Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Terrorismo islamico: controlli più serrati negli aeroporti Cronache di Alessandra Farkas, Maureen Dowd, redazione del Foglio. Analisi distorta di Vittorio Zucconi
Testata:Corriere della Sera - La Repubblica - Il Foglio Autore: Alessandra Farkas - Maureen Dowd - Vittorio Zucconi - La redazione del Foglio Titolo: «Giorno di assedio all’aeroporto. Lista nera dei voli - Janet la dura ammonisce l´America: non saremo mai del tutto sicuri - Nella situation room del soldato Obama - Antiterrorismo di razza»
Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 05/01/2010, a pag. 2, l'articolo di Alessandra Farkas dal titolo " Giorno di assedio all’aeroporto. Lista nera dei voli ". Da REPUBBLICA, a pag. 11, l'articolo di Maureen Dowd dal titolo " Janet la dura ammonisce l´America: non saremo mai del tutto sicuri ", a pag. 1-9, l'articolo di Vittorio Zucconi dal titolo " Nella situation room del soldato Obama " preceduto dal nostro commento. Dal FOGLIO, in prima pagina, l'articolo dal titolo " Antiterrorismo di razza ". Ecco i pezzi :
CORRIERE della SERA - Alessandra Farkas : " Giorno di assedio all’aeroporto. Lista nera dei voli "
Alessandra Farkas
NEW YORK — «La cosa peggiore era la sete: sei-sette ore in coda; quattro delle quali in un pigia-pigia peggio della metropolitana all'ora di punta. Senza acqua, come in un deserto. Senza alcun avviso di quello che stava succedendo. Una donna inglese accanto a me è svenuta». Mentre attendeva l'imbarco su un volo per Parigi la responsabile dell’Ansa a New York, Alessandra Baldini, ha vissuto di persona l'odissea che domenica sera ha trasformato l'aeroporto di Newark in un inferno.
Il dramma è iniziato intorno alle 17.20 ora locale (le 23.20 in Italia), quando un uomo non ancora identificato è entrato nell'area «sterile» del terminale C senza essere stato prima passato al vaglio dei nuovi macchinari di screening del Liberty International di Newark, il secondo aeroporto di New York per traffico passeggeri. Una volta resesi conto del fatto le autorità hanno deciso la chiusura dello scalo, che è rimasto inattivo per ore.
L'allarme ha obbligato il personale prima a fermare i controlli di sicurezza, poi addirittura a riconvocare i passeggeri già ai cancelli di imbarco (alcuni già a bordo degli aerei) costringendoli a procedere di nuovo allo screening. Nel giro di pochi minuti è scoppiato l'inferno, con migliaia di persone in fila in attesa di passare — chi per la prima, chi per la seconda volta— i controlli di sicurezza.
È bastato insomma un solo uomo — forse un passeggero tornato indietro dopo essersi accorto di aver dimenticato qualcosa — e la distrazione di un agente della Transport Security Administration (Tsa) (subito trasferito a una posizione di non screening) per mandare in tilt lo scalo per oltre sette-otto ore, provocando ritardi che si sono protratti anche nei voli internazionali e nazionali del giorno dopo.
Chi ha viaggiato negli Stati Uniti in questi giorni ha toccato con mano lo stato di massima allerta imposto agli aeroporti americani dopo il fallito attacco kamikaze sul volo Amsterdam-Detroit del giorno di Natale.
Da allora l'America è ripiombata in un clima da psicosi post 11 settembre che— come i finti allarmi all'antrace del 2001 — ha riacutizzato la sempre latente sindrome da «Paese fortezza» dell’America, proprio in un momento in cui l'amministrazione Obama ha riallacciato i ponti col resto del modo.
Incalzato dalla destra repubblicana che l'accusa di lassismo verso i terroristi, il presidente Obama ha varato nuove regole per proteggere il Paese. Secondo le nuove direttive di Washington i cittadini in arrivo negli Stati Uniti da 14 Paesi, in prevalenza musulmani — tra cui Pakistan, Iran, Sudan, Somalia, Yemen, Siria e Nigeria — saranno sottoposti a controlli molto più severi.
