sede» di San Pietro. E in queste due frasi, insieme così nette e rispettose dell’altro, c’è tutto il senso della visita del Pontefice, scandita da applausi ripetuti, al Tempio di Roma. Le differenze sulla valutazione di Pio XII e il suo silenzio restano ma «il cammino di dialogo, fraternità e amicizia» è «irrevocabile», sillaba Benedetto XVI, cattolici ed ebrei «rimangono spesso sconosciuti l’uno all’altro» ma hanno responsabilità comuni di fronte alle «sfide del nostro tempo»: la pace nel mondo e il dovere biblico di «custodire il creato» e proteggere l’ambiente, ricordano sia il Pontefice sia il rabbino. E ancora la difesa della vita, della dignità umana, la misericordia, «vivere la propria religione senza strumentalizzazione politica e senza farne strumento di odio», scandisce Di Segni, «testimoniare l’unico Dio» in un mondo che lo ritiene «superfluo» e si «fabbrica» falsi idoli, riflette Benedetto XVI. La visita «ha rasserenato il clima», sorride il rabbino capo. «La nuova stagione è solo agli inizi», dice il presidente degli ebrei italiani, Renzo Gattegna.
E certo l’attesa era grande, un silenzio perfetto ha accompagnato le prime parole di Benedetto XVI agli «amici e fratelli». Parole forti, a compimento degli innumerevoli interventi nell’ultimo anno. Il Papa ricorda l’impegno di Wojtyla per «superare ogni incomprensione e pregiudizio» e spiega: «Questa mia visita si inserisce nel cammino tracciato, per confermarlo e rafforzarlo». Parla della «stima e dell’affetto» che «il vescovo e la Chiesa di Roma, come pure l’intera Chiesa cattolica, nutrono per questa comunità e le comunità ebraiche nel mondo». Soprattutto torna sul Concilio Vaticano II, un punto decisivo, visto che l’auspicio di un’intesa con i lefebvriani— che lo contestano — aveva creato un po’ di agitazione, tra gli ebrei: «Se le aperture del Concilio venissero messe in discussione, non ci sarebbe più possibilità di dialogo», aveva appena ricordato Di Segni. E il Papa: «La dottrina del Concilio» è «un punto fermo cui riferirsi costantemente nell’atteggiamento e nei rapporti con il popolo ebraico», il cammino iniziato con la dichiarazione Nostra Aetate «è irrevocabile».
La sinagoga è colma di autorità. Tra gli altri, ci sono il rabbino capo di Haifa, Shear Yashun Cohen, il rabbino David Rosen, i cardinali Bertone e Kasper, Fini e Schifani a rappresentare i vertici dello Stato, Gianni Letta per il governo. Ma soprattutto ci sono 15 sopravvissuti ad Auschwitz. A loro vanno gli applausi più lunghi e commossi, Benedetto XVI si alza due volte a salutarli, levando le mani congiunte. Parla del «dramma singolare e sconvolgente della Shoah», mentre in sinagoga si mormora qualche dubbio sulla scelta dell’aggettivo «singolare» anziché «unico»: lo «sterminio del popolo dell’Alleanza di Mosè», che fu «sistematicamente programmato e realizzato sotto il dominio nazista». La sinagoga applaude quando nomina i cattolici che «reagirono con coraggio» per salvare gli ebrei, e tace quando parla della «Sede apostolica». Prima, era stato Riccardo Pacifici, presidente della comunità ebraica romana, a nominare Pio XII. Parlando a fatica, la voce incrinata dal pianto: «Se sono qui in questo luogo sacro, è perché mio padre e mio zio trovarono rifugio nel Convento delle Suore di Santa Marta a Firenze. Non fu un caso isolato. Per questo, il silenzio di Pio XII di fronte alla Shoah duole ancora come un atto mancato». Alla fine, resta il canto «Ani Ma’amin» dei deportati. E la voce arrochita del Papa che legge in (ottimo) ebraico il Salmo 117: «La fedeltà del Signore dura per sempre».
Riccardo Pacifici, Presidente della Comunità Ebraica di Roma
Riccardo Pacifici
Ho l'onore di porgere a Lei, Papa Benedetto XVI, Vescovo di Roma, i saluti della Comunità ebraica di Roma per la gradita visita che ha voluto riservarci in questo giorno dedicato al dialogo ebraico/cristiano e per festeggiare insieme alla nostra Comunità il Moed di Piombo. Saluto anche tutte le Autorità religiose, civili e militari, il pubblico qui presente e tutti coloro che ci seguono.
Bruchim Abbaim. Benvenuti.
