L'imminente visita di Benedetto XVI alla sinagoga di Roma occupa diverse pagine sui quotidiani italiani. Lascia francamente stupiti il tono di REPUBBLICA che sposa le tesi vaticane, titolando persino a piena pagina con la notizia che Pio XII avrebbe aiutato gli ebrei a fuggire.
Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 15/01/2010, a pag. 21, l'articolo di R. A. Segre dal titolo " Gli ebrei divisi sul Papa ", a pag. 21. Dal CORRIERE della SERA, a pag. 48, l'articolo di Antonio Carioti dal titolo "Dai Lefebvriani a Pio XII. Si chiude l'anno orribile ", a pag. 10, la cronaca di Mario Antonietta Calabrò dal titolo " Il rabbino Laras contro il Papa: 'Visita negativa, non ci sarò' ", a pag. 50, l'intervista di Alessandra Farkas a Elie Wiesel dal titolo " I meriti di Giovanni XXIII e Wojtyla. L'errore? Non coinvolgere i musulmani ". Ecco gli articoli:
Il GIORNALE - R. A. Segre : " Gli ebrei divisi sul Papa "
R. A. Segre
Quarantasei anni fa ho «coperto» il viaggio di Papa Paolo VI in Israele. Ventidue anni fa ho fatto lo stesso per la visita di Papa Giovanni Paolo Il alla Sinagoga di Roma. Alla visita, domenica, di Benedetto XVI assisterò invece da lontano. Avrò così modo di riflettere non tanto su questa nuova visita papale alla «chiesa» degli ebrei romani, ma sul percorso accidentato dei rapporti fra i cosiddetti «fratelli maggiori» e «fratelli tout court». Il protocollo può essere una chiave di interpretazione utile. Prima del secolo scorso, il Papa non aveva mai fatto visita agli ebrei. Erano gli ebrei chiusi nel ghetto che facevano visita al Papa per ricevere l'insulto del lancio della pantofola. Quando Herzl fu ricevuto da Papa Pio X, si sentì dire che mai la Chiesa avrebbe riconosciuto uno Stato degli ebrei per motivi tanto teologici quanto politici. Quando Paolo VI, primo Papa a visitare la Terrasanta, si recò in Palestina, rifiutò di entrare in Israele da un posto di frontiera israeliano. Arrivò dalla Giordania; in suo onore venne aperto un varco fra i fili spinati della linea armistiziale dove, a cielo aperto, lo attendeva ilpresidente israeliano. Disse messa a Nazareth e alla chiesa della Dormizione sul monte Sion, non incontrò alcun dignitario israeliano e inviò dall'aereo un insultante messaggio di ringraziamento al presidente israeliano a Tel Aviv. Quando Papa Wojtyla ruppe il tabù della visita alla Sinagoga, l'attenzione della stampa era rivolta alla dimostrazione contro la visita fatta da uno sparuto gruppo di cristiani all' uscita del corteo papale dal Vaticano. Ci venne allora spiegato che era il vescovo di Roma, non il sovrano dello Stato vaticano, a fare visita agli ebrei romani. Oggi il Papa che entra nella sinagoga romana non è solo il secondo Papa che si è recato in pellegrinaggio in Terra Santa, ma il secondo che lo ha fatto ufficialmente da sovrano in visita a un riconosciuto Stato sovrano ebraico. Chi non si rende conto di questa evoluzione non capisce o non vuol capirne il significato. Certo, molti problemi esistono ancora fra Papato e Israele. Vanno da questioni di esenzione delle tasse per le istituzioni cattoliche in Israele alle dispute sulla beatificazione di Pio XII; dalla presenza del delegato vaticano al discorso di Ahmadinejad alle Nazioni Unite, al comportamento antiisraeliano e pro-palestinese di non pochi rappresentanti della Chiesa in Terra Santa; dal più o meno larvato antisemitismo di certe correnti laiche cristiane all' insistenza cristiana di proselitismo per la salvezza dell'anima dei 'fratelli maggiori'. Ma è anche vero che molti dei cosiddetti «esponenti» dell'ebraismo (che come si sa non possiede gerarchie) sono persone di scarso