Ciò significa che potranno essere perquisiti, come anche i loro bagagli, e potranno essere costretti a passare attraverso scanner o sottoposti a controlli anti esplosivi. Secondo il New York Times e il Washington Post, che citano fonti ufficiali, la «lista nera» dei 14 Paesi fonte di vecchio e nuovo terrorismo includerebbe anche Algeria, Libano, Arabia Saudita, Cuba e Iraq.
Continua intanto la caccia al misterioso uomo immortalato dalle telecamere di sorveglianza mentre lascia il terminal C dell'aeroporto dopo una ventina di minuti, attraverso un'uscita diversa da quella da cui era entrato. Oltre all'arresto, rischia una multa di milioni di dollari in danni.
La REPUBBLICA - Maureen Dowd : " Janet la dura ammonisce l´America: non saremo mai del tutto sicuri "
Maureen Dowd
WASHINGTON - Io e Janet Napolitano non avevamo in programma di passare la notte dell´ultimo dell´anno insieme. E invece eccoci qui sedute nel suo ufficio nei sobborghi della capitale, accanto a una grande sella in cuoio nero omaggio del governatore dello Stato messicano di Sonora, in Messico, quando la Napolitano era governatrice dell´Arizona. Io, horribile dictu, ero condannata lavorare nell´ultima notte del decennio, perciò avevo cercato di pensare a qualcun altro costretto come me a fare nottata invece di fare baldoria. La risposta era ovvia. La settimana da incubo della capa della Sicurezza interna è cominciata il giorno di Natale, quando le hanno telefonato a casa del fratello per informarla dell´attentato sventato. Ha continuato a peggiorare due giorni dopo, quando è stata messa alla berlina per aver dichiarato alla Cnn «il sistema ha funzionato». Dopo tanti miliardi spesi e la creazione di nuovi dipartimenti, il sistema è sembrato permeabile come prima dell´11 settembre. Ancora una volta è stata la Cia che non ha fatto il suo dovere. E ancora una volta le informazioni non erano state incrociate. Martedì, John McCain e John Kyl, i due senatori repubblicani dell´Arizona che avevano elogiato sua nomina, hanno fatto fronte comune e Kyl ha detto che non si sentiva più «totalmente al sicuro» con lei al comando. «Ho parlato con lui e mi ha detto che non era questo che voleva dire, e che è stato frainteso», dice la Napolitano. Dice che anche lei è stata fraintesa, e che in altre interviste rilasciate ha chiarito che voleva dire che il sistema ha funzionato «dopo l´incidente». Quando le chiedo delle frustrazioni di alcuni membri della commissione dell´11 settembre di fronte al fatto che quello che non ha funzionato questa volta, secondo i resoconti, ricorda in modo preoccupante quello che non aveva funzionato allora, Janet sostiene che «oggi siamo più sicuri di quanto non fossimo prima dell´11 settembre». «La sostanza di tutto questo è che non possiamo rilassarci». Più tardi riprende lo stesso tema: «Secondo me rendiamo un disservizio se diciamo alla gente che c´è il 100 per cento di garanzie. Secondo me dobbiamo dirgli che stiamo facendo tutto il possibile per ridurre il rischio. Secondo me dobbiamo dire alla gente che anche loro sono parte del sistema. Tutti hanno una responsabilità comune nel prevenire il rischio. Non si può dire semplicemente che tutta la baracca è nelle mani di questo o quel dipartimento del governo». Quelli che dicono che il suo dipartimento aveva messo il pilota automatico «sbagliano». Osservo che Dick Cheney andava fuori di testa di fronte alla valanga di minacce che arrivava ogni giorno e le chiedo come fa a tenere sotto controllo la paranoia. «Ce n´è tantissima, lì fuori», dice. «Io mi sforzo di stabilire quali devono essere i nostri bersagli». «Una delle cose che sono emerse da questa giornata terribile», dice, «forse è un nuovo senso di emergenza». E questo ha spronato il suo dipartimento ad «accelerare» le discussioni già in corso per una collaborazione con il dipartimento dell´Energia. C´è qualcosa che la tiene sveglia di notte? Il suo tono di voce si abbassa e si fa più serio. «Questo episodio- dice - perché voglio sapere come ha fatto questo individuo a salire su questo aereo con questo materiale». Prima di andarmene, chiedo alla segretaria se ha dovuto annullare i suoi piani per l´ultimo dell´anno. «Oh, sì», dice lei. «Immagino che non mi dirà quali erano», azzardo. «No», replica lei strizzandomi l´occhio. Un´altra informazione top secret al dipartimento della Sicurezza interna.
