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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Giornale-Il Foglio-Corriere della Sera Rassegna Stampa
06.01.2010 Giordania, Cia, Yemen, una sconfitta dopo l'altra, e non c'è un nuovo Reagan all'orizzonte
L'analisi di Fiamma Nirenstein, del Foglio, di Lorenzo Cremonesi

Testata:Il Giornale-Il Foglio-Corriere della Sera
Autore: Fiamma Nirenstein-La redazione del Foglio-Lorenzo Cremonesi
Titolo: «Ma Barack fa il duro soltanto a parole-Così l'infiltrato giordano da al Qaida è riuscito a tradire la Cia-Lo Yemen ostaggio dei terroristi, la gente nei villaggi tifa Osama»

Sul GIORNALE di oggi, 06/01/2010, a pag.8, l'analisi di Fiamma Nirenstein sulla strategia fallimentare di Obama, con il titolo: " Ma Barack fa il duro soltanto a parole":
Quand’è che sapremo dalle labbra del presidente degli Stati Uniti che il nemico che è deciso a combattere è la jihad, la guerra santa che in maniera multiforme, sottile ma organizzata e massiccia, schiera i suoi uomini sulla linea del fuoco degli attentati di New York, di Londra, di Madrid, di Bali, di Buenos Aires, di Mombasa, di Gerusalemme... lungo la frontiera più vasta e pervasiva della storia di ogni altra guerra? Non è un problema linguistico, ma di grande sostanza: senza identificare il nemico, non lo si può battere.
Il presidente Obama dopo l’atta cco fallito al volo 253 di Natale, sembra scosso; ha risposto duramente alla sua ministra degli interni Janet Napolitano che non è vero affatto che «il sistema ha funzionato». Poi, ha ordinato di riorganizzare il sistema di sicurezza degli aeroporti; tanto si è reso conto di quanto fosse importante, unito ad altri, il segnale proveniente dal giovane terrorista nigeriano addestrato in Yemen, da chiudervi l’ambasciata.

Forse Obama comincia a realizzare che la sua speranza di ingraziarsi l’islam con un atteggiamento rispettoso fino alla sottomissione, che la sua rivoluzione culturale circa il ruolo degli Usa nel mondo, non placano il terrorismo islamico e non mitigano la sua ambizione di dominare il mondo. Forse ha anche capito dalla protervia sia qaidista che iraniana che il suo cerimonioso approccio rende l’islam sia sunnita che sciita più deciso e insolente. Ma quando si parla di vicine sanzioni all’Iran, di nuovo Hillary Clinton riafferma il vangelo della corrett ezza politica promettendo che non danneggeranno la popolazione. Sia col terrorismo internazionale che con l’Iran l’amministrazione è in allarme, e vuole tenere fermo, oltre la già difficile frontiera afghana, il ribollire di un grande mondo in rivolta.

Obama però pensa sia ancora possibile giocare quel sistema di simboli, astrazioni, parole che gli ha consentito di accedere alla presidenza degli Stati Uniti. Obama sa che, più che un politico, è un simbolo. Dunque, l’Amministrazione studia come affrontare il terrorismo qaidiano e il regime iraniano coprendo di eufemismi la sua scelta, celandola persino a se stessa se non per quello che gli basta a rassicurare gli americani spaventati. È difficile guardare intorno senza scorgere il terrore globale: ma se ieri l’interesse del Presidente verso questa minaccia sembrava quasi nulla, oggi dopo aver ripetuto ben cinque volte che il terrorista nigeriano era «un estremista», Obama capisce che non può stare con le mani i n mano. La gente è spaventata, l’undici di settembre è sempre là. Aveva tentato la scappatoia del «pazzo isolato» anche dopo l’attentato di Fort Hood compiuto dall’ufficiale americano mussulmano Nidal Malik Hassan; poi c’è stato l’arresto di cinque pachistani-americani incardinati in una congiura tutta cresciuta nella Al Qaida di casa propria; e poi il tentativo di omicidio di massa di Umar Farouk Abdulmutallab sul volo 253.


