Riportiamo dalla STAMPA, a pag. 1-25, l'editoriale di Maurizio Molinari dal titolo " Venti di guerra nel Golfo ", a pag. 3 l'articolo di Marco Bardazzi dal titolo " L'asse con i somali è la nuova minaccia ", a pag. 2 l'intervista di Francesco Semprini a Daniel Pipes dal titolo " Attacchi mirati, ma non si aprirà un terzo fronte ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 1-14, l'articolo di Franco Venturini dal titolo "L'Occidente senza bussola " preceduto dal nostro commento, a pag. 4, gli articoli di Paola De Carolis e Guido Olimpio titolati "L’University College sotto accusa. Lì Al Qaeda recluta i terroristi " e "Così il telepredicatore jihadista ispirò l’attentatore via Internet". Ecco gli articoli:
La STAMPA - Maurizio Molinari : " Venti di guerra nel Golfo "
Maurizio Molinari
Venti di guerra nel Golfo di Aden: il traballante Stato dello Yemen, appollaiato fra Africa e Asia, è teatro di due conflitti sovrapposti che sommano i principali attori della lunga guerra al terrorismo che ha segnato la prima decade del secolo.
Il primo conflitto è quello che oppone il governo di Sana’a ad «Al Qaeda nella Penisola Arabica», le cellule jihadiste che hanno le roccaforti nelle province di Shabwa, Marif e Jouf da dove hanno pianificato e rivendicato la fallita strage di Natale sui cieli di Detroit con un’aperta dichiarazione di guerra all’America di Barack Obama.
L’evacuazione decisa dai governi di Washington e Londra delle rispettive ambasciate nello Yemen «nel timore di attentati» coincide con una escalation di mosse da parte dei due alleati atlantici: in primis, la scelta di addestrare, armare e finanziare una «forza di controterrorismo» yemenita da schierare in tempi stretti.
Poi l’annuncio di una conferenza internazionale il 28 gennaio a Londra fra tutte le nazioni «preoccupate per l’affermarsi dell’estremismo in Yemen», la tappa a Sana’a del generale David Petraeus comandante delle truppe Usa in Medio Oriente e lo spostamento verso il Golfo di Aden di un numero imprecisato di unità della Quinta Flotta di base nel Bahrein. Obama e il premier britannico Gordon Brown stanno chiedendo al presidente Ali Abdallah Saleh di lanciare un’ampia offensiva, aerea e terrestre, nelle tre province remote e montagnose, garantendogli una forte copertura politica internazionale e anche il massiccio sostegno di intelligence, droni e forze speciali per ripetere su vasta scala quanto avvenuto il 17 e 24 dicembre scorsi, allorché una trentina di militanti jihadisti sono stati eliminati grazie a due blitz yemeniti guidati a distanza dalla «war room» di Petraeus a Tampa. Se Saleh accetterà la richiesta angloamericana porterà alle estreme conseguenze la scelta filo-occidentale compiuta dopo l’11 settembre 2001, se invece ammetterà di non avere la forza necessaria per esercitare la sovranità nelle aree del territorio nazionale infestate da Al Qaeda potrebbero essere le forze speciali alleate a entrare direttamente in azione. Lo schema in questo caso potrebbe essere quello visto all’opera a metà settembre in Somalia, quando sei elicotteri e una trentina di soldati scelti americani piombarono dal nulla e in pieno giorno su un convoglio di jihadisti nel distretto di Barawe, a 250 km da Mogadiscio, eliminando Saleh Ali Saleh Nabhan, il colonnello dei miliziani sunniti shebaab che firmò gli attacchi terroristici agli hotel di Mombasa nel 2002. Petraeus considera Somalia e Yemen un unico teatro tattico perché il nemico è lo stesso: le cellule di Al Qaeda fuggite dall’Afghanistan, insediatesi in aree che sfuggono al controllo dei governi, finanziate con i proventi della pirateria e dei rapimenti, e posizionate in una zona strategica che fa del Golfo di Aden l’anello di congiunzione fra le operazioni dei jihadisti egiziani, sauditi e del Sahel.
