Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Innovazioni culinarie e trasformazioni nell'agricoltura in Israele Commenti di Elena Loewenthal, R. A. Segre
Testata:La Stampa - Il Giornale Autore: Elena Loewenthal - R. A. Segre Titolo: «Israele, anche per i maiali c’è una Terra Promessa - Così Israele ha trasformato gli immigrati in una risorsa»
Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 14/01/2010, a pag. 34, l'elzeviro di Elena Loewenthal dal titolo " Israele, anche per i maiali c’è una Terra Promessa". Dal GIORNALE, a pag. 11. l'articolo di R. A. Segre dal titolo " Così Israele ha trasformato gli immigrati in una risorsa ". Ecco i due pezzi:
La STAMPA - Elena Loewenthal : " Israele, anche per i maiali c’è una Terra Promessa"
Elena Loewenthal
La pensione talvolta è l’anticamera della noia, in altri casi accende l’ispirazione: è questo il caso di Eli Landau, un cardiochirurgo israeliano che da quando ha smesso di operare si dedica al maiale. In senso gastronomico- letterario, beninteso, con il primo ricettario ebraico tutto per queste carni, che sta destando un certo, sbigottito scalpore. Israele è un vertiginoso melting pot di culture e cucine arrivate dai quattro angoli del mondo: dal cous cous al bortsch, dalle empanadas al curry, si mangia di tutto. La buona tavola è molto seguita: Alfredo Russo, chef del Dolce Stil Novo di Venaria, è diventato una star in Israele, dopo aver partecipato a un programma tv. Ma il sistema alimentare ebraico è delimitato dalle leggi bibliche, che vietano molte carni, crostacei, molluschi e altro. La cucina di Israele raccoglie questa ancestrale eredità e si colloca «sul territorio»: se il conflitto li divide drasticamente, la tavola unisce arabi ed ebrei nei cibi che amano - i falafel, il kebab… -, in quelli che detestano. Come per l’appunto il maiale, che se per l’ebraismo rientra fra le carni proibite, per i musulmani è l’incarnazione dell’abominio. Eppure, il libro del dottor Landau non è un trattato «astratto». C’è da scommettere che avrà il suo pubblico, perché da sempre, e nonostante tutto, anche in Israele si mangia maiale. L’allevamento di suini è vietato in Terra Promessa, ma non senza eccezioni. Esclusa da questa proibizione è una zona settentrionale del paese, abitata da una cospicua minoranza di arabi cristiani, che nulla hanno contro il maiale in tavola. Da queste parti sorge l’azienda «storica» produttrice di carne di maiale nonché insaccati per tutti i gusti: il kibbutz Mizra è rinomato per la sua «carne bianca» (con questo eufemismo viene definito, nei ristoranti e sulle etichette, il suino), oltre che per un raffinato foie gras d’oca. Fuori della zona «franca» c’è un altro kibbutz che vanta il proprio allevamento, e qui siamo nel deserto del Neghev, non lontano da Beer Sheva: a Lahav i maiali vengono tenuti su piattaforme di legno, un po’ per ragioni igieniche, un po’ per aggirare il divieto di allevare questi animali «sul suolo della terra d’Israele». La millenaria vocazione a spaccare il capello in quattro, esercitata sui testi sacri, può tornare utile nei contesti più imprevedibili… Fatto sta che, magari sotto pseudonimo e un po’ sotto banco, la carne di maiale non è cosa del tutto ignota né agli ebrei né agli arabi (cristiani mapure qualche islamico) israeliani. Perché anche in cucina, così come nella società e nella coscienza civile, accanto all’anima religiosa, fedele alle regole antiche, convive qui una laica, aperta a ciò che è nuovo.