spessore. Il problema fondamentale, scrive l'ambasciatore d'Israele presso il Vaticano, Mordechay Levi, è«l'autosufficienza (della maggioranza degli ebrei) a definire la propria identità» . In altre parole, i cri stiani hanno bisogno del popolo ebraico per legittimarsi come Verus Israel, mentre gli ebrei non hanno bisogno del popolo cristiano per farlo. Un problema che ha la sua radice religiosa e politica nel trauma provocato dalla «rottura familiare» iniziale e che oggi ancora per molti ebrei ortodossi «è una ferita dolorosa inflitta dal passato». A parte le molte asimmetrie fra le due fedi, «la vittima ebrea sembra essere incapace di concedere l'assoluzione per i misfatti lontani o recenti perpetrati contro i suoi fratelli e sorelle». Per Claudel una delle conseguenze di questo trauma era la trasformazione di Gesù in
CORRIERE della SERA - Antonio Carioti : " Dai Lefebvriani a Pio XII. Si chiude l'anno orribile "

B-XVI
Si è cominciato in gennaio con la revoca della scomunica ai lefebvriani e il caso planetario del vescovo negazionista Richard Williamson, quello capace di sostenere sorridendo che le camere a gas servivano a «disinfettare», e si è finito a dicembre con le polemiche per la proclamazione delle «virtù eroiche» di Pio XII e i suoi silenzi sulla Shoah.
Il 2009 è stato l’anno più difficile, nei rapporti di Benedetto XVI con il mondo ebraico. Già prima che iniziasse, era saltata la giornata del dialogo tra ebrei e cristiani, prevista giusto il 17 gennaio, e questo per la reintroduzione della preghiera in latino del Venerdì Santo, Oremus et pro Judaeis, con l’invocazione affinché gli ebrei «riconoscano Gesù»: questione poi risolta spiegando che non c’è volontà di convertire ma un riferimento escatologico, da San Paolo, alla «fine dei tempi». Eppure, proprio per questo, è stato anche l’anno delle espressioni più impegnative, forse le più forti mai pronunciate da un pontefice, in Vaticano e durante il viaggio in Israele.
L’antefatto della visita di domenica alla sinagoga di Roma— la seconda di un Papa dopo quella di Giovanni Paolo II, il 13 aprile 1986— sono le parole dette a fine gennaio dell’anno scorso ai fedeli nell’aula Nervi, «la Shoah è un monito per tutti contro l’oblio, la negazione e il riduzionismo», le stesse parole ripetute di lì a pochi giorni agli ebrei americani, «è ovvio che qualsiasi negazione o minimizzazione della Shoah, questo crimine terribile, è inaccettabile e intollerabile». In quell’occasione, il 12 febbraio, Benedetto XVI confermò il viaggio in Israele di maggio e davanti ai rabbini e ai leader delle organizzazioni ebraiche americane si rivolse ai «fratelli maggiori» di Wojtyla chiamandoli fathers in faith, «padri nella fede».
L’antefatto, soprattutto, è un documento senza precedenti: non era mai accaduto che un Papa, quasi di getto, prendesse carta e penna per spiegare ai vescovi di tutto il mondo ragioni e limiti di una sua decisione, quella sui lefebvriani, deplorasse l’«ostilità pronta all’attacco» e perfino l’«odio» con cui era stato trattato da alcuni cattolici e, per converso, aggiungesse: «Proprio per questo ringrazio tanto più gli amici ebrei che hanno aiutato a togliere di mezzo prontamente il malinteso e a ristabilire l’atmosfera di amicizia e di fiducia, che — come nel tempo di Papa Giovanni Paolo II— anche durante tutto il periodo del mio pontificato è esistita e, grazie a Dio, continua ad esistere». La lettera, datata 10 marzo, arrivò all’indomani di un breve incontro in Campidoglio con il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, e due giorni prima che la comunità ebraica, il 12 marzo, annunciasse la visita del Papa al Tempio.