Quello odierno è un evento che lascerà un segno profondo nelle relazioni fra il mondo ebraico e quello cristiano, non solo sul piano religioso ma soprattutto per la ricaduta che auspichiamo possa avere tra le persone nella società civile. La nostra è la più antica Comunità della Diaspora occidentale. Vivace, vitale, orgogliosa della propria storia, sempre più osservante delle proprie leggi e delle tradizioni. Con scuole che negli ultimi 10 anni sono caratterizzate da una crescita costante del numero degli iscritti. Una Comunità che nel corso dei secoli ma, soprattutto dopo il 1870, ha potuto dare il proprio contributo alla crescita culturale, economica e artistica non solo della nostra Città, ma dell’intero nostro Paese; che ha combattuto per l’unità d’Italia e ha difeso la Patria nel primo conflitto mondiale. Una Comunità che ha contribuito alla Resistenza e ha dato uomini politici e premi Nobel. Raccogliamo l’eredità di uomini politici come Ernesto Nathan, sindaco di Roma nei primi del '900, difensori della laicità delle Istituzioni, consapevoli nello stesso tempo di come il senso di laicità non debba mai essere in contrapposizione con il contributo che le religioni monoteiste possono dare ai più importanti dibattiti nella società in cui viviamo. La nostra vitalità è testimoniata dalle 15 Sinagoghe oggi presenti nella Capitale, più che raddoppiate rispetto a quelle presenti nel 1986, l’ultima è la Shirat HaYam, che ha visto la luce da sei mesi a Ostia. Prima di tutto, sentiamo il dovere di riconoscere che il nostro Rabbino Emerito Professor Elio Toaff - che saluto con devozione - e Giovanni Paolo II, al quale va un commosso ricordo, ebbero la capacità di comprendere quanto la collaborazione tra uomini delle nostre diverse religioni potessero, da Roma, realizzare aspirazioni e dare vita a “sogni”. Rav Toaff, nel suo storico intervento di saluto a Giovanni Paolo II nel 1986, auspicava un impegno comune contro l'Apartheid in Sud Africa e la libertà religiosa nell'Unione Sovietica; le due vicende hanno avuto felici epiloghi. Nella stessa occasione il mio predecessore professor Giacomo Saban, qui fra noi, auspicò l’apertura di relazioni diplomatiche fra lo Stato d'Israele e lo Stato del Vaticano. Questo “sogno” si è avverato nel 1993. La presenza del vice primo Ministro d'Israele Silvan Shalom e dei nostri amici, gli ambasciatori Mordechai Levy e Gideon Meir, testimonia come tali relazioni, siano per noi ebrei, tanto nella Diaspora che in Israele, sentite e condivise. Per noi ebrei lo Stato d’Israele è il frutto di una storia comune e di un legame indissolubile che è parte fondante della nostra cultura e tradizione. Un diritto, che ogni uomo che si riconosce nelle sacre scritture Bibliche sa essere stato assegnato al Popolo d’Israele. Il nostro pensiero e le nostre preghiere vanno al giovane soldato Gilad Shalit, cittadino onorario di Roma, che da 1302 giorni è prigioniero e del quale attendiamo la liberazione. Sento il dovere di sottolineare con gratitudine che Lei è il primo Vescovo di Roma che rende omaggio alla lapide del piccolo Stefano Gay Tachè z.l., prendendo atto di come questa Sinagoga di Roma sia stata teatro di un brutale atto terroristico palestinese. E’ giunto il tempo di lavorare a nuove aspirazioni. Desideriamo esprimerLe tutta la nostra solidarietà per gli inauditi atti di violenza di cui sempre più spesso le comunità cristiane sono oggetto in alcuni paesi dell’Asia e dell’Africa ed abbiamo la sensazione che il mondo occidentale non esprima sufficientemente il proprio sdegno. L’azione sui Governi dei Paesi in cui è vietato costruire una Chiesa o una Sinagoga dovrebbe essere più energica. Vigilare affinché i diritti fondamentali delle donne e la libertà religiosa vengano tutelati in democrazia e libertà. Più di un milione di ebrei sono dovuti fuggire o sono stati espulsi dai Paesi arabi, alcuni dei quali oggi non tollerano i cristiani. Nel 1967 circa cinquemila ebrei sono dovuti scappare dalla Libia e si sono rifugiati in buona parte a Roma. In tale occasione la nostra Comunità ha dimostrato la capacità d’integrazione e accoglienza di una nuova presenza, dono di vitalità e dinamismo. Desidero, inoltre, manifestarLe il nostro vivo apprezzamento per la posizione coraggiosa che Lei ha assunto sul tema dell’immigrazione. Noi, che fummo liberati dalla schiavitù in terra d’Egitto, come ricorda il primo Comandamento, siamo al Suo fianco perché tale tema venga affrontato con “giustizia”. Possiamo e dobbiamo contrastare paura e sospetto, egoismo ed indifferenza; Rafforzare la cultura dell'accoglienza e della solidarietà, dell'altruismo e della sete di conoscenza dell'altro. Dobbiamo contrastare quelle ideologie xenofobe e razziste che alimentano il pregiudizio, far comprendere che i nuovi immigrati vengono a risiedere nel nostro Continente, per vivere in pace e per raggiungere un benessere che ha forti ricadute positive per la collettività tutta. Ricordandoci che ogni essere umano, secondo le nostre comuni tradizioni, è fatto ad immagine e somiglianza del Creatore. Siamo tutti preoccupati per il fondamentalismo islamico. Uomini e donne animati dall'odio e guidati e finanziati da organizzazioni terroristiche cercano il nostro annientamento non solo culturale ma anche fisico. Questo fanatismo religioso è sostenuto anche da Stati sovrani. Tra questi Stati ci sono coloro che sviluppano la tecnologia nucleare a scopi militari programmando la distruzione