La REPUBBLICA - Vittorio Zucconi : "Nella situation room del soldato Obama"
Obama sta aprendo gli occhi. Finalmente ha riconosciuto la gravità della minaccia del fondamentalismo islamico e, per questo, sta prendendo le dovute contromisure. Per Zucconi è difficile ammette che il suo idolo sta percorrendo la stessa strada di Bush, perciò scrive : " La storia dolorosa della "educazione sentimentale" del giovane Obama, della sua recalcitrante, inevitabile conversione alla necessità, ma non alla ideologia, della guerra ". Obama non sembra recalcitrante, anzi. Zucconi se ne faccia una ragione. L'unico modo per respingere il terrorismo è combatterlo ed estirparlo alla radice. Mandare soldati in Afghanistan, combattere al Qaeda in Yemen. Ecco l'articolo:
Vittorio Zucconi
La guerra di Obama cominciò alla vigilia del gennaio 2008, quando il consigliere per l´antiterrorismo John Brennan lo raggiunse dopo una corsa a piedi nella notte in una Washington chiusa e senza taxi. In quella occasione Brennan gli svelò il piano di un gruppo di terroristi somali per far saltare in aria la tribuna della sfilata inaugurale. Con lui, la moglie e le loro due bambine dentro. Non era neppure Presidente, Barack Hussein Obama, non avendo ancora formalmente giurato fedeltà alla Costituzione sulla Bibbia di Lincoln e già l´ombra che aveva inghiottito e consumato la presidenza del suo predecessore Bush dall´11 settembre 2001 e che si sarebbe allungata giorno dopo giorno fino all´incubo sfiorato del Natale 2009 sopra Detroit lo aveva raggiunto, per reclamare il proprio posto a capotavola. E per garantire che anche lui avrebbe dovuto combattere una guerra che non avrebbe voluto combattere. La storia dolorosa della "educazione sentimentale" del giovane Obama, della sua recalcitrante, inevitabile conversione alla necessità, ma non alla ideologia, della guerra è stata ricostruita, giorno per giorno, dal magazine del New York Times. Racconta una storia insieme banale e straordinaria, deja vu molte volte nella storia americana: la metamorfosi di uomini che entrano alla Casa Bianca persuasi di cambiare il mondo e poi scoprono che è il mondo a cambiare loro. Uomini di buona volontà sorpresi, come lui, dalla notizia che 278 passeggeri erano arrivati a un passo dalla loro morte sopra Detroit, portata da un attendente mentre cantava con la famiglie le nenie natalizie alla Hawaii. Ma se il dramma politico di Barack Hussein Obama è lo stesso di coloro che lo avevano preceduto in quell´ufficio ovale, dell´umile Truman al quale furono consegnate le chiavi dell´apocalisse nucleare, di Johnson che bruciò i propri sogni di riforme sociali nel falò del Vietnam fino allo stesso «soldato Bush» che nel proprio secondo giro al potere fu molto diverso dal primo, il dramma dell´uomo Obama ha una valenza ancora più lancinante. Nella stanza, spesso un ufficio senza finestre e blindato nei sotterranei nella Casa Bianca, dove la sua amara «educazione» è avvenuta, gli uomini che gli hanno dovuto raccontare il mondo come è, e non come lo avrebbe voluto, ricordano la sua fatica di analizzare le cose dall´avvocato costituzionalista che è, mai impulsivo. E le sue collere fredde: «Mettiamoci d´accordo. Anche se non penso che sia sempre colpa della nostra intelligence, se scopro che la nostra intelligence non ha fatto il suo dovere, la colpa sarà vostra». Il suo è il percorso doloroso dell´accettazione dello stato del mondo, della virulenza di una minaccia tanto minuscola nelle dimensioni globali quanto micidiale, dove le reazioni possono essere peggiori delle azioni. «Non dobbiamo alimentare le