Domani, domenica 17 gennaio, visita del Papa alla sinagoga romana. Fra i molti articoli usciti oggi, 16/01/2010, su tutti i giornali, pubblichiamo tre commenti. Fiamma Nirenstein sul GIORNALE, a pag.20, Ronald Lauder, presidente del Congresso Mondiale ebraico, sul CORRIERE della SERA a pag. 46, sul FOGLIO, a pag.2, Yasha Reibman, portavoce della comunità ebraica di Milano.


Pio XII Benedetto XVI
Il Giornale-Fiamma Nirenstein: "Alla Chiesa i suoi santi, agli ebrei il diritto di criticarli "

Fiamma Nirenstein
Tutta la polemica sulla visita del Papa in Sinagoga attiene al tema del dolore, della tragedia, della rabbia, della delusione e della seta di giustizia, ed è per questo una polemica ragguardevole. Ma non ha niente a che fare con la questione dei rapporti fra ebrei e cristiani: essi abitano altrove. E’ del tutto evidente che la visita di Benetto XVI non può che essere utile a un’amicizia che ha molte ragioni per reggere, e molte ragioni, invece, per dubitare, dopo tante ferite, di farcela. La questione centrale del sospetto che rav Laras, persona savia, integra ed ebraica come piace a me, esprime sulla bontà della visita è certamente quella della beatificazione, o santificazione di Pio XII propugnata dal Papa. Un Papa che esalta le attitudini “eroiche” in Pio XII alla sua beatificazione rivendicherà l’imprimatur della visita in Sinagoga. Ma gli ebrei non possono, non devono, non vogliono legittimare o delegittimare nessun santo. Noi non abbiamo santi, non nel senso cattolico; non crediamo ai santi, non fanno parte del nostro universo religioso. La Chiesa ha ogni e qualsiasi diritto sulla scelta dei suoi santi; però, noi abbiamo diritto al giudizio storico, discutibile come tutti i giudizi, su qualsiasi personaggio, anche se beato o santo. Nessuno si offenda, qui non ci sono vignettisti blasfemi, solo una civile discussione, dunque. Il dialogo fra gli ebrei e i cattolici non può intricarsi nella santificazione di chicchessia; e nonostante da anni se ne parli per Pio XII ha fatto grandi passi avanti dai tempi in cui Giovanni XXIII tolse l’aggettivo “perfidi” agli ebrei, e ancora più da quando Paolo VI schifò lo stato d’Israele e i suoi leader, passandovi col naso tappato, in solitudine. Giovanni Paolo oltre a chiamare gli ebrei “fratelli maggiori” (espressione tuttavia controversa, secondo alcuni raffinati critici come Sergio Minerbi) ha fatto una cosa fondamentale, innegabile: ha riconosciuto lo Stato d’Israele, e c’è andato coin evidente emozione e amore. Benedetto XVI a sua volta è andato a Gerusalemme, e questo è ragguardevole, perché niente come riconoscere che gli ebrei vivono nell’oggi, sono un popolo attuale e non del passato è teologicamente più importante. La Chiesa si è sempre ritenuto il Verus Israel. In vece no: ilvero Israele è Israele, e quando un papa ne da conto calcandone la terra e stringendo la mano ai suoi dirigenti ebrei fa un gran bel passo. Qui abbiamo un Papa che questo passo l’ha fatto, ma che nella determinazione di segnare con paletti il confine della sua fede assediata dalla laicità, dall’Islam, dalla modernità e dal consumismo, alle volte si è mostrato un po’ frettoloso, se possiamo permetterci. E’ una caratteristica di carattere, diremmo,che nel caso del vescovo negazionista stupisce, a volte, nel caso della preghiera che promette di convertire gli ebrei, dispiace. In questi gesti non c’è abbastanza consequenzialità rispetto al fatto storico di aver incontrato l’Israele vivente. Perché bisogna ricordare che se i due Papi citati hanno fatto qualcosa per gli ebrei andando in Israele, anche Israele ha fatto qualcosa per loro. Speriamo di essere compresi: i cristiani preferiscono in genere, dato che i loro correligionari dell’area sono arabi, non menzionare il fatto che Israele ha ristabilito dove la si era ormai dimenticata, la più piena di libertà per tutti i cattolici e i cristiani del mondo di giungere a frotte sui loro luoghi santi, di gestirli, di spaziare senza censure dalle sorgenti del Giordano al Mare di Tiberiade a Nazareth al