Il problema dello scambio di territori fra Israele e l'Anp per la definizione dei confini e l' economia israeliana in buona salute, sono i due argomenti trattati nelle analisi di Angelo Pezzana su LIBERO, e R.A.Segre sul GIORNALE, oggi, 06/01/2010.
Libero-Angelo Pezzana: " Chi vuole un paese con due nazionalità lavora alla distruzione dello Stato ebraico"

Angelo Pezzana
Che a Israele venga imposto di comportarsi diversamente da quel che viene normalmente richiesto a tutti gli altri Stati, è purtroppo una regola applicata da quando lo Stato ebraico venne ricostituito nel 1948. Ha vinto sino ad oggi tutte le guerre che gli stati arabi gli hanno dichiarato con l’intenzione di distruggerlo, e la reazione degli organismi internazionali è stata una perentoria richiesta di ritornare alla situazione territoriale precedente. Dopo la guerra dei sei giorni, Israele si guardò bene dall’annettersi Gaza e Cisgiordania, si limitò alla sola amministrazione, nell’attesa di un accordo di pace che potesse garantire la sicurezza dei propri confini. Una pace che è arrivata solo con l’Egitto e la Giordania, ma che manca ancora, soprattutto, con i palestinesi, divisi oggi in due entità territoriali, Gaza e Cisgiordania, che in quasi cinquant’anni di rivendicazioni non sono stati capaci di proporre altro che rifiuti e terrorismo. Persino ad Abu Mazen non viene richiesto di mantenere gli impegni sottoscritti, così come Hamas non viene condannata per i lanci di missili che da Gaza raggiungono Israele. Per il consesso internazionale, se la pace non c’è ancora, la colpa è di Israele, e, in primo luogo, degli “insediamenti”, una parola ambigua e malata, che nell’immaginario occidentale rievoca le carovane del West, con i cow-boys che derubano gli indiani delle loro terre. A poco serve ricordare che, se fosse dipeso da Israele, la sua dimensione sarebbe ancora quella stabilita il 27 novembre 1947 dall’Onu, e che se la storia è andata diversamente, la responsabilità è arabo-palestinese, che non accettò la divisione. Con dei vicini così, avere dei confini sicuri e difendibili, è il minimo che Israele possa volere, l’idea stessa di “grande Israele”, che viene propinata spesso dagli “esperti” di cose mediorientali, non è altro che un’immensa menzogna per fare disinformazione. Quegli stessi “esperti” che poi si guardano bene dallo spiegare ai propri lettori quale importanza vitale ha per Israele la definizione dei confini con quello che sarà il futuro Stato palestinese. Non a caso è quello l’argomento principe dell’intesa con gli Usa, ovvero lo scambio territoriale fra Israele e Anp lungo il confine di separazione con la Cisgiordania. Il solo modo che non prevede spostamenti di popolazione. Le città abitate solo da ebrei rimarrebbero in Israele, quelle arabe verrebbero incluse nel nuovo Stato palestinese. Israele ha accettato da lungo tempo questa soluzione, chi non ne ha mai voluto sentirne parlare è la parte palestinese. Meglio la guerra, dice Hamas a Gaza, meglio i no ripetuti a raffica, come dice Abu Mazen, il quale sa bene quanto la moneta degli “insediamenti” sia spendibile sui media occidentali. Ancora ieri, sul giornale della Confindustria, Ugo Tramballi, definiva “insediamento” Nevè Daniel, una cittadina fondata negli anni’70, portandola ad esempio della volontà israeliana di “continuare” gli insediamenti, indicandoli, imitando in pieno la solfa degli odiatori, quale vero impedimento alla ripresa dei colloqui di pace. Abbiamo citato il Sole24Ore, ma la tendenza Tramballi è comune a molti “esperti”, per i quali il raggiungimento della pace implica il sacrificio di Israele. Deve accettare di diventare binazionale, il che significa la fine dello Stato indipendente e democratico che oggi conosciamo, deve dire sì a tutte le richieste, tra le quali il ritorno dei profughi del ’48, che ne distruggerebbero il carattero ebraico, non deve reagire agli attacchi di Hamas o Hezbollah, altrimenti si muove subito l’ Onu con il suo Rapporto Goldstone. Persino con l’ Iran, che ne minaccia la distruzione con l’arma nucleare, sembra che il problema vero a preoccupare certi “esperti” stia nel sapere se Israele l’arma nucleare ce l’ha oppure no. Pare che Obama stia aprendo gli occhi, vedremo se il suo “change” funzionerà meglio di quello di Bush.