fiamme che ci vogliono consumare» raccomanda a Brennan, quello che gli porta le cattive notizie. Il suo nemico è l´eccesso di razionalità, che può passare per indifferenza o debolezza. «Anche noi democratici sappiamo batterci» ammonisce la sua squadra anti-terrore. Ma poi il giurista, l´avvocato, rialza la voce: «Se scatto non faccio forse quello che gli attentatori vogliono, far vedere che hanno fatto saltare i nervi all´America?». Si indignano gli uomini del Presidente, dall´amico e ministro della Giustizia Eric Holder al consigliere Brennan, dalla segretaria di stato Clinton al suo Machiavelli politico, Rahm Emanuel, alla caratterizzazione di Obama come un "Bush nero". Le sue intenzioni erano, e sono, certamente diverse, e buona parte della retorica più incendiaria cara alla sottocultura neo-con che aveva inquinato la presidenza di "Dubya", slogan come "islamofascisti" o "guerra al terrore", che Obama considera astrattamente assurda, sono tramontati. «Signor presidente, l´America sta perdendo la guerra delle immagini e del messaggio», lo aveva avvertito Michael Leiter, direttore dell´Antiterrosismo con Bush al passaggio dei poteri «lei deve cambiare il messaggio e la percezione di questa guerra». «Lo faremo», lo rassicurò Obama. Ma le azioni militari, i bombardamenti, le incursioni, le azioni parlano più forte delle intenzioni. La scoperta del complotto dell´ Inauguration fu, dice il suo massimo consigliere politico, David Axelrod, uno «shock», una «sobering experience», come il risveglio ghiacciato duro dopo un sogno tiepido. Obama discusse per ore che cosa sarebbe stato meglio fare: andare in quella tribuna, rischiare la vita il giorno stesso dell´insediamento, fare il gesto eroico ma dando al mondo le immagini di un presidente ferito, di un pubblico nel panico, del caos nel giorno più solenne della liturgia democratica o annullare tutto? La cerimonia ebbe luogo, la minaccia risultò falsa. Ma rimase fedele alla sua decisione di cambiare il tono che l´amministrazione americana avrebbe adottato in pubblico, di abbandonare quella virulenza verbale e messianica da «guerra di civiltà» che aveva per lui il torto di nobilitare le trame dei fanatici e di coinvolgere l´intero universo mussulmano. Se si chiede a Obama quale sia stato il momento più esemplificativo di questa nuova linea, lui indica il discorso del Cairo, la mano tesa all´Islam, nel rispetto reciproco. «Le parole contano» avrebbe poi detto alla rete televisiva Al Arabya. Ma le parole non hanno vinto, non ancora. Tre giorni dopo il dramma del volo Delta, Obama ha usato la parole «guerra», siamo in «guerra» e hanno fatto esultare i suoi nemici che hanno letto in quella parola la vendetta del loro bistrattato Bush. Lo stesso "Dubya" nell´unico colloquio fra i due al momento del passaggio del potere, lo aveva avvertito e messo in guardia dalle illusioni, ricordandogli la verità che già Kennedy aveva enunciato, che il mondo è un luogo molto diverso quando è guardato attraverso i vetri (blindati) dello Studio Ovale. La "bushizzazione" di Obama è dunque avvenuta, manifestata nell´inasprimento progressivo del linguaggio? La "educazione sentimentale" del giovane Barack è completa? Non proprio. Obama è un presidente che deve fare la guerra a chi lo attacca, ma non è, e non vuole considerarsi, un "presidente di guerra". «Non ha l´ethos e il mito del guerriero che ossessionavano Bush» dice sempre Brennan, «ha la cultura del costituzionalista con il terrore di stravolgere la Costituzione». Ma la guerra picchia ai vetri dello Studio Ovale, con la eterna tentazione della vendetta.