dello Stato d'Israele e il conseguente sterminio degli ebrei, con l'intento ultimo di ricattare il mondo libero. Per questo, dobbiamo solidarizzare con le forze che nell’Islam interpretano il Corano come fonte di solidarietà e fraternità umana, nel rispetto della sacralità della vita. In questa Sinagoga, sono presenti oggi alcuni di questi leader musulmani e con calore e affetto sento di dar loro il benvenuto. Il peso della Storia si fa si sentire anche sull’evento di oggi con ferite ancora aperte che non possiamo ignorare. Per questo guardiamo con rispetto anche coloro che hanno deciso di non essere fra noi. Lei ha reso omaggio a Largo 16 Ottobre, teatro del rastrellamento infame del '43; colgo per questo l’occasione di salutare con commozione e orgoglio i superstiti della Shoàh qui presenti. Zachor et asher asà lechà Amalek - Ricorda ciò ti che fece Amalek è scritto nel Deuteronomio capitolo 25 verso 17. Noi figli della Shoàh della seconda e terza generazione, che siamo cresciuti nella libertà, sentiamo ancor di più la responsabilità della Memoria. Chi le parla è figlio di Emanuele Pacifici e nipote del Rabbino Capo di Genova Riccardo Pacifici z.l., morto ad Auschwitz insieme alla moglie Wanda. Se sono qui a parlare da questo luogo sacro, è perché mio padre e mio zio Raffaele z.l. trovarono rifugio nel Convento delle Suore di Santa Marta a Firenze. Il debito di riconoscenza nei confronti di quell'Istituto religioso è immenso e il rapporto continua con le suore della nostra generazione. Lo Stato d'Israele ha conferito al Convento la Medaglia di Giusti fra le Nazioni. Questo non fu un caso isolato né in Italia né in altre parti d'Europa. Numerosi religiosi si adoperarono, a rischio della loro vita, per salvare dalla morte certa migliaia di ebrei, senza chiedere nulla in cambio. Per questo, il silenzio di Pio XII di fronte alla Shoàh, duole ancora come un atto mancato. Forse non avrebbe fermato i treni della morte, ma avrebbe trasmesso, un segnale, una parola di estremo conforto, di solidarietà umana, per quei nostri fratelli trasportati verso i camini di Auschwitz. In attesa di un giudizio condiviso, auspichiamo, con il massimo rispetto, che gli storici abbiano accesso agli archivi del Vaticano che riguardano quel periodo e tutte le vicende successive al crollo della Germania nazista. Numerosi sono stati i gesti e gli atti di riconciliazione compiuti dal pontificato di Giovanni XXIII a quello di Giovanni Paolo II. Dalla Nostra Aetate alla visita che Lei ha compiuto in Israele e ad Yad Vashem, questi atti testimoniano che il dialogo tra ebrei e cattolici, seppur talvolta difficoltoso, può e deve continuare. Sarebbe bello che da questa Sua visita possa avviarsi un ulteriore impulso alle attività di conoscenza e divulgazione dell'immenso patrimonio librario e documentario relativo alla produzione ebraica che è custodito nelle biblioteche e negli archivi vaticani. Apriamo i nostri cuori e da questo storico incontro usciamo con un messaggio di solidarietà. Lo dobbiamo a noi stessi. Lo dobbiamo ai nostri figli. Per lasciare loro una eredità importante ed aiutarli al confronto fra individuo e individuo. Questo è il nostro modo di intendere il dialogo fra le religioni. Affinché si possano avere figli, da una parte e dell’altra, sicuri e consapevoli delle proprie tradizioni. Aperti al confronto, nella diversità, quale comune ricchezza per una società che si vuole definire libera e giusta.
Renzo Gattegna, Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
Renzo Gattegna
Nei confronti del Papa Benedetto XVI sono portatore, in rappresentanza delle ventuno Comunità Ebraiche Italiane, del più sincero benvenuto e dei più fervidi auguri per la Sua Persona e per lo svolgimento del Suo Alto Magistero. La Sua presenza oggi in questo Tempio genera nel nostro animo forti emozioni e stimola la nostra mente a considerare e a valutare quanta strada abbiamo percorso negli ultimi decenni. Questa Sua visita alla Sinagoga di Roma si collega strettamente a quella compiuta dal Suo predecessore, Papa Giovanni Paolo II, il 13 Aprile del 1986. Questi due importanti eventi costituiscono attuazione di quel nuovo corso, nei rapporti tra ebrei e cristiani, che ebbe inizio 50 anni fa e di cui fu promotore Papa Giovanni XXIII, il quale per primo comprese che un costruttivo dialogo e un incontro in uno spirito di riconciliazione, sarebbe potuto avvenire solo su presupposti di pari dignità e reciproco rispetto. Questi principi sono stati solennemente affermati nella Dichiarazione “Nostra Aetate” che, concepita e voluta da Papa Giovanni XXIII, fu promulgata il 28 Ottobre del 1965 dal Concilio Vaticano II. Da quel momento iniziò a svilupparsi un dialogo tra ebrei e cristiani finalizzato sia ad individuare obbiettivi comuni, per il futuro, sia ad eliminare incomprensioni e divergenze a causa delle quali, nei secoli passati, gli ebrei pagarono un prezzo altissimo, in termini di vite umane e di sofferenze, per la loro ferma determinazione a rimanere fedeli ai propri principi e ai propri valori. Rimane indelebilmente scolpito nella nostra memoria il nobile discorso da Lei pronunciato nel febbraio del 2009 allorché, annunciando la decisione di compiere il Suo viaggio in Israele, volle riprendere le parole che il Suo predecessore, Papa Wojtyla, pronunciò, nel Marzo del 2000, davanti al Muro Occidentale di Gerusalemme chiedendo perdono al Signore per tutte le ingiustizie che il popolo ebraico