Fiamma Nirenstein

Obama, specie dopo quest’ultimo evento e dopo aver riproposto lo schema del terrorista nigeriano come psicotico la cui mente alterata ne fa probabilmente «un caso isolato», ha dovuto arrendersi all’evidenza di una larga, lunga preparazione di cui era venuto a conoscenza addirittura il padre del terrorista, che l’aveva denunciato. Non solo: dalle indagini esce chiaro il nesso con la leadership del movimento trasferita da Guantanamo in Arabia Saudita e poi in Yemen; intanto, si è dispiegata chiara e intrigante la spietatezza dell’a ttacco astuto e preciso compiuto contro sette agenti della Cia in una base americana sul confine fra Afghanistan e Pakistan da un infiltrato giordano.

Il presidente americano alla fine ha pronunciato parole dure: bisogna, ha detto, «distruggere, smantellare, sconfiggere gli estremisti che ci minacciano... ovunque pianifichino i loro attacchi». Ma chi sono costoro? Perché lo fanno? L’Amministrazione non lo dice, e dove non c’è analisi non c’è strategia. Obama ha ordinato che da ora in avanti gli aeroporti passino al setaccio chi proviene da 14 Paesi, tutti quanti islamici; ma si parla di nazionalità, non di religione. Può essere un’idea gentile, anche se poco piacerà ai cristiani di questi Paesi. E può risultare pericolosa l’esclusione, certo politica, di Egitto e Giordania, Paesi moderati dove però si annidano sia i Fratelli Musulmani che Al Qaida. Nessuno così potrà dire che il profiling aeroportuale sia un’affermazione di discriminazione religiosa che sottintende un attacco islamico agli Stati Uniti o a altri Paesi occidentali.

Ma quanto dureranno questa e altre forme di cortesia? Obama con la sua politica eufemistica, così come con il continuo aprire e chiudere i rapporti con un Iran che è ben peggio, ormai, di uno Stato canaglia, ha un’influenza fuorviante su chi guarda all’America con la fiducia che si è meritata nei decenni.

L'analisi del FOGLIO di oggi, 06/01/2010, in prima pagina, dal titolo " Così l'infiltrato giordano da al Qaida è riuscito a tradire la Cia ", ripropone ancora una volta il ruolo ambiguo della Giordania sul palcoscenico mediorientale. E' curioso che a nessun "esperto" sui nostri giornaloni  venga mai la curiosità di scrivere  qualche dotto articolo sul ruolo che la Giordania riveste nello scenario del terrorismo internazionale.  Non che Re Abdullah II sia un fiancheggiatore, sa troppo bene quale pericolo per il trono rappresenti il terrorismo, ma non si può certo dire che stia in prima fila nel combatterlo. Stare nelle retrovie è più comodo, si sta dalla parte degli arabi contro Israele quando conviene, ricevendo comunque l'aiuto dello Stato ebraico ed i dollari americani per sopravvivwere.

Il Foglio
: " Così l'infiltrato giordano da al Qaida è riuscito a tradire la Cia "