Santo Sepolcro e in tutta la Città Vecchia. E inoltre mentre i cristiani fuggono da tutto il Medio Oriente, in Israele sono passati da 34mila nel 48 a 150mila al giorno d’oggi; se seguitano a calare a Betlemme, ciò avviene per persecuzioni religiose musulmane di stampo classico. Questo Papa quando andò in visita in Israele non ne parlò, ripercorse dei sentieri piuttosto classici attribuendo a Israele tutta una serie di pesanti responsabilità e evitò di pronunciarsi sul grande pericolo esistenziale che Israele corre, l’Iran, Hamas... Però incitò ad abbandonare la violenza e si pronunciò contro il negazionismo. Così è fatto Ratzinger; e roa ci tiene a Pio XII. Ma questo oggi può influenzare il fatto che gli Ebrei con i loro figli Cristiani sono alleati di ferro perché hanno dato vita alla cosa più importante che abbiamo al giorno d’oggi, la concezione di una società di diritto in cui vigono i diritti umani e la democrazia? Sbaglia il Foglio, giornale sempre interessante, quando dice che elezione e universalismo sono in contrasto:nell’ebraismo c’è tutta la base del moderno universalismo che fa gli uomini eguali. Solo, non c’è bisogno di farsi ebreo per accedere al giusto e al buono. Dunque non ricominciamo con l’evoluzionismo religioso, ha già fatto abbastanza danni. La Chiesa ha il diritto di essere sé stessa, di fare i suoi santi secondo criteri che con l’ebraismo non hanno niente a che fare. Gli ebrei tuttavia hanno diritto a un giudizio storico severo. E severo lo è, perché anche se Pio XII agì per salvare alcuni gruppi, e anche al rischio della vita dei suoi, pure mancano dalla sua biografia quei gesti che un uomo compie quando nella strada buia si compie un omicidio, uno stupro, una violenza contro un bambino. Allora devi gridare. www@fiammanirenstein.com
Corriere della Sera-Ronald Lauder: " Benvenuto al Papa in Sinagoga, gli ebrei attendono risposte "

Ronald Lauder
Quando un vescovo cattolico visita la principale sinagoga della sua diocesi, è soprattutto un segnale di amicizia e l’espressione dei buoni rapporti tra le due comunità religiose locali. Le cose sono un po’ diverse quando la visita si svolge a Roma, poiché il vescovo di Roma è anche il Pontefice della Chiesa Cattolica, e rappresenta oltre un miliardo di cattolici in tutto il mondo. Pertanto è di grande rilevanza per tutti gli ebrei quello che Papa Benedetto XVI dirà domenica prossima nella sinagoga della capitale sulle relazioni tra ebrei e cattolici e su altri argomenti delicati che hanno già suscitato clamore nel corso del suo pontificato. Benedetto XVI ha spesso ribadito la grande importanza che rivestono i buoni rapporti con il giudaismo. Attraverso le visite in Israele, ad Auschwitz, nelle sinagoghe di Colonia e di New York, ha dimostrato la sua sincerità. Il papa tedesco inoltre è un raffinato teologo e un pensatore acuto, eppure talvolta noi vediamo un altro Benedetto, le cui scelte appaiono di difficile comprensione anche ai più aperti e disponibili tra noi. Noi ebrei siamo un popolo molto sensibile, persino ipersensibile, perché la storia ci ha costretto a mantenere alta la vigilanza, se si considera che l’antisemitismo è rimasto molto diffuso e profondamente radicato tra gli alti ranghi delle chiese cristiane fino a pochi decenni or sono. Per di più, noi ebrei siamo un popolo emotivo e nella vita pubblica non sempre siamo capaci di giudicare una dichiarazione o una decisione del Papa in base a criteri puramente razionali o intellettuali, prerogative forse del seminario di teologia. Noi teniamo d’occhio anche i gesti e i simboli, specie se provengono da un Papa di origini germaniche. E interpretiamo subito le sue decisioni in un certo qual modo, anche quando non ci sembrano completamente chiare, per timore che altri le interpretino volutamente in modo tale da farle sembrare offensive nei nostri riguardi. Tutto ciò non avrebbe alcun peso se non fosse che i dissensi e le controversie tra le nostre religioni sono spesso serviti a giustificare l’esclusione, la persecuzione e addirittura la