Ma non è tutto. A rendere ancor più esplosiva la miscela yemenita - e a complicare tanto i piani militari di Petraeus che la scelta politica di Saleh - c’è il fatto che è simultaneamente in atto un secondo conflitto. Si svolge nelle province settentrionali e ha per protagonisti i ribelli Houti, ovvero le tribù sciite separatiste finanziate da Teheran e addestrate dai pasdaran nell’intento di trasformarle in una ripetizione locale degli Hezbollah libanesi. Lo scorso 20 ottobre Alì Khamenei, Leader Supremo della Repubblica Islamica, lodò in una lettera autografa i comandanti pasdaran per l’operazione «Yemen Khosh Hal» (Gioia dello Yemen) ovvero «l’addestramento degli sciiti, la fornitura delle armi che gli servono, l’impegno diretto in combattimento e il sostegno dell’intelligence». Alcune navi della Quarta Flotta iraniana, fra cui la «Salaban» e la «Khareq», sono entrate nel Golfo di Aden per sostenere i ribelli Houthi e il timore dell’esportazione della rivoluzione iraniana nella Penisola Arabica ha spinto l’aviazione saudita a entrare in azione, bombardando a più riprese le milizie sciite dentro il territorio yemenita con l’avallo di Sana’a. Per Yahya Salih, capo dell’antiterrorismo dello Yemen, Teheran sta conducendo attraverso gli Houthi una «guerra per procura» che punta a indebolire sauditi e yemeniti, due dei più solidi alleati di Washington.
Da qui la realtà di una Repubblica dello Yemen con i propri scarsi e male armati contingenti stretti fra due fuochi, i jihadisti sunniti di Al Qaeda e i fondamentalisti sciiti filo-Teheran, che hanno il comune interesse di rovesciare il presidente Saleh per perseguire gli opposti disegni egemonici regionali. E’ questo scenario che spiega la necessità da parte di Obama e Brown di prendere in esame il possibile ricorso a ogni opzione prevista dall’arsenale dell’antiterrorismo. Incluso l’uso della forza.
CORRIERE della SERA - Franco Venturini : " L'Occidente senza bussola "
Yemen
Venturini scrive : " Ma la «guerra al terrorismo» condotta con le bombe è fallita da tempo, i metodi di Bush hanno semmai ingigantito nel mondo la piovra terroristica ". La guerra al terrorismo non è fallita. Infatti anche Obama, pur chiamandola con termini diversi, la sta conducendo.
Non è Bush il responsabile dell'aumento degli attacchi terroristici, ma la propaganda di al Qaeda, il mancato controllo dei centri di preghiera che, spesso, diventano centri di reclutamento.
Ecco l'articolo:
Mai come in questo inizio d’anno l’Occidente era parso tanto privo di bussola, tanto disorientato e indeciso davanti alle sfide internazionali. La prima delle quali è, in questi giorni, il terrorismo islamista. Alla strage mancata per caso sul volo Amsterdam-Detroit si sono aggiunti ulteriori segnali dell’offensiva di Al Qaeda La decisione di chiudere le ambasciate americana e britannica nello Yemen rafforza l’ipotesi che Washington voglia punire militarmente i mandanti del kamikaze Umar Mutallab. In realtà si tratta di una decisione estremamente difficile da prendere, che proprio in queste ore è oggetto di intense consultazioni anche transatlantiche.