aveva dovuto soffrire e impegnandosi per “un’autentica fratellanza con il popolo dell’Alleanza”. Mi sono permesso di ricordare queste Sue parole perché oggi qui, davanti a noi, sono presenti alcune persone che, nonostante l’età avanzata, hanno voluto partecipare a questo incontro; a loro va il nostro rispetto, la nostra ammirazione e il nostro affetto; essi nel 1943 e 1944 furono deportati nei campi di sterminio nazisti e furono fra i pochissimi che riuscirono a sopravvivere; ho ritenuto che soprattutto loro, che hanno conosciuto l’inferno dei lager, siano i veri destinatari di quelle parole che Lei ha pronunciato e che rimangono oggetto delle nostre riflessioni. La nostra generazione, che è sopravvissuta alla Shoah, e che, poi, ha avuto la fortuna di vedere realizzata la millenaria aspirazione alla ricostruzione dello Stato d’Israele, si sente pronta ad affrontare le prossime sfide, di cui la principale sarà quella di contribuire ad instaurare nel mondo, per tutti, il rispetto dei diritti umani fondamentali, cosicchè le diversità non siano, mai più, causa di conflitti ideologici o religiosi, bensì di reciproco arricchimento culturale e morale. La nuova stagione è solo agli inizi e c’è un lungo cammino da percorrere, ma tutto sarà più facile se sapremo riempire di contenuto e dare il giusto significato a quel termine stupendo “fratelli” con il quale i nostri predecessori si salutarono ventiquattro anni fa, impegnandosi a costruire un prezioso rapporto di amicizia. Saluto con grande affetto i protagonisti di quel primo incontro, il Rabbino Emerito Professor Elio Toaff e l’allora Presidente della Comunità di Roma, il Professor Giacomo Saban, oggi qui presente, ed esprimo a loro tutta la nostra gratitudine per la saggezza e la lungimiranza con le quali ci hanno guidato; alla memoria di Papa Giovanni Paolo II rendo un commosso omaggio. A Lei rinnovo il ringraziamento per aver accettato il nostro invito; la Sua presenza è un grande onore e costituisce un rinnovato impegno a proseguire nel cammino intrapreso. Un cammino che deve essere proseguito insieme fra ebrei, cristiani e musulmani, come siamo qui oggi, per riscoprire la comune eredità, dare testimonianza del Dio Unico e, al di là delle differenze che rimarranno, inaugurare un’era di pace.
Riccardo Di Segni, Rabbino capo della Comunità Ebraica di Roma
Riccardo Di Segni
Un saluto grato di benvenuto al Papa, Benedetto XVI, Vescovo di Roma, per il gesto che compie oggi visitando il luogo più importante di preghiera della nostra Comunità. Quando un nuovo Papa veniva eletto, il pontificato iniziava con una solenne processione per le vie di Roma. A questa processione dovevano partecipare anche gli ebrei della città, addobbando un tratto del lungo percorso. Tra gli addobbi c'erano anche dei grandi pannelli elogiativi. Si sapeva tutto del loro contenuto, ma nessuno li aveva mai visti in tempi recenti, fino a poco tempo fa, quando una scoperta casuale nell'archivio della nostra Comunità ha portato alla luce una collezione di quattordici di questi pannelli di cartone risalenti al diciottesimo secolo. Li abbiamo restaurati e abbiamo organizzato una mostra speciale nel nostro museo; il Papa oggi in visita da noi sarà il primo a vedere questi pannelli; sono un pezzo della nostra storia di ebrei romani da duemila anni in rapporto con la Chiesa, così come lo è l'evento storico che viviamo in questo momento. Ma quanta differenza di significato. I pannelli erano il tributo dovuto a forza da sudditi appena tollerati, chiusi in un recinto e limitati in tutte le loro libertà. Prima dei pannelli del diciottesimo secolo c'era ancora peggio, l'esposizione del libro della Torà al Papa che si riservava anche di dileggiarlo. I tempi evidentemente sono cambiati e ringraziamo il Signore Benedetto che ci ha portato ad un'epoca di libertà; e dopo la libertà conquistata nel 1870, possiamo, dai tempi del Concilio Vaticano, rapportarci con la Chiesa Cattolica e il suo Papa in termini di pari dignità e rispetto reciproco. Sono le aperture del Concilio che rendono possibile questo rapporto; se venissero messe in discussione non ci sarebbe più possibilità di dialogo. Il tratto di Roma che gli ebrei dovevano addobbare era quello vicino all'Arco di Tito, scelto non a caso per ricordare agli ebrei l'umiliazione della perdita dell'indipendenza politica. Ma per noi quel simbolo non è mai stato soltanto negativo; gli ebrei erano sì umiliati e senza indipendenza, ma continuavano a vivere, mentre gli imperi che li avevano assoggettati e sconfitti non esistevano più. A questo miracolo di sopravvivenza si è aggiunto il miracolo dell'indipendenza riconquistata dello Stato d'Israele. Sono passati 24 anni dalla storica e indimenticabile visita di papa Giovanni Paolo II in questa Sinagoga. Allora fu forte la richiesta rivolta al Papa dai nostri dirigenti di riconoscere lo Stato d'Israele, cosa che effettivamente avvenne pochi anni dopo. Fu un ulteriore segno di tempi cambiati e più maturi. Lo Stato di Israele è un'entità politica, garantita dal diritto delle genti. Ma nella nostra visione religiosa non possiamo non vedere in tutto questo anche un disegno provvidenziale. Nel linguaggio comune si usano spesso espressioni come "terra santa" e “terra promessa”, ma si rischia di perderne il senso originario e reale. La terra è la terra d'Israele, e in ebraico letteralmente non è la terra che è santa, ma è eretz haQodesh la terra di Colui che è Santo; e la