Re Abdallah di Giordania

Roma. L’infiltrato suicida che ha ucciso sette agenti della Cia e una spia giordana la settimana scorsa era un doppiogiochista ammesso dentro la base dei servizi segreti in Afghanistan perché gli americani speravano che li avrebbe portati dai capi di al Qaida. Humam Khalil Mohammed era stato reclutato dall’intelligence della Giordania e portato fino sul confine tra Pakistan e Afghanistan. Avrebbe dovuto entrare in contatto con al Qaida, presentarsi come volontario straniero alle cellule arabe che sono gli elementi più pericolosi della guerriglia e – grazie anche al suo curriculum di medico – arrivare fino al numero due del gruppo terrorista, l’ideologo egiziano Ayman al Zawahiri, anche lui medico in gioventù nel quartiere bene del Cairo, quello abitato dagli occidentali – proprio sui banchi dell’università Zawahiri conobbe l’islamismo estremista. In questi anni al Zawahiri ha continuato a girare video e messaggi politici fino a rimpiazzare Osama bin Laden come volto parlante di al Qaida. I droni americani hanno attaccato almeno due volte i luoghi degli incontri ad alto livello dove i servizi segreti credevano sarebbe arrivato anche al Zawahiri, ma l’hanno sempre mancato per poche ore. Il piano ha funzionato al contrario. L’infiltrato si è fatto ammettere a un incontro con i vertici della Cia in Afghanistan e si è fatto esplodere. Era riuscito a incontrare i vertici di al Qaida? E’ probabile che ci sia arrivato vicino – abbastanza vicino da farsi dare un corpetto esplosivo come quelli usati dagli attentatori della rete terroristica. Altrimenti il vice dell’intelligence americana della sezione di Kabul non si sarebbe scomodato dalla capitale per sentire il suo de-briefing, il rapporto in cui avrebbe dovuto raccontare i particolari della sua missione. E nemmeno l’infiltrato avrebbe goduto dello status privilegiato che gli ha permesso di entrare nel fortino della Cia, la base “Chapman”, senza nemmeno essere perquisito, una trasgressione al protocollo di sicurezza mai sentita prima – chi farebbe entrare senza controlli un arabo con contatti dentro al Qaida all’interno di una delle installazioni più segrete del paese? Da lui si aspettavano grandi notizie. “C’è troppa fame di risultati immediati”, è il commento che ora gira dentro gli ambienti dell’Agenzia. “Da quando si fanno de-briefing così rischiosi di persona?”. Il capo della base Cia, una veterana delle operazioni all’estero madre di tre figli, è morta nell’attentato. Il mediatore e responsabile personale dell’infiltrato era un uomo fidato dell’intelligence giordana, il capitano Sharif Ali bin Zeid, cugino di re Abdullah II di Giordania (che sabato ha partecipato ai funerali assieme alla moglie Rania). Amman gioca un ruolo importante a fianco degli americani nella guerra contro al Qaida, perché sa che gli estremisti sono una minaccia anche per i governi arabi moderati. Ma con molta discrezione, per non irritare la propria opinione pubblica – che non simpatizza con Washington, considerata troppo vicina a Israele. La Direzione generale dell’intelligence ha mandato i propri agenti in Iraq durante la guerra per dare la caccia ai pezzi grossi di al Qaida – ci sono anche loro dietro l’eliminazione nel 2006 del capo Abu Mussab al Zarqawi. Per questo gli americani – e il capitano dei servizi cugino del re – si sono fidati della recluta giordana. Le credenziali del medico Il medico doppiogiochista aveva credenziali fin troppo credibili come aspirante agente di al Qaida. Jarrett Brachman, un esperto americano che segue i forum estremisti su Internet, dice che era “tra i primi cinque e più rispettati animatori” dei siti filo al Qaida in rete. Secondo AsiaTimes, solitamente ben informato, al Qaida stava preparando il colpo da diverse settimane, dopo essersi accorta che “Chapman” era una base Cia con l’obiettivo di prendere Zawahiri e cha da lì partivano tutti i tentativi di arruolare informatori oltreconfine, nelle aree tribali del Pakistan, per guidare meglio gli attacchi missilistici dei droni americani. Tra i punti ancora oscuri ci sono anche le fughe di notizie su “Chapman”, un aeroporto riadattato ai cui margini sopravvive ancora un rottame di aereo sovietico. Perché confermare ai giornali che era una base Cia? Perché sono trapelate le notizie sull’aiuto dei giordani? Due giorni fa il direttore della Cia, Leon Panetta, ha accolto le sette bare alla base aerea di Dover.