Per Benedetto XVI si tratta della terza visita ad una sinagoga, dopo quelle di Colonia il 22 agosto 2005 e di New York il 18 aprile 2008. In Vaticano, non fosse per le polemiche nel mondo ebraico che precedono la visita— e basterebbe la decisione del rabbino Giuseppe Laras, presidente dell’Assemblea italiana, che ha scelto di non andare e contestato il rabbino Di Segni— si è sempre voluto insistere sulla «normalità» dell’appuntamento, come dice padre Federico Lombardi: «È importante che la visita del Papa alla sinagoga, di per sé, non sia ormai considerata un "evento" stupefacente: è la terza in cinque anni, per Benedetto XVI, la quarta se si considera la preghiera del 12 maggio 2009 al Muro Occidentale, e non c’è nessun motivo di stupore in un mondo nel quale le religioni cercano un dialogo serio e profondo per rispondere ai problemi dell’umanità di oggi e dare una testimonianza di pace».
Giovanni Paolo II, primo pontefice ad entrare in una sinagoga (anche se Di Segni faceva notare sorridendo che «prima ci fu un certo Pietro») ha aperto la strada nel 1986. Chiaro che quell’incontro della comunità ebraica con «il Papa che è venuto alla sede di San Pietro dalla diocesi sul cui territorio si trova il campo di Auschwitz», come disse allora Wojtyla, sia stato un evento irripetibile. L’immagine di quei due uomini vestiti di bianco, Giovanni Paolo II e il rabbino capo Elio Toaff, bucò gli schermi della mondovisione. Il riferimento del Papa ai «fratelli maggiori» e la riaffermazione della storica dichiarazione conciliare Nostra Aetate («Sì, ancora una volta, per mezzo mio, la Chiesa deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo dirette contro gli ebrei in ogni tempo e da chiunque. Ripeto: da chiunque») oscurarono le polemiche, che pure non mancarono neanche allora. Gli ultratradizionalisti cattolici che fuori dal Tempio distribuivano volantini con scritto «Papa, non andare da Caifa». E il presidente della comunità ebraica romana, Giacomo Seban, a ricordare, anche allora, il silenzio di Papa Pacelli. Pio XII, sempre lui. La proclamazione a dicembre delle «virtù eroiche», una tappa verso la beatificazione, non ha fatto che riaccendere discussioni che non si sono mai sopite. Ma non c’è solo questo.
È evidente che ogni gesto di Joseph Raztinger, primo Papa tedesco dopo più di nove secoli, sia stato analizzato in questi anni con la lente d’ingrandimento ogni volta che in qualche modo aveva a che fare con il tema dell’ebraismo e della Shoah. In quasi cinque anni di pontificato, i gesti sono stati innumerevoli. E basterebbe l’attesa che il 19 agosto 2005— quattro mesi dopo la sua elezione— accompagnò la visita di Benedetto XVI alla sinagoga di Colonia, una di quelle devastate dai nazisti nella Kristallnacht, la «notte dei cristalli» fra il 9 e il 10 novembre 1938, la «furia nazista» di un «regime senza Dio». O il viaggio ad Auschwitz, il 28 maggio 2006, «come successore di Giovanni Paolo II e come figlio del popolo tedesco: figlio di quel popolo sul quale un gruppo di criminali raggiunse il potere mediante promesse bugiarde, in nome di prospettive di grandezza, di ricupero dell’onore della nazione e della sua rilevanza, con previsioni di benessere e anche con la forza del terrore e dell’intimidazione, cosicché il nostro popolo poté essere usato ed abusato come strumento della loro smania di distruzione e di dominio. Sì, non potevo non venire qui».