La necessità di rispondere alle critiche dei repubblicani e di non apparire debole spinge Obama a premere il grilletto. Ma la «guerra al terrorismo» condotta con le bombe è fallita da tempo, i metodi di Bush hanno semmai ingigantito nel mondo la piovra terroristica, e ha ragione Michael Walzer quando dice al Corriere che la moderna guerra asimmetrica nata con l’attacco alle Torri va condotta soprattutto con l’intelligence e l’economia. Cosa sceglierà Obama? Forse un castigo limitato a obbiettivi molto circoscritti, ma la Casa Bianca e i servizi Usa (umiliati dal fallito attentato sul volo Delta) sono i primi a sapere che questo sarà per al Qaeda un danno molto limitato e forse addirittura un vantaggio se si pensa alla conseguente maggior facilità di reclutamento in una galassia nominalmente qaedista che va ormai dall’Afghanistan e dal Pakistan all’Indonesia, al Maghreb, alla Somalia, allo Yemen e ben oltre.
E il terrorismo non è tutto. Guardiamo all’Iran, dove ieri, all’indomani della sanguinosa repressione degli oppositori al regime, siamo arrivati al paradosso: la scadenza fissata dall’Occidente per avere una risposta costruttiva di Teheran alle proposte dell’Agenzia atomica è scaduta il primo gennaio, e il ministro degli Esteri Mottaki cosa fa? Pone lui un ultimatum di un mese perché le potenze occidentali accettino l’arricchimento dell’uranio alle condizioni degli iraniani. La provocazione è chiara, ma come risponderle? Sanzioni e mano tesa insieme, oppure soltanto le prime, o soltanto la seconda, sapendo che nel frattempo guadagna terreno una opzione militare che legata al ritorno del terrorismo fa tremare le vene dei polsi?
Poi c’è l’Afghanistan. Il piano è di inviare più forze per potersi poi disimpegnare e passare il testimone ai locali, cioè a Karzai. Ma ieri il parlamento di Kabul ha bocciato 24 su 27 membri del nuovo governo formato da Karzai. È nel mezzo di questi umori che l’Isaf, composta anche da soldati italiani, dovrebbe un giorno ripiegare senza che la guerra civile riesploda entro poche ore? La tentazione di imputare a Obama una mancanza di guida è forte, ma si tratterebbe di un errore. Obama il disastro lo ha ereditato da meno di dodici mesi. Ma il calendario e la cronaca corrono: d’ora in poi, questo sì, Obama dovrà dimostrare di meritare la sua poltrona e il suo Nobel.
La STAMPA - Marco Bardazzi : " L'asse con i somali è la nuova minaccia "
Yemen e Somalia
L’unione un anno fa tra le cellule terroristiche di Yemen e Arabia Saudita ha dato vita ad «Al Qaeda nella Penisola Arabica», il gruppo che ora turba i sonni ai capi dei servizi segreti occidentali. Ma l’epoca delle «fusioni» non sembra finita nell’universo dei jihadisti e rischia di partorire una nuova entità, ancora più difficile da contrastare, che unisca i terroristi di base nello Yemen con quelli della vicina Somalia, per dar vita a una sorta di «Al Qaeda nel Golfo di Aden».
I segnali sono già stati rilevati dagli esperti che analizzano il sottobosco dell’integralismo islamico tra Medio Oriente e Corno d’Africa. Oltre 200 mila rifugiati somali - ma la stima è prudente - si sono riversati in questi anni nello Yemen, per sfuggire al caos di quello che l’«Economist» ha di recente indicato come «il luogo peggiore del mondo». Al Qaeda ha pescato a piene mani in questa folla di diseredati, per reclutare forze fresche per la propria filiale yemenita. Ma l’organizzazione terrorista è assai attiva anche alla fonte, in Somalia, dove risulta in stretto contatto con i guerriglieri islamisti di Al Shabaab, che controllano vaste aree del Paese.
«Il problema della Somalia si sta congiungendo con quello dello Yemen», afferma sul «New York Times» Magnus Ranstorp, un esperto di terrorismo svedese che collabora con il governo americano. Per l’amministrazione Obama, questo significa che limitarsi a colpire qualche santuario jihadista nello Yemen non basterà a impedire che si moltiplichino i casi di attentati come quello fallito a Natale, organizzato in un campo di addestramento yemenita. Washington e i suoi alleati ragionano invece in termini di sfida da affrontare nell’intero scenario regionale che va dall’Africa orientale all’Afghanistan: non a caso è l’area d’azione del Comando centrale del Pentagono (Centcom), il cui comandante David Petraeus ha appena visitato lo Yemen per definire le forme della collaborazione militare americana con Sana’a.