Il CORRIERE della SERA titola in prima pagina  " Obama ammette, errori gravi ", come se non fosse sua la responsabilità di quanto sta succedendo. E non può nemmeno dire che non glielo avevano detto. Se non licenzia in tronco Janet Napolitano, le sciagure continueranno, anche se la poverina non ha fatto altro che mettere in pratica gli ordini del suo presidente. Sempre dal CORRIERE della SERA, riprendiamo il servizio di Lorenzo Cremonesi, dal titolo " Lo Yemen ostaggio dei terroristi, la gente nei villaggi tifa Osama ". La buona notizia è che Cremonesi non scrive su Israele, ma dallo Yemen. Dalla descrizione che ne fa, vien voglia di chiedergli, a lui, sempre così critico verso la poltica israeliana, che fare di un paese dove la forza dominante è la corruzione ? Non si chiede Cremonesi, come mai a Gaza è successa la stessa cosa ? Il colpo di stato di Hamas ha creato un clima non dissimile dallo Yemen, solo che a Gaza Al Qaeda si chiama Hamas. E tocca a Israele difendersi.

Corriere della Sera
-Lorenzo Cremonesi: " Lo Yemen ostaggio dei terroristi, la gente nei villaggi tifa Osama "


Lorenzo Cremonesi

SANA'A — Durante le vacanze del Natale-Capodanno 1993 la famiglia di Khaled Shamia guadagnò quasi 15.000 dollari vendendo manufatti dell'artigianato locale ai turisti stranieri. Nell'ultimo mese non sono arrivati neppure a racimolarne 100. «Forse basta questo dato per comprendere la nostra rabbia. Da quasi un ventennio il Paese non fa che regredire. Il governo è più corrotto che mai, preoccupato solo di restare in sella. E la popolazione diventa sempre più povera, si sente vittima di una situazione apparentemente fuori controllo. Non mi stupisce che possano crescere persino le simpatie per Al Qaeda», sostiene il 27enne proprietario della «Caravan», una delle catene di botteghe artigianali più famose nel cuore della città vecchia di Sana'a. Sorride ogni volta che sente parlare in italiano. A più riprese Khaled si è recato alla Fiera dell’artigianato di Milano. «Se avessi i soldi, chiuderei baracca e burattini e cercherei di emigrare in Italia. Invece sono costretto ad assistere alla nostra rovina, con la corrente elettrica a singhiozzo e i blocchi alla rete idrica persino qui, nel centro della capitale, e la paura del terrorismo. Tremo ogni volta che vedo passare un raro gruppo di stranieri. Negli ultimi anni sono stati colpiti anche nei nostri vicoli». Attorno è la città delle 18.000 torri in tutta la sua magnificenza. Il tramonto tinge gli edifici, antichi anche oltre 500 anni, di rosa struggente. Le botteghe sono strapiene di merce. Cesti di datteri e pistacchi sono circondati di tessuti, tappeti, cinturoni di cuoio finemente lavorato, legni pregiati, i classici coltellacci a mezzaluna, collane di ogni fattura, orecchini in metalli pregiati. Ma di turisti quasi neppure l'ombra. Se non uno sparuto gruppetto di italiani che si eclissa prima del buio. È lo specchio di una crisi profonda, radicale. «Il Paese è in ginocchio. La crescita di Al Qaeda nelle zone montuose del nord e del sud mi sembra sia solo l'ultimo dei problemi. Forse la punta dell'iceberg, che per una volta accende i riflettori della stampa occidentale. Ma la verità è che stiamo assistendo al fallimento del governo centrale. Una situazione simile a tanti Stati africani, addirittura paragonabile a Pakistan e forse Afghanistan», sostiene Nadia Abdulaziz Al-Sakkaf, 33enne figlia di una nota famiglia di intellettuali della capitale che dal 2005 dirige il quotidiano in lingua inglese Yemen Times. «Basta uscire da Sana'a per scoprire che Al Qaeda è più popolare che mai. I nostri reporter hanno addirittura assistito a imponenti manifestazioni di piazza contro il governo e in favore dei seguaci di Osama Bin Laden». Una delle più importanti, con migliaia di partecipanti, è avvenuta lo scorso 20 dicembre nella regione centro-meridionale di Al-Mahfad, e precisamente nel villaggio di Al-Ma' ajana, dove l'esercito yemenita (sembra con l'assistenza logistica Usa) aveva distrutto un campo di addestramento della guerriglia qaedista. «I portavoce militari hanno sbandierato l'uccisione di una cinquantina di terroristi. Ma le nostre fonti ci parlano di 82 morti e 213 feriti civili. Questo spiega il risentimento popolare —, aggiunge polemica, augurandosi che «il presidente Obama stia ben attento a evitare di compiere azioni di guerra destinate al fallimento, come in Afghanistan». Nadia non risparmia critiche al presidente, il 67enne Alì Abdullah Saleh. «E in carica da 32 anni. Ormai si impegna più a rafforzare la sua dinastia, per esempio lavorando per la successione del figlio Ahmed e distribuendo alti incarichi a nipoti e protetti, che non di governare». Un parere largamente condiviso tra i circoli diplomatici occidentali nella capitale. «È vero che le elezioni del 2006 sono state relativamente corrette. Senza dubbio le più democratiche in questa regione di dittature. Ma il presidente è ormai uno dei fattori determinanti l'alto tasso di corruzione e l'incapacità di porvi rimedio», osservano.