Il FOGLIO - " Antiterrorismo di razza "
Barack Obama
New York. Barack Obama ha violato uno dei principi centrali del politicamente corretto, introducendo negli aeroporti di tutto il mondo, come misura antiterrorismo, il “racial profiling”, una delle misure di prevenzione del crimine più contestate del secolo scorso perché fondata su pregiudizi razziali e alla base di discriminazioni pesanti nei confronti degli afroamericani. Eppure, in risposta al fallito attentato islamista della notte di Natale, il presidente americano non ha avuto dubbi a prendere una decisione che nemmeno George W. Bush è stato capace di adottare. Da oggi tutti i cittadini di tredici stati arabi e musulmani, più Cuba – ma anche chiunque provenga o abbia fatto scalo in uno di questi paesi legati al terrorismo internazionale – saranno sottoposti a una perquisizione personale completa e a controlli extra sui bagagli a mano, se vorranno atterrare negli Stati Uniti. Tutti gli altri no. La Casa Bianca non ha motivato la scelta, ma le ragioni sono autoevidenti: non tutti gli arabi e i musulmani sono terroristi, ma tutti i kamikaze sono arabi o musulmani oppure hanno rapporti e frequentazioni con uno dei quattordici paesi della lista stilata dal dipartimento di stato: Arabia Saudita, Iran, Siria, Afghanistan, Somalia, Yemen, Iraq, Pakistan, Nigeria, Algeria, Libano, Libia, Cuba, Sudan. Le organizzazioni dei diritti civili e le associazioni antidiscriminazione razziale giudicano la scelta dell’Amministrazione “estrema e molto pericolosa”, mentre il gruppo di estrema destra John Birch Society, noto per il suo passato razzista, ne è entusiasta. Le compagnie aeree di tutto il mondo, per non perdere le tratte per l’America, si sono adeguate alle nuove disposizioni della Transportation Security Administration di Washington. Il paradosso è che a rispolverare il pregiudizio razziale sia stato il presidente nero, certamente il più sensibile a una discriminazione basata sulla razza che ancora oggi costituisce una ferita aperta nella storia americana. Nel giugno del 2003, con un ordine a tutte le agenzie investigative del paese, Bush aveva proibito il profiling razziale, religioso ed etnico, anche se aveva lasciato aperto qualche spazio in casi eccezionali legati alla sicurezza nazionale. La tentata strage sul volo Amsterdam- Detroit ha fatto cambiare idea a Obama, per proteggere meglio l’America e dimostrare di non essere debole contro il terrorismo. Il racial profiling è diventato un tabù inviolabile nel secolo scorso, dopo una serie di casi in cui la polizia ne ha abusato. Per anni le forze dell’ordine hanno individuato nel colore della pelle un fattore primario nella decisione di fermare o interrogare qualcuno sospettato di aver commesso un reato. Un nero o un ispanico, ancora oggi, hanno molte più probabilità di essere fermati rispetto a un bianco, perché agli occhi degli agenti pesano certe caratteristiche o comportamenti legati alla loro etnia. L’estate scorsa ha fatto scalpore l’arresto davanti alla sua abitazione di Cambridge, vicino Boston, dello stimato professore nero di Harvard Harry Louis Gates, scambiato per un ladro perché aveva perso le chiavi di casa e stava tentando di aprire altrimenti la porta. Obama, in un primo momento, ha accusato la polizia di “stupidità”, proprio perché l’arresto sembrava legato al colore della pelle del prof, poi ha chiesto scusa e invitato Gates e il poliziotto a bere una birra alla Casa Bianca.
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