Stati Uniti e Gran Bretagna proprio ieri hanno annunciato una serie di misure comuni per la lotta al terrorismo nel Golfo di Aden e una delle iniziative principali decise sarà un’azione di pressing di Barack Obama sul Consiglio di sicurezza dell’Onu, per ottenere un rafforzamento del contingente di peacekeeping internazionale in Somalia.
Le preoccupazioni degli addetti ai lavori per la possibile saldatura di un asse del terrore Yemen-Somalia sono alimentate anche dai precedenti storici. La prima Al Qaeda, quella di Osama bin Laden, è nata reclutando reduci di una guerra, i mujaheddin sauditi che avevano combattuto in Afghanistan contro i sovietici. Allo stesso modo, l’organizzazione ora attiva nello Yemen secondo Ranstorp avrebbe assorbito buona parte dei circa 2.000 fondamentalisti yemeniti reduci da anni di combattimenti in Iraq, oltre ai guerriglieri in arrivo dalla Somalia. Bin Laden, inoltre, divenne davvero pericoloso dopo che il suo gruppo si fuse con la Jihad Islamica dell’egiziano Ayman al-Zawahiri, che si trasferì armi e bagagli dall’Egitto all’Afghanistan. Ora una fusione analoga è avvenuta tra terroristi sauditi e yemeniti e potrebbe allargarsi ai somali, per creare una miscela esplosiva che farebbe avverare la profezia di questi giorni di Joe Lieberman, presidente della commissione sicurezza del Senato americano: «L’Iraq era la guerra di ieri, l’Afghanistan è quella di oggi, e se non ci muoviamo per prevenirla, quella in Yemen sarà la guerra di domani».
Anche nelle roccaforti jihadiste in Afghanistan e Pakistan, a quanto pare, l’area Yemen-Somalia viene vista come quella del futuro. Il fallito attentato di Natale e, in precedenza, il tentativo di uccidere il capo dell’antiterrorismo saudita, principe Muhammad bin Nayef - entrambi eseguiti con la tecnica delle «mutande esplosive» - per gli esperti d’intelligence avrebbero fatto salire le quotazioni della cellula yemenita agli occhi dei capi storici di Al Qaeda. Zawahiri aveva atteso fino alla primavera scorsa prima di approvare la nascita di «Al Qaeda nella Penisola Arabica»: un segnale che gli analisti militari di West Point, dove sorge il centro di ricerche sul terrorismo più importante del Pentagono, avevano letto come una mancanza di fiducia nelle capacità di Nasser al Wuhayshi, il capo dell’organizzazione. Ma i due attentati, sia pur falliti, avrebbero convinto i «vecchi» di Al Qaeda a prendere sul serio le nuove leve, che hanno tra l’altro creato una struttura di comando nella quale figurano almeno tre ex detenuti di Guantanamo.