Molto difficile verificare le dichiarazioni dei portavoce. Ieri la notizia che dominava Sana'a era la riapertura dell'ambasciata americana, chiusa dopo l'allarme attentati diffuso domenica. In realtà le strade attorno all' edificio sono bloccate al traffico e un fitto cordone di militari su blindati pattuglia il quartiere. Quelle francese e inglese si dicono invece formalmente aperte. Ma di fatto chiuse al pubblico. «Per ora noi funzioniamo regolarmente. Coordineremo le nostre mosse con i partner europei», sostiene l'ambasciatore italiano, Mario Boffo. Impossibile capire invece sono sorvegliati da forti contingenti dell'esercito. «Ma dei militari locali non ci fidiamo troppo. Utilizziamo aerei privati per raggiungere le zone di estrazione. Troppo pericoloso viaggiare via terra. E abbiamo chiesto la protezione di contractor occidentali pagati dalla nostra compagnia».

Nel campus dell'università statale gli studenti sono ben contenti di parlare con uno straniero. Il clima è amichevole, disteso. Nessun controllo ai cancelli. Ma i discorsi sono di grande preoccupazione. «La parola araba che domina il nostro Paese è fasad, corruzione. Si paga per entrare in ospedale, per ottenere qualsiasi documento pubblico, addirittura mazzette alla polizia per evitare le multe e ai giudici per non essere processati», dice un gruppo di studenti all'ultimo anno della facoltà di Lingue. Nessuno di loro simpatizza per Al Qaeda. Al contrario. «I terroristi sono la nostra rovina. Siamo tutti ostaggi di Al Qaeda e il nostro governo non sembra davvero in grado di batterli. E l'Iran soffia sul fuoco», esclama uno di loro, il 23enne Morsan Al Sabri. Eppure la maggioranza si dice molto più intimorita dalla destabilizzazione nazionale, guarda con paura agli insorti delle tribù sciite degli Houthi nel nord, al permanere della minaccia della secessione tra Yemen meridionale e settentrionale. Cinque o sei di loro fanno a gara nel tracciare su di un'ingiallita mappa geografica appesa al muro i complicati confini degli antichi clan tribali dal golfo di Aden sino agli altopiani remoti che portano alla frontiera con l'Oman. «Una volta per voi stranieri erano curiosità esotiche. Ma oggi, a causa del fallimento dello Stato centrale, le tribù guadagnano d'importanza. Prima rapivano, adesso uccidono», esclama Alì Tula, studente di Lingue che a tempo perso fa la guida turistica. «Come è già avvenuto in Iraq e Afghanistan, non è difficile che la criminalità comune possa fondersi nel terrorismo fondamentalista».

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