Il Giornale-R.A.Segre: " Il pilastro dello Stato ebraico è l'economia in salute "

R.A.Segre
Quanto durerà la bonaccia che, contro ogni previsione, Israele sta godendosi? Forse più di quanto i soliti profeti catastrofici immaginano, a causa di una congiunzione di fatti, in parte dovuti a Israele stesso, in parte fuori dal suo controllo. Incominciamo dalla situazione interna. L'economia tira con crescenti investimenti di ricerca (5% del Pil), l'immobiliare e l'immigrazione sono in crescita; lo shekel fa aggio sul dollaro; la crescita prevista per il 2010 è del 2,5% con l'alta tecnologia a trainare l'economia. Due avvenimenti sono decisivi: l'entrata sul mercato nel 2011 del gas sottomarino scoperto davanti alla costa di Haifa e l’avvio del terzo centro di desalinizzazione, grazie al quale l'acqua dolce tratta dal mare supererà quella del lago di Tiberiade e dell'acquedotto nazionale. Le ricadute sono anche politiche, perché Israele si rende indipendente dalla Turchia per l'importazione di acqua e dall'Egitto per il gas.
Netanyahu controlla una irriverente ma sicura coalizione di 74 deputati (sui 120 della Knesset) che erode l'opposizione di centrosinistra della signora Livni. La tensione coi coloni non lo preoccupa, dal momento che il fronte dei religiosi è diviso e disposto a compromessi. Sul piano estero la principale preoccupazione di Israele un anno fa non erano gli arabi e l'Iran, ma Obama, a tutt'oggi sospetto per il suo terzomondismo e per alcuni pericolosi stretti consiglieri (Ram Emanuel e Axelrod). Le sconfitte subite dal presidente americano sui fronti diplomatico e militare hanno ridimensionato il pericolo - vero o no - del nuovo corso della Casa Bianca, e rivalutato il peso di Israele come il solo alleato su cui può contare l'America nel Medio Oriente. La rivolta in Iran ha allontanato un intervento militare solitario di Israele contro Teheran e aumentato a Gerusalemme l'influenza dei sostenitori della strategia difensiva elettronica su quella dell'attacco preventivo. Nella contabilità politica regionale restano però in rosso i rapporti incoerenti con l'alleata storica: la Turchia.
Sul piano palestinese le ricadute dell'operazione contro Gaza di un anno fa si sono rivelate negative, soprattutto sul piano giuridico, dove la minaccia di vedere i responsabili politici e militari israeliani incolpati dalla Corte Internazionale di Giustizia resta intatta. Il governo si è visto obbligato ad ammettere che la condotta di quella guerra è stata viziata da una mancanza di sensibilità tanto per l'opinione pubblica internazionale quanto per la debolezza del controllo politico sull'impiego della forza militare. La tensione fra i responsabili militari della difesa e quelli civili della sicurezza resta viva anche nel negoziato per lo scambio del caporale Shalit, in mano a Hamas da 4 anni, con mille prigionieri palestinesi in mano a Israele, impegnando l'autorità e il fisico del premier in inconcludenti, interminabili sedute del governo che hanno inciso sulla sua salute.
La guerra di Gaza è però servita a fare abbassare le richieste di Hamas da 1500 a 1000 prigionieri, a mettere fine al lancio dei suoi missili contro il sud di Israele, a dettare prudenza agli Hezbollah e a indurre gli egiziani a creare una barriera metallica sotterranea lungo la loro frontiera con Gaza per limitare il contrabbando di armi attraverso la rete di tunnel scavati dai palestinesi nella sabbia. Paradossalmente Gerusalemme trae vantaggio dal rifiuto del presidente palestinese Abu Mazen di riprendere i negoziati. In assenza di pressioni americane, lo stallo è benvenuto per Netanyahu, che probabilmente si augura, assieme al Paese, che questa calma non sia quella che precede la tempesta.
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