CORRIERE della SERA - Guido Olimpio : " Così il telepredicatore jihadista ispirò l’attentatore via Internet "
Umar Farouk Abdulmutallab con Al Awlaki
WASHINGTON – Un telepredicatore che usa Internet come una spada. Un imam che ha trasformato il collegamento via webcam in un podio dal quale incitare alla lotta e al terrorismo. È in questo modo che Anwar Al Awlaki, l’esponente radicale di origine yemenita ma nato in New Mexico, ha guidato Umar Farouk Abdulmutallab. Fonti britanniche hanno precisato meglio sospetti e accuse nei confronti del predicatore. Al Awlaki, messo al bando dalla Gran Bretagna nel 2006, ha continuato a ispirare e reclutare grazie alle teleconferenze. Lui se ne stava nello Yemen, dove si è rifugiato con la famiglia, e i suoi discepoli ascoltavano in terra inglese. In almeno 7 occasioni e in 5 luoghi diversi, Anwar ha tenuto lezioni incendiarie basate sul suo libro « 44 modi per sostenere la Jihad». I servizi segreti inglesi e yemeniti ritengono che Farouk sia entrato in contatto con l’imam tra il settembre 2005 e la fine del 2008, periodo nel quale lo studente nigeriano era a Londra per seguire un corso universitario. Un contatto avvenuto proprio grazie a una delle teleconferenze e poi mantenuto via email. Dopo averlo agganciato, Al Awlaki lo ha «coltivato», plasmato, trasformandolo in un mujahed. Un ragazzo inesperto, pieno di problemi, ma abbastanza determinato da salire su un jet e farsi esplodere. Un ruolo da cattivo maestro che l’imam potrebbe aver svolto per altri: il timore è che Farouk non sia stato l’unico studente ad entrare nell’alveo qaedista. E al tempo stesso, come confermano fonti statunitensi, l’imam ha guadagnato posizioni all’interno del movimento islamista nello Yemen avendo portato in dote dei giovani con il passaporto «pulito», in grado di superare i controlli. La contiguità di Farouk con ambienti radicali in Gran Bretagna, però, non era passata inosservata alla sicurezza. L’MI 5 si era interessato al nigeriano, attivo nell’organizzare incontri all’università dedicati all’integralismo e nella raccolta di fondi. Gli 007 lo hanno tenuto d’occhio per un po’, poi hanno ritenuto che non rappresentasse una minaccia. Anche se nel 2008 gli hanno negato un nuovo visto d’ingresso. Informazioni che avrebbero potuto aiutare i colleghi americani a capire chi fosse veramente Farouk. Ma gli agenti inglesi non hanno passato i dati agli Usa. Un errore che sarebbe potuto costare molto caro.
CORRIERE della SERA - Paola De Carolis : " L’University College sotto accusa. Lì Al Qaeda recluta i terroristi "
University college
LONDRA — Il rettore nega e apre un’inchiesta, ma per l’MI5 l’University College of London, che per risultati accademici è il quarto ateneo al mondo, potrebbe essere un centro di reclutamento di Al Qaeda. È lì che Umar Farouk Abdulmutallab, 23 anni, si è laureato in ingegneria meccanica nel 2008 ed è lì che, da ragazzo «studioso, normale e simpatico», potrebbe essersi trasformato in pericoloso fondamentalista. Per Michael Grant, rettore di Ucl, si tratta di «illazioni spettacolari senza fondamenta». «Non ci sono prove» ha scritto sul sito web del Times Higher Education Supplement, «che Abdulmutallab abbia imboccato la strada del terrorismo a Ucl». L’inchiesta che ha organizzato è per togliere ogni dubbio e accertare che Abdulmutallab non sia rimasto vittima durante gli anni della laurea di «una più larga corrente maligna e che lui stesso non abbia avuto un’influenza negativa su altri studenti». I servizi segreti dell’MI5, a sentire il Sunday Telegraph, sono invece proprio interessati a possibili rapporti tra Abdulutallab e altri studenti del University College, così come con società islamiche di altri atenei. Tra il 2006 e il 2007, l’attentatore di Detroit è stato presidente della Islamic Society dell’università, attraverso la quale ha avuto contatti con personaggi noti ai servizi. Come Abu Mujahib, secondo il quale «Allah odia tutti gli omosessuali». Murtaza Khan («sporchi cristiani ed ebrei»), Abu Usamah, ripreso per un documentario a lodare Osama bin Laden in una moschea di Birmingham. Come ha fatto notare il domenicale, i legami tra società islamiche ed estremismo ci sono, se è vero che quattro presidenti negli ultimi tre anni sono stati accusati di attività terroristiche. Kafeel Ahmed, che nel 2007 guidò una jeep piena di esplosivi contro l’aeroporto di