Mettiamo a confronto, oggi 09/01/2010, CORRIERE della SERA e GIORNALE con una notizia che ci permette di sottolineare il taglio complottista del primo, con un titolo che neppure corrisponde al testo, con l'analisi di Andrea Nativi sul secondo, nella quale viene spiegata la ragione di un possibile richiamo delle forze italiane a Hebron, in un piano di riorganizzazione internazionale.
Non è da oggi che il desk esteri del CORRIERE della SERA titola seguendo più l'ideologia che il contenuto della notizia. E' grave che succeda a un giornale che finora si era distinto per equilibrio e correttezza. Lasciar fare, senza intervenire, a qualche manina infarinata, come da tempo chiamiamo chi al desk esteri ha impresso la nuova linea, ci sembra una gravissima disattenzione da parte del direttore Ferruccio De Bortoli. Chiediamo ai nostri lettori di scrivergli, per chiedergli se ritiene consoni al giornale che dirige, queste scelte degne più di Repubblica che del Corriere.
Ecco i due articoli:
Corriere della Sera-Francesco Battistini: " L'offensiva di Liebermann, via gli italiani da Hebron "


GERUSALEMME — Italiani go home. Loro e tutti gli altri. Ha cominciato a pensarci qualche mese fa, quando al ministero degli Esteri cercavano un segnale forte per un’Unione europea considerata sempre più ostile: adesso, il governo Netanyahu va oltre. E sta considerando la possibilità di non estendere più il mandato della missione internazionale Tiph, sigla che sta per «Temporary international presence in Hebron» ed è il contingente militare che da dodici anni assicura una precaria tranquillità a una delle più turbolente città dei Territori, la Hebron divisa metro per metro fra palestinesi ed ebrei. L’idea di cacciare la Tiph è di Avigdor Lieberman, il ministro, ma a spiegarla è il suo vice, Danny Ayalon. Che chiacchierando con un giornalista di Gerusalemme si lascia scappare la confidenza: «Questi militari hanno superato i limiti del loro incarico. Nei loro rapporti, ci sono solo le denunce di violenze sui palestinesi. Non c’è mai una riga su quelle subìte dagli israeliani».
Il mandato della forza multinazionale va rinnovato ogni sei mesi e la prossima scadenza è a fine gennaio. Ne fanno parte una dozzina di funzionari italiani, per lo più carabinieri, e poi norvegesi, danesi, svedesi, svizzeri e turchi. Un lavoro difficile, che negli anni è costato più d’una vita: ogni settimana, disordini e tensioni scaldano l’aria di quest’angolo di Cisgiordania, dove la pace è più fragile dei famosi vetri che vi si producono. Non è la prima volta che il governo israeliano minaccia di non rinnovare il mandato dell’«international presence»: da quando fu firmato il protocollo di Hebron per la protezione di 700 ebrei in un mare di 120mila arabi, le provocazioni e le accuse reciproche di violazioni degli accordi hanno spesso fatto precipitare la situazione, costringendo qualche anno fa i carabinieri a sospendere la presenza. Stavolta, spiegano dall’entourage di Lieberman, a far precipitare la missione potrebbe essere una considerazione più politica. Esclusa l’Italia, ancora considerato il governo europeo forse più vicino alle posizioni di Netanyahu, a disturbare è che la mediazione sia garantita da Paesi considerati assai meno amici: la Svezia, con la quale s’è aperta una profonda crisi diplomatica; la Norvegia e la Danimarca, da sempre più sensibili alle ragioni palestinesi; la Turchia, in aperta rottura da un anno a questa parte, con la clamorosa contestazione pubblica che mesi fa il premier Erdogan riservò al presidente israeliano Peres. «Sono governi che non ci tutelano», dice ora Lieberman. Minacciando di mettere un nuovo sasso nell’ingranaggio, inceppatissimo, del processo di pace.