violenza. Dobbiamo assicurarci di aver superato le antiche divisioni e di non ripetere gli errori del passato. Un certo ragionamento che ha ispirato le scelte del Pontefice— benché perfettamente logico all’interno della teologia e pastorale cattoliche— rischia di avere un significato completamente diverso per il resto del mondo (lo stesso vale per certi ragionamenti degli ebrei). Di qui la necessità di spiegare e comunicare tali decisioni in modo comprensibile. Quando il Papa consente di ripristinare la preghiera del Venerdì Santo della vecchia liturgia tridentina, che invita gli ebrei a riconoscere in Gesù Cristo il redentore di tutta l’umanità, alcuni di noi si sentono profondamente offesi. Quando il Papa decide di togliere la scomunica ai vescovi della Società di San Pio X, ultra-conservatrice e antisemita, tra i quali si annovera un negazionista notorio, ci sentiamo sconcertati. Quando abbiamo l’impressione che il processo di beatificazione di Papa Pio XII venga affrettato ancor prima che siano messi a disposizione del pubblico tutti i documenti conservati in Vaticano sul suo pontificato, molti di noi provano stupore. Durante il pontificato di Pio XII, sei milioni di ebrei europei furono massacrati dai nazisti ed è ancora aperto il dibattito se il Papa realmente fece tutto il possibile per salvarne almeno qualcuno. I superstiti dell’Olocausto, in particolare, restano sgomenti quando a Pio XII vengono attribuite «virtù eroiche», sebbene tale espressione possa inserirsi perfettamente nel contesto cattolico, senza avere nulla a che fare con le azioni di quel pontefice durante la Seconda guerra mondiale. Facciamo chiarezza: non spetta a noi ebrei, né ad altri estranei, decidere chi debba essere proclamato eroe o santo nella Chiesa Cattolica. Personalmente, non presumo affatto di poter emettere un giudizio finale sull’azione— o inazione— di Pio XII durante la Seconda guerra mondiale. Tuttavia mi sembra indispensabile consultare gli studiosi— tra cui numerosi storici— che hanno analizzato Pio XII e il suo comportamento durante quel periodo. Finché non saranno resi pubblici tutti i documenti relativi al suo pontificato in quegli anni cruciali, sarebbe meglio che il Vaticano si prendesse una pausa di riflessione. Altrimenti, persino i cattolici potrebbero avere non poche difficoltà nel riconoscere le «virtù eroiche» di Pio XII, e la reputazione dell’attuale pontefice ne uscirebbe sminuita. Malgrado tutte le differenze di opinione tra cattolici ed ebrei — ed è normale che esistano — i rapporti tra gli ebrei e il Vaticano poggiano su una solida base. Dal giorno della dichiarazione Nostra Aetate, nel 1965, siamo riusciti a mantener vivo un dialogo fondato sul rispetto reciproco. Un dialogo che si è rivelato molto più proficuo di quello instaurato con le altre chiese cristiane o con l’Islam. Non nutro alcun dubbio riguardo l’atteggiamento costruttivo e l’apertura mentale di Papa Benedetto XVI nei confronti degli ebrei. Il Pontefice è più che benvenuto nelle nostre sinagoghe e mi auguro che ci saranno molte altre importanti occasioni di questo genere in futuro. Ma domenica, quando verrà in visita alla sinagoga di Roma su invito della comunità ebraica della capitale, saremmo lieti di ascoltare qualche risposta chiarificatrice ad alcune delle domande elencate qui sopra. E questo aiuterebbe a dissipare i malumori che nei mesi scorsi hanno creato inutili tensioni nei rapporti tra ebrei e cattolici. Per molti ebrei, sarebbe questa una piccola «virtù eroica» dell’attuale Pontefice. presidente del Congresso
Il Foglio- Yasha Reibman: " Il bello degli ebrei e dei cattolici è che per loro il tempo non è un ostacolo "

Yasha Reibman