Quel giorno, si notò, il Papa aveva aggiunto la parola «Shoah» che non era presente nel testo ufficiale. Ci furono discussioni sul popolo tedesco. E da allora l’attenzione generale non ha conosciuto tregue. Anche durante il viaggio in Israele, nel mondo ebraico come in quello cattolico e nei media, si sono moltiplicate discussioni sul fatto, ad esempio, che allo Yad Vashem, nella sala del ricordo della Shoah, avesse detto «milioni di ebrei» sterminati senza precisare «sei», come invece aveva detto all’aeroporto, o che il discorso fosse più o meno freddo. La stessa attenzione che accompagnerà gesti e discorso di domenica, quasi gli esami non finissero mai.
CORRIERE della SERA - Maria Antonietta Calabrò : " Il rabbino Laras contro il Papa: 'Visita negativa, non ci sarò' "

Giuseppe Laras
ROMA— La visita del Papa, domenica, alla Sinagoga di Roma divide gli ebrei. Il presidente dell'Assemblea rabbinica italiana, Giuseppe Laras, ha annunciato a un giornale ebraico tedesco, «Jüdische Allgemeine Zeitung», perché non parteciperà. Pietra dello scandalo la figura di Pio XII. Ma non solo. «Durante l'attuale pontificato, il rapporto fraterno (tra ebrei e cattolici, ndr) è diventato sempre più debole» ha detto con un atto d’accusa a Ratzinger. Tra gli «infortuni sul lavoro» del Pontefice per Laras anche la revoca della scomunica del vescovo lefebvriano Richard Williamson. Solo la Chiesa «trarrà vantaggio» dall'incontro, «soprattutto i suoi circoli più retrivi», mentre non «avrà un effetto positivo «per il dialogo ebraico-cattolico», ha aggiunto Laras. Accuse anche agli ebrei romani e al loro rabbino capo Riccardo Di Segni per aver «unilateralmente» confermato l’evento, dopo la proclamazione delle virtù eroiche di papa Pacelli: «L’Assemblea rabbinica non è stata affatto consultata».
«Sarà il tempo a decidere quale delle opposte visioni ha avuto ragione» ha replicato Di Segni. La Comunità romana parteciperà in massa: i biglietti d'invito sono esauriti e moltissime richieste non potranno essere soddisfatte. Mentre il suo presidente, Riccardo Pacifici, sottolinea che «la presenza in sinagoga delle più autorevoli personalità del mondo ebraico internazionale, dal presidente del World Jewish Congress e dell'European Congress al rabbinato internazionale e israeliano, testimoniano l'incoraggiamento e il sostegno affinché questa visita avesse luogo».
L’incontro tra ebraismo e cristianesimo «è radicato su di una piattaforma salda e solida» ha confermato il vescovo di Terni Vincenzo Paglia, presidente della Commissione ecumenismo e dialogo della Cei, nel corso di un incontro sul Quarto comandamento in vista della giornata comune ebraico-cattolica. Mentre per l’ambasciatore israeliano presso la Santa Sede, Mordechay Lewy, il significato della visita di Benedetto XVI ha una «dimensione storica» nel rapporto, spesso «problematico», tra ebrei e cattolici, perché riuscirà a «dimostrare a tutti» che «nonostante la differenza di opinioni possiamo mantenere un dialogo onesto emolto amichevole anche se non siamo d'accordo su tutto». «I rapporti — ha aggiunto — da tempo sono positivi. E ora siamo rientrati sul binario giusto». Il diplomatico non si nasconde tuttavia che «un antigiudaismo cattolico esiste ancora». E che «le precisazioni fornite dal Vaticano a seguito delle obiezioni sorte in ambienti ebraici dopo il riconoscimento delle «virtù eroiche di Pio XII, non fermeranno le critiche».
Quella di Laras insomma sembra una posizione isolata. Anche se ci sono altri segnali di malessere: su «Il Clandestino» Scialom Bahbout, rabbino a Roma, sollecita la Chiesa a restituire alla Biblioteca nazionale di Israele tutti i manoscritti ebraici in suo possesso come ha fatto la Germania come atto di «riparazione» per la persecuzione nazista.