Il Giornale-Andrea Nativi: "Meno soldati italiani in Kosovo per rafforzare Kabul"


Andrea Nativi
Meno soldati nei Balcani, più soldati in Afghanistan. Questo è il nuovo corso delle operazioni militari italiane. Il nostro Paese infatti mantiene un forte impegno nelle missioni militari internazionali, con oltre 8.300 uomini e donne all'estero alla fine del 2009, ma, finalmente, cerca di razionalizzare lo sforzo, concentrando uomini, mezzi e soldi là dove è più importante per gli interessi nazionali.
E mentre si avvia un potenziamento del contingente in Afghanistan, che arriverà nel corso dell'anno a sfiorare i 4.000 uomini, si comincia a ridurre la presenza in altri teatri. Il ministro della Difesa Ignazio la Russa, insieme al ministro degli Esteri Franco Frattini, ha confermato al parlamento il piano di ridimensionamento del contingente presente in Kosovo, nel quadro della missione a guida Nato Kfor. Attualmente sono poco meno di 1.900 i militari italiani impegnati per questa missione. Ma dopo la dichiarazione di indipendenza del Kosovo e con il processo di avvicinamento della Serbia alla Unione Europea in pieno svolgimento, finalmente è giunto il momento di ridurre la tutela militare alleata. La Nato ha deciso di tagliare di un terzo la consistenza della Kfor, da 15mila a 10mila militari e parallelamente l'Italia rimpatrierà 500 soldati, pur mantenendo il comando della regione occidentale, che scenderà dal livello di brigata a quello di reggimento. Se la situazione sul terreno lo consentirà, altre consistenti riduzioni saranno effettuate nel corso dell'anno. In teoria la Nato vuole arrivare a 5.000 uomini entro fine anno e poi magari passare la mano alla Unione Europea. E l'Italia potrebbe ritirare almeno altri 500 soldati, forse di più.
Parallelamente si cercherà, finalmente, di chiudere anche la missione in Bosnia, in corso dal 1995, dove tuttora l'Italia mantiene poco meno di 300 militari, inquadrati nella operazione Altea, a guida Ue.
Probabile anche un ridimensionamento della nostra presenza in Libano, con la missione Unifil a guida Onu. Al momento abbiamo quasi 2.100 militari, ma si spera di poterne richiamare circa 300. Non molti di più, sia per le pressioni internazionali, sia perché la situazione è solo apparentemente tranquilla e nessuno vuole un nuovo scontro tra Hezbollah e Israele.
Inoltre la Difesa, di conserva con gli Esteri, sta rivedendo il complesso delle missioni in corso, che vedono i nostri soldati impegnati in 27 missioni in 20 Paesi. Davvero troppo. Alcune presenze sono simboliche, come quella di 3 uomini in Sudan, di 7 in Pakistan, 5 in Congo, 4 a Cipro e 4 in Marocco. Altre sono più sostanziose. Dalle acque della Somalia al Medio Oriente, i nostri militari sono un po' ovunque. La razionalizzazione consentirà di sfoltire gli impegni, per realizzare una «massa critica» in pochi teatri principali, con lo scopo di conseguire il massimo ritorno politico e strategico. Solo così si giustifica una spesa che nel 2010 raggiungerà 1,5 miliardi di euro (750 milioni a semestre) per il versante Difesa, ai quali si spera si aggiungano almeno 200 milioni di euro per le indispensabili attività di cooperazione degli Esteri.
È ben chiaro che mandare e sostenere mille uomini in più in Afghanistan, dove tra l'altro i battle groups, le formazioni di manovra, schierate nella regione Ovest, diventeranno quattro ed il comando italiano salirà al livello Divisione, è ben più costoso rispetto ad un impegno numerico identico nei Balcani o anche in Libano, fosse solo per ragioni logistiche. Però un ridimensionamento degli impegni non essenziali consentirà di risparmiare soldi e soldati, che saranno poi impiegati al meglio. Questa è una novità assoluta nella stagione delle missioni militari italiane che spesso hanno visto una dispersione su troppi fronti, senza raccogliere dividendi politici, strategici ed economici adeguati. Ora si vuole cambiare e le prime decisioni vanno nella giusta direzione.
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