Forse è soltanto una questione di sensibilità e forse alcuni possono pensare che gli ebrei ne abbiano troppa. Forse la beatificazione di Pio XII è soltanto una questione cattolica, un fatto squisitamente religioso, senza alcun risvolto sul giudizio storico dell’operato di Eugenio Pacelli durante le persecuzioni naziste e alla fine questo verrà capito da tutti e nulla cambierà nei rapporti politici tra lo stato del Vaticano e lo stato di Israele, tra la Chiesa cattolica e gli ebrei. Forse. Oppure domani succederà altro. Dopo le polemiche di questi anni, che cosa dirà Joseph Ratzinger e quali ripercussioni potranno esserci? Domani per attraversare il Tevere ed entrare nella Sinagoga di Roma, il Papa dovrà percorrere poche centinaia di metri. Eppure questa distanza è stata incolmabile per quasi duemila anni. Quale sia la situazione attuale e quali potranno essere gli sviluppi futuri ci verrà detto dalle parole che B-XVI pronuncerà. Gli ebrei lo ascolteranno, anche chi ha deciso di non venire in realtà poi leggerà con attenzione il suo intervento. La sensazione è proprio questa, la palla è nei giardini vaticani. Ancora una volta gli ebrei stanno a guardare, ma con la serenità e l’amarezza che viene dalla consapevolezza di questi duemila anni di non buon vicinato e con la tranquillità che adesso la propria esistenza fisica non è nelle mani del Papa. Tra le più antiche comunità ebraiche della diaspora, gli ebrei romani hanno visto cadere gli imperatori romani, conosciuto i diversi pontefici succedersi sul trono di Pietro e subito le diverse discriminazioni che i Papi hanno voluto infliggere ai perfidi giudei. Gli ebrei romani hanno vissuto una breve illusione di liberazione con la marsigliese dei soldati di Napoleone e hanno acclamato i bersaglieri entrare a Porta Pia. L’unità d’Italia ha trasformato gli ebrei da sudditi di serie B a cittadini come tutti gli altri. Pochi decenni dopo tuttavia, a pochi metri dalla Sinagoga, nel silenzio del Papa e con la benedizione di molta stampa cattolica, sono state approvate le leggi razziali fasciste del 1938. E quando il 16 ottobre del 1943 i nazisti sono entrati nel ghetto e gli ebrei romani sono stati caricati sui treni, nessuno ha sentito la voce di Pio XII provare a fermare gli assassini. E’ vero che negli stessi mesi molti altri ebrei hanno trovato rifugio nelle Chiese e nei conventi. Ma la speranza che i pregiudizi antiebraici potessero essere messi in discussione nasce circa vent’anni dopo con il Concilio Vaticano II. Da lì è iniziato un percorso, che ha permesso solo nel 1986 a Karol Wojtyla di andare a trovare gli ebrei in Sinagoga riconoscendoli come fratelli maggiori. Sono passati però altri anni prima che il Vaticano riconoscesse l’esistenza dello stato ebraico in Israele e prima che Papa Giovanni Paolo II potesse fermarsi a pregare davanti al muro del pianto. Le tensioni con Israele e con gli ebrei non sono però finite. Soprattutto in questi anni hanno colpito la reintroduzione della preghiera in latino con l’auspicio della conversione degli ebrei nella messa del venerdì santo, continua a pesare il mancato riconoscimento di Gerusalemme capitale dello stato di Israele, fino al processo di beatificazione di Eugenio Pacelli. A poco sono serviti i chiarimenti vaticani, che hanno placato le preoccupazioni di alcuni, ma che hanno lasciato molti dubbi ai tanti. Per questo la visita di domani di B-XVI non è ritualistica, né tantomeno scontata. Le sue parole e i suoi silenzi verranno pesati. Per il rispetto che nutro per il professor Ratzinger sono certo che non potrà fare a meno di affrontare queste tensioni e che saprà farlo nel rispetto della differente sensibilità alla quale andrà incontro. La sua è forse quella del figlio che vuol difendere l’operato dei padri. Ma gli ebrei di oggi, con quello che oggi si conosce pubblicamente dell’operato del Vaticano negli anni 30 e 40, non sono nelle condizioni di accettare che Pio XII debba rappresentare un esempio per i cattolici. E’ triste e forse anche volgare dirlo, ma l’accento tedesco non può non rappresentare un ulteriore ostacolo in questo senso. Se queste saranno le premesse, allora forse un differente giudizio su Pio XII potrà essere riconosciuto in futuro quando si apriranno senza riserve gli archivi vaticani. Il tempo non dovrebbe essere un ostacolo né per la Chiesa nè per gli ebrei.
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