CORRIERE della SERA - Alessandra Farkas : " I meriti di Giovanni XXIII e Wojtyla. L'errore? Non coinvolgere i musulmani "


Alessandra Farkas, Elie Wiesel
NEW YORK — «Non è il mio compito immischiarmi in questioni interne all’ebraismo italiano. Quindi no comment». Alla vigilia del suo viaggio in Italia, dove il prossimo 27 gennaio, in occasione del Giorno della Memoria, parlerà nell’Aula della Camera alla presenza del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il Premio Nobel Elie Wiesel prende le distanze dalla polemica che rischia di spaccare in due l’ebraismo italiano sulla contestata visita di Benedetto XVI alla Sinagoga di Roma.
«Non conosco le intenzioni di questo papa e non so leggere il suo pensiero— precisa Wiesel —. Perciò lascio al suo entourage anche il compito di dibattere il significato e le mire di una visita che comunque non è la sua prima in una sinagoga. Ratzinger non è il mio pontefice preferito ma che diritto ho, io, ebreo, di dire mi piace o non mi piace un pontefice?». Il dialogo tra le due confessioni è a rischio? «Macché. Non è comunque merito di papa Ratzinger se, in tutta la nostra lunga e tortuosa storia, i rapporti tra cattolici ed ebrei non sono mai stati tanto stretti e felici come adesso. Il trend delle gerarchie ecclesiastiche oggi è tutto volto al dialogo e al rispetto reciproco, pur nella diversità. Non parlo di tolleranza, una brutta parola che non amo usare perché implica condiscendenza, certezza della propria superiorità morale». A chi va il merito di questi progressi? «Possiamo ringraziare soprattutto due grandissimi pontefici del passato: Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II. Il movimento ecumenico da loro creato ha dato vita ad una strettissima collaborazione tra ebrei e cattolici, impegnati insieme per il bene di tutta l’umanità. Purtroppo, e va detto, sono stati commessi anche gravi errori». A che cosa si riferisce? «Alla grande occasione storica che abbiamo perso all’inizio, non invitando anche un rappresentante dei musulmani, l’altra grande religione monoteista. Ciò avrebbe consentito ai leader delle tre principali fedi monoteiste di incontrarsi e studiare insieme i testi sacri, magari con scadenza mensile. Da questa intesa avrebbero potuto scaturire solo buone cose».
Siamo ancora in tempo per estendere un ponte al mondo islamico?
«Certo, l’importante è escludere dal dialogo i fanatici che predicando la violenza, rinunciando così al loro diritto di essere ascoltati. Essi non pongono mai domande perché il loro è un mondo di sole risposte: tutte sbagliate».
Pensa che il mondo cattolico oggi sia più colto in materia di cultura e religione ebraica?
«La sua leadership lo è. Ho conosciuto diversi cardinali e vescovi, da Jean-Marie Lustiger a Parigi a John Joseph O’Connor a New York, ferratissimi in cultura ebraica. E anche gli scrittori e gli intellettuali cattolici oggi sono ben più preparati dei loro predecessori. Ma anche l’inverso è vero».
Gli ebrei di oggi hanno meno pregiudizi anticattolici dei loro nonni?
«Infinitamente di meno. E ricordiamoci che il dovere di conoscere e rispettare l’altro non può mai esonerare noi ebrei».
È preoccupato per il ritorno di antisemitismo in Europa?
«Dire preoccupato è un understatement. Sono appena rientrato da Budapest, dove mi hanno invitato a parlare in Parlamento e dove sono rimasto scioccato dal ritorno della propaganda antisemita più virulenta. Provo angoscia ed imbarazzo nel vedere che nel Paese dei miei avi nulla è cambiato e parlerò anche di questo nella mia prossima visita in Italia. In Ungheria ho lanciato un appello al presidente Laszlo Solyom e al primo ministro perchè si faccia qualcosa. Al più presto.».
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