Il GIORNALE - R. A. Segre : " Così Israele ha trasformato gli immigrati in una risorsa "
R. A. Segre
Nel luglio del 1967 Moshé Dayan vincitore della Guerra dei sei giorni si trovò con un territorio sottoposto al controllo militare sei volte superiore a quello dello stato di Israele. Il Sinai egiziano e le alture del Golan, siriani spopolati dalla guerra non presentavano nell'immediato problemi economici. A Gaza e in Cisgiordania, invece, più di un milione di contadini palestinesi dipendevano dalla coltivazione di meloni e angurie, sviluppata negli anni precedenti per soddisfare, tramite la Giordania il mercato saudita e degli Emirati Arabi, meloni che ora marcivano nei campi. Dayan doveva trovare una soluzione rapida ma che non sembrasse imposta dal nemico. Gliela suggerì un israeliano di Haim Israely, in seguito chiamato dal ministero dell'Agricoltura americano per diffondere nuove culture nelle zone depresse del Mississippi. «Prima dei meloni ci dovevano essere altre culture - disse a Dayan -. Chiediamo ai vecchi dei villaggi quella che rendeva di più». Si scopri che era la coltivazione del sesamo, indispensabile alla produzione di due cibi locali, la tehina e la halawa. Per diffondere rapidamente il ritorno a una cultura andata quasi perduta, fu aumentata la dogana sull'importazione del sesamo facendone salire il prezzo; un proprietario terriero palestinese, grosso notabile della zona, si dichiaro disposto a tornare a coltivare il sesamo con un contratto di vendita garantito. Il suo esempio dilagò a macchia d'olio dando, unitamente ad altre innovazioni agricole, il via alla rivoluzione agricola della Palestina, contribuendo a far crescere il reddito nelle zone occupate in maniera esponenziale sino allo scoppio della prima e seconda «intifada». Di questa rivoluzione nessuno parlò nonostante il modello potesse essere applicato ovunque alla soluzione di problemi di integrazione di immigrati, si fondava su quattro punti: a) l'integrazione (di esseri umani o di nuove tecniche) comporta cambiamento; b) la diffusione del cambiamento avviene per imitazione; c) l'imitazione richiede legittimazione; d) i legittimatori sono coloro che si fanno «notare» e sono ritenuti credibili. Nelle società tradizionali - e sino a non poco tempo fa anche in quelle sviluppate - il personaggio credibile è sempre stato il «notabile». Membro di una classe che all'inizio del secolo passato si organizzava ancora in partiti politici «borghesi» (quello radicale in Francia e liberale in Italia), ma che in Europa è stata spazzata via dal fascismo, dal socialismo e dal pluralismo e in molti paesi emergenti dall'anticolonialismo. Il notabile tuttavia esiste sempre in ogni gruppo; basta volerlo riconoscere. È la chiave per il successo dell'integrazione dell'immigrato. In molte parti d'Italia è espressa disordinatamente dal pizzaiolo diventato proprietario di ristoranti, dal muratore diventato capomastro e poi piccolo imprenditore edile; dal manovale diventato giardiniere e cosi via. Ma l'esempio resta isolato perché, non solo per inerzia intellettuale ma perché se si sa tutto sulle cause dell'emigrazione, una teoria generale della integrazione non esiste. I due modelli, quello americano (pentola a pressione) e francese (lingua, laicismo, repubblicanesimo) sono falliti. Si preferisce affidare alla polizia il compito di mantenere l'ordine lasciando il migrante nelle mani di «notabili» emersi per violenza o per conoscenze (o misconoscenze) religiose spesso ostili alla integrazione. È significativo confrontare gli aranceti di Rosarno carichi di frutti non raccolti a causa della la fuga degli immigrati africani con gli aranceti israeliani, anch'essi affidati alle cure di manodopera di origine africana o asiatica con migliaia di operai stranieri che bussano alle porte dello Stato per essere ammessi. Ma di Israele si preferisce parlare solo per la guerra, per il fanatismo degli ortodossi, per i muri anti terrorismo denunciati dal Tribunale dell'Aia ma imitati in silenzio dall'Egitto, dall'Arabia Saudita, dal Pakistan ecc. Sulla riforma agricola in Palestina, sulle tecniche che hanno permesso a una società forte di 600mila anime nel 1948, di accogliere tre milioni di migranti si preferisce tacere.
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