promessa è quella fatta ripetutamente dal Signore ai nostri patriarchi, Abramo, Isacco e Giacobbe di darla ai loro discendenti, i figli di Giacobbe-Israele, che effettivamente l'hanno avuta per lunghi periodi. Nella coscienza ebraica questo è un dato fondamentale e irrinunciabile che è importante ricordare che si basa sulla Bibbia alla quale voi e noi diamo, pur nelle differenti letture, un significato sacro. E' qui oggi presente ad accogliere Papa Benedetto una rappresentanza ampia e significativa della nostra Comunità insieme a rappresentanti di istituzioni estere. Ma più delle istituzioni forse contano le memorie, le biografie di ognuno, un documento vivo ed impressionante della storia ebraica di quest'ultimo secolo. Vorrei citare alcuni nomi e mi perdonino tutti gli altri. Solo riferendoci ai Rabbini qui presenti, rav Brudman, rabbino capo di Savion in Israele, ha trascorso tre anni della sua infanzia passando da un campo nazista all'altro; rav Schneier, di New York, era bambino nell'inferno di Budapest del 1944; rav Shearyashuv haKohen, rabbino capo di Haifa ha combattuto nella guerra di indipendenza di Israele del 1948 ed è stato prigioniero dei Giordani; rav Arussi rabbino capo di Kiriat Ono discende da una famiglia emigrata in Israele dallo Yemen. E pensando alla nostra Comunità abbiamo qui una rappresentanza del sempre più piccolo gruppo dei sopravvissuti ai campi di sterminio della Germania nazista. Vorrei sottolineare come la loro storia non è solo storia di sofferenze, ma storia di resistenza e fedeltà. Qualcuno forse si sarebbe salvato se avesse abiurato. Ma non l'hanno fatto. Cito la testimonianza, semplice e toccante, di Leone Sabatello, da poco scomparso: “Al Collegio militare –il luogo dove erano stati raccolti dopo la razzia del 16 ottobre- ci chiedevano se qualcuno era di religione cattolica o se volevamo diventare cattolici. Qualcuno ha detto di sì, ma noi ci siamo raccolti tutti quanti in famiglia e siamo rimasti quelli che siamo sempre”. “Siamo rimasti quelli che siamo sempre” è questa forza, questa tenacia, questo legame che rende grande e fa crescere la nostra Comunità. Viviamo una stagione di riscoperta della nostra tradizione, di studio e di pratica della Torà. Le nostre scuole crescono, crescono i servizi religiosi, le sinagoghe si moltiplicano nel tessuto urbano. E tutto questo avviene con una piena integrazione nella città, in spirito di amicizia, di accoglienza, di solidarietà e di apertura. Nella visita a questa Sinagoga, papa Giovanni Paolo II descrisse il rapporto tra ebrei e cristiani come quello tra fratelli. Il racconto del Sefer Bereshit, la Genesi, dà su questo delle indicazioni preziose. Come spiega rav Sachs, c'è nel libro, dall'inizio alla fine, un filo conduttore che lega storie diverse. Il rapporto tra fratelli comincia molto male, Caino uccide Abele. Un'altra coppia di fratelli, Isacco e Ismaele, vive separata, vittima di rivalità ereditate, ma si ritrova per un gesto di pietà alla sepoltura del padre comune Abramo. Una terza coppia di fratelli, Esaù e Giacobbe, parimenti conflittuale, si incontra per una breve conciliazione e un abbraccio, ma le strade dei due si separano. Finalmente la storia di Giuseppe e i suoi fratelli, iniziata drammaticamente con un tentato omicidio e una vendita in schiavitù si risolve con una conciliazione finale quando i fratelli di Giuseppe riconoscono il loro errore e danno prova di volersi sacrificare per l'altro. Se il nostro è un rapporto tra fratelli c'è da chiedersi sinceramente a che punto siamo di questo percorso e quanto ci separa ancora dal recupero di un rapporto autentico di fratellanza e comprensione; e cosa dobbiamo fare per arrivarci. Cosa dobbiamo e possiamo fare insieme. Un esempio. Si parla molto in questi tempi dell'urgenza di proteggere l'ambiente. Su questo punto abbiamo delle visioni comuni e speciali da trasmettere. Il dovere di proteggere l'ambiente nasce con il primo uomo; Adamo fu posto nel giardino dell'Eden con l'obbligo di “lavorarlo e custodirlo” (Gen. 2:15). Bisogna ricordare che nella Bibbia ebraica non compare mai la parola natura, come cosa indipendente, ma solo il concetto di creato e creatura. Siamo tutte creature, dalle pietre agli esseri umani. Il cantico delle creature di Francesco d'Assisi è radicato nella spiritualità biblica, soprattutto dei Salmi. Possiamo per questo condividere un progetto di ecologia non idolatrica, senza dimenticare che alla cima della creazione c'è l'uomo fatto a immagine divina. La responsabilità va alla protezione di tutto il creato, ma la santità della vita, la dignità dell'uomo, la sua libertà, la sua esigenza di giustizia e di etica sono i beni primari da tutelare. Sono gli imperativi biblici che condividiamo, insieme a quello della misericordia; vivere la propria religione con onestà e umiltà, come potente strumento di crescita e promozione umana, senza aggressività, senza strumentalizzazione politica, senza farne strumento di odio, di esclusione e di morte. Terribile responsabilità dell'uomo. Immagini potenti del pensiero dei nostri Maestri sono state spesso espresse cercando le allusioni nella lingua delle sacre scritture. C'è una frase dell'Esodo (15:11) che dice "chi è come Te tra i potenti, baelim, o Signore". Rabbì Ishmael, testimone di orrori storici e lui stesso martire della repressione di Adriano, leggeva questa frase con una piccola variante: bailemim "chi è come Te o Signore, tra i muti", che assisti alle sciagure del mondo e non parli. Il silenzio di D. o la nostra incapacità di sentire la Sua voce davanti ai mali del mondo, sono un mistero imperscrutabile. Ma il silenzio dell'uomo è su un piano diverso, ci interroga, ci sfida e non sfugge al giudizio. Ebrei, Cristiani e altri fedeli sono stati perseguitati e continuano ad essere perseguitati nel mondo per la loro fede. Solo Colui che è il Signore del perdono può perdonare tutti quelli che ci perseguitano. Malgrado una storia drammatica, i problemi aperti e le incomprensioni, sono le visioni condivise e gli obiettivi comuni che devono essere messi in primo piano. L'immagine di rispetto e di amicizia che emana da questo incontro deve essere un esempio per tutti coloro che ci osservano. Ma amicizia e fratellanza non devono essere esclusivi e oppositori nei confronti di altri. In particolare di tutti coloro che si riconoscono nell'eredità spirituale di Abramo. Ebrei, Cristiani e Musulmani sono chiamati senza esclusioni a questa responsabilità di pace. La preghiera che si alza da questa Sinagoga è quella per la pace universale annunciata da Isaia (66:12) per Gerusalemme, kenahar shalom ukhnachal shotef kevod goim , “la pace come un fiume e la gloria dei popoli come un torrente in piena”.
Benedetto XVI
Il Signore ha fatto grandi cose per loro” Grandi cose ha fatto il Signore per noi: eravamo pieni di gioia” (Sal 126)
“Ecco, com’è bello e com’è dolce che i fratelli vivano insieme!” (Sal 133)
All’inizio dell’incontro nel Tempio Maggiore degli Ebrei di Roma, i Salmi che abbiamo ascoltato ci suggeriscono l’atteggiamento spirituale più autentico per vivere questo particolare e lieto momento di grazia: la lode al Signore, che ha fatto grandi cose per noi, ci ha qui raccolti con il suo Hèsed, l’amore misericordioso, e il ringraziamento per averci fatto il dono di ritrovarci assieme a rendere più saldi i legami che ci uniscono e continuare a percorrere la strada della riconciliazione e della fraternità. Desidero esprimere innanzitutto viva gratitudine a Lei, Rabbino Capo, Dottor Riccardo Di Segni, per l’invito rivoltomi e per le significative parole che mi ha indirizzato. Ringrazio poi i Presidenti dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Avvocato Renzo Gattegna, e della Comunità Ebraica di Roma, Signor Riccardo Pacifici, per le espressioni cortesi che hanno voluto rivolgermi. Il mio pensiero va alle Autorità e a tutti i presenti e si estende, in modo particolare, alla Comunità ebraica romana e a quanti hanno collaborato per rendere possibile il momento di incontro e di amicizia, che stiamo vivendo. Venendo tra voi per la prima volta da cristiano e da Papa, il mio venerato Predecessore Giovanni Paolo II, quasi ventiquattro anni fa, intese offrire un deciso contributo al consolidamento dei buoni rapporti tra le nostre comunità, per superare ogni incomprensione e pregiudizio. Questa mia visita si inserisce nel cammino tracciato, per confermarlo e rafforzarlo. Con sentimenti di viva cordialità mi trovo in mezzo a voi per manifestarvi la stima e l’affetto che il Vescovo e la Chiesa di Roma, come pure l’intera Chiesa Cattolica, nutrono verso questa Comunità e le Comunità ebraiche sparse nel mondo.
La dottrina del Concilio Vaticano II ha rappresentato per i Cattolici un punto fermo a cui riferirsi costantemente nell’atteggiamento e nei rapporti con il popolo ebraico, segnando una nuova e significativa tappa. L’evento conciliare ha dato un decisivo impulso all’impegno di percorrere un cammino irrevocabile di dialogo, di fraternità e di amicizia, cammino che si è approfondito e sviluppato in questi quarant’anni con passi e gesti importanti e significativi, tra i quali desidero menzionare nuovamente la storica visita in questo luogo del mio Venerabile Predecessore, il 13 aprile 1986, i numerosi incontri che egli ha avuto con Esponenti ebrei, anche durante i Viaggi Apostolici internazionali, il pellegrinaggio giubilare in Terra Santa nell’anno 2000, i documenti della Santa Sede che, dopo la Dichiarazione Nostra Aetate, hanno offerto preziosi orientamenti per un positivo sviluppo nei rapporti tra Cattolici ed Ebrei. Anche io, in questi anni di Pontificato, ho voluto mostrare la mia vicinanza e il mio affetto verso il popolo dell’Alleanza. Conservo ben vivo nel mio cuore tutti i momenti del pellegrinaggio che ho avuto la gioia di realizzare in Terra Santa, nel maggio dello scorso anno, come pure i tanti incontri con Comunità e Organizzazioni ebraiche, in particolare quelli nelle Sinagoghe a Colonia e a New York. Inoltre, la Chiesa non ha mancato di deplorare le mancanze di suoi figli e sue figlie, chiedendo perdono per tutto ciò che ha potuto favorire in qualche modo le piaghe dell’antisemitismo e dell’antigiudaismo (cfr Commissione per i Rapporti Religiosi con l’Ebraismo, Noi Ricordiamo: una riflessione sulla Shoah, 16 marzo 1998). Possano queste piaghe essere sanate per sempre! Torna alla mente l’accorata preghiera al Muro del Tempio in Gerusalemme del Papa Giovanni Paolo II, il 26 marzo 2000, che risuona vera e sincera nel profondo del nostro cuore: “Dio dei nostri padri, tu hai scelto Abramo e la sua discendenza perché il tuo Nome sia portato ai popoli: noi siamo profondamente addolorati per il comportamento di quanti, nel corso della storia, li hanno fatti soffrire, essi che sono tuoi figli, e domandandotene perdono, vogliamo impegnarci a vivere una fraternità autentica con il popolo dell’Alleanza”.
Il passare del tempo ci permette di riconoscere nel ventesimo secolo un’epoca davvero tragica per l’umanità: guerre sanguinose che hanno seminato distruzione, morte e dolore come mai era avvenuto prima; ideologie terribili che hanno avuto alla loro radice l’idolatria dell’uomo, della razza, dello stato e che hanno portato ancora una volta il fratello ad uccidere il fratello. Il dramma singolare e sconvolgente della Shoah rappresenta, in qualche modo, il vertice di un cammino di odio che nasce quando l’uomo dimentica il suo Creatore e mette se stesso al centro dell’universo. Come dissi nella visita del 28 maggio 2006 al campo di concentramento di Auschwitz, ancora profondamente impressa nella mia memoria, “i potentati del Terzo Reich volevano schiacciare il popolo ebraico nella sua totalità” e, in fondo, “con l’annientamento di questo popolo, intendevano uccidere quel Dio che chiamò Abramo, che parlando sul Sinai stabilì i criteri orientativi dell’umanità che restano validi in eterno” (Discorso al campo di Auschwitz-Birkenau: Insegnamenti di Benedetto XVI, II, 1[2006], p. 727). In questo luogo, come non ricordare gli Ebrei romani che vennero strappati da queste case, davanti a questi muri, e con orrendo strazio vennero uccisi ad Auschwitz? Come è possibile dimenticare i loro volti, i loro nomi, le lacrime, la disperazione di uomini, donne e bambini? Lo sterminio del popolo dell’Alleanza di Mosè, prima annunciato, poi sistematicamente programmato e realizzato nell’Europa sotto il dominio nazista, raggiunse in quel giorno tragicamente anche Roma. Purtroppo, molti rimasero indifferenti, ma molti, anche fra i Cattolici italiani, sostenuti dalla fede e dall’insegnamento cristiano, reagirono con coraggio, aprendo le braccia per soccorrere gli Ebrei braccati e fuggiaschi, a rischio spesso della propria vita, e meritando una gratitudine perenne. Anche la Sede Apostolica svolse un’azione di soccorso, spesso nascosta e discreta. La memoria di questi avvenimenti deve spingerci a rafforzare i legami che ci uniscono perché crescano sempre di più la comprensione, il rispetto e l’accoglienza.
La nostra vicinanza e fraternità spirituali trovano nella Sacra Bibbia – in ebraico Sifre Qodesh o “Libri di Santità” – il fondamento più solido e perenne, in base al quale veniamo costantemente posti davanti alle nostre radici comuni, alla storia e al ricco patrimonio spirituale che condividiamo. E’ scrutando il suo stesso mistero che la Chiesa, Popolo di Dio della Nuova Alleanza, scopre il proprio profondo legame con gli Ebrei, scelti dal Signore primi fra tutti ad accogliere la sua parola (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 839). “A differenza delle altre religioni non cristiane, la fede ebraica è già risposta alla rivelazione di Dio nella Antica Alleanza. E’ al popolo ebraico che appartengono ‘l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi; da essi proviene Cristo secondo la carne’ (Rm 9,4-5) perché ‘i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!’ (Rm 11,29)” (Ibid.).
Numerose possono essere le implicazioni che derivano dalla comune eredità tratta dalla Legge e dai Profeti. Vorrei ricordarne alcune: innanzitutto, la solidarietà che lega la Chiesa e il popolo ebraico “a livello della loro stessa identità” spirituale e che offre ai Cristiani l’opportunità di promuovere “un rinnovato rispetto per l’interpretazione ebraica dell’Antico Testamento” (cfr Pontificia Commissione Biblica, Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana, 2001, pp. 12 e 55); la centralità del Decalogo come comune messaggio etico di valore perenne per Israele, la Chiesa, i non credenti e l’intera umanità; l’impegno per preparare o realizzare il Regno dell’Altissimo nella “cura del creato” affidato da Dio all’uomo perché lo coltivi e lo custodisca responsabilmente (cfr Gen 2,15).
In particolare il Decalogo – le “Dieci Parole” o Dieci Comandamenti (cfr Es 20,1-17; Dt 5,1-21) – che proviene dalla Torah di Mosè, costituisce la fiaccola dell’etica, della speranza e del dialogo, stella polare della fede e della morale del popolo di Dio, e illumina e guida anche il cammino dei Cristiani. Esso costituisce un faro e una norma di vita nella giustizia e nell’amore, un “grande codice” etico per tutta l’umanità. Le “Dieci Parole” gettano luce sul bene e il male, sul vero e il falso, sul giusto e l’ingiusto, anche secondo i criteri della coscienza retta di ogni persona umana. Gesù stesso lo ha ripetuto più volte, sottolineando che è necessario un impegno operoso sulla via dei Comandamenti: “Se vuoi entrare nella vita, osserva i Comandamenti” (Mt 19,17). In questa prospettiva, sono vari i campi di collaborazione e di testimonianza. Vorrei ricordarne tre particolarmente importanti per il nostro tempo. Le “Dieci Parole” chiedono di riconoscere l’unico Signore, contro la tentazione di costruirsi altri idoli, di farsi vitelli d’oro. Nel nostro mondo molti non conoscono Dio o lo ritengono superfluo, senza rilevanza per la vita; sono stati fabbricati così altri e nuovi dei a cui l’uomo si inchina. Risvegliare nella nostra società l’apertura alla dimensione trascendente, testimoniare l’unico Dio è un servizio prezioso che Ebrei e Cristiani possono offrire assieme. Le “Dieci Parole” chiedono il rispetto, la protezione della vita, contro ogni ingiustizia e sopruso, riconoscendo il valore di ogni persona umana, creata a immagine e somiglianza di Dio. Quante volte, in ogni parte della terra, vicina e lontana, vengono ancora calpestati la dignità, la libertà, i diritti dell’essere umano! Testimoniare insieme il valore supremo della vita contro ogni egoismo, è offrire un importante apporto per un mondo in cui regni la giustizia e la pace, lo “shalom” auspicato dai legislatori, dai profeti e dai sapienti di Israele. Le “Dieci Parole” chiedono di conservare e promuovere la santità della famiglia, in cui il “sì” personale e reciproco, fedele e definitivo dell’uomo e della donna, dischiude lo spazio per il futuro, per l’autentica umanità di ciascuno, e si apre, al tempo stesso, al dono di una nuova vita. Testimoniare che la famiglia continua ad essere la cellula essenziale della società e il contesto di base in cui si imparano e si esercitano le virtù umane è un prezioso servizio da offrire per la costruzione di un mondo dal volto più umano.
Come insegna Mosè nello Shemà (cfr. Dt 6,5; Lv 19,34) – e Gesù riafferma nel Vangelo (cfr. Mc 12,19-31), tutti i comandamenti si riassumono nell’amore di Dio e nella misericordia verso il prossimo. Tale Regola impegna Ebrei e Cristiani ad esercitare, nel nostro tempo, una generosità speciale verso i poveri, le donne, i bambini, gli stranieri, i malati, i deboli, i bisognosi. Nella tradizione ebraica c’è un mirabile detto dei Padri d’Israele: “Simone il Giusto era solito dire: Il mondo si fonda su tre cose: la Torah, il culto e gli atti di misericordia” (Aboth 1,2). Con l’esercizio della giustizia e della misericordia, Ebrei e Cristiani sono chiamati ad annunciare e a dare testimonianza al Regno dell’Altissimo che viene, e per il quale preghiamo e operiamo ogni giorno nella speranza.
In questa direzione possiamo compiere passi insieme, consapevoli delle differenze che vi sono tra noi, ma anche del fatto che se riusciremo ad unire i nostri cuori e le nostre mani per rispondere alla chiamata del Signore, la sua luce si farà più vicina per illuminare tutti i popoli della terra. I passi compiuti in questi quarant’anni dal Comitato Internazionale congiunto cattolico-ebraico e, in anni più recenti, dalla Commissione Mista della Santa Sede e del Gran Rabbinato d’Israele, sono un segno della comune volontà di continuare un dialogo aperto e sincero. Proprio domani la Commissione Mista terrà qui a Roma il suo IX incontro su “L’insegnamento cattolico ed ebraico sul creato e l’ambiente”; auguriamo loro un proficuo dialogo su un tema tanto importante e attuale.
Cristiani ed Ebrei hanno una grande parte di patrimonio spirituale in comune, pregano lo stesso Signore, hanno le stesse radici, ma rimangono spesso sconosciuti l’uno all’altro. Spetta a noi, in risposta alla chiamata di Dio, lavorare affinché rimanga sempre aperto lo spazio del dialogo, del reciproco rispetto, della crescita nell’amicizia, della comune testimonianza di fronte alle sfide del nostro tempo, che ci invitano a collaborare per il bene dell’umanità in questo mondo creato da Dio, l’Onnipotente e il Misericordioso.
Infine un pensiero particolare per questa nostra Città di Roma, dove, da circa due millenni, convivono, come disse il Papa Giovanni Paolo II, la Comunità cattolica con il suo Vescovo e la Comunità ebraica con il suo Rabbino Capo; questo vivere assieme possa essere animato da un crescente amore fraterno, che si esprima anche in una cooperazione sempre più stretta per offrire un valido contributo nella soluzione dei problemi e delle difficoltà da affrontare.
Invoco dal Signore il dono prezioso della pace in tutto il mondo, soprattutto in Terra Santa. Nel mio pellegrinaggio del maggio scorso, a Gerusalemme, presso il Muro del Tempio, ho chiesto a Colui che può tutto: “manda la tua pace in Terra Santa, nel Medio Oriente, in tutta la famiglia umana; muovi i cuori di quanti invocano il tuo nome, perché percorrano umilmente il cammino della giustizia e della compassione” (Preghiera al Muro Occidentale di Gerusalemme, 12 maggio 2009). Nuovamente elevo a Lui il ringraziamento e la lode per questo nostro incontro, chiedendo che Egli rafforzi la nostra fraternità e renda più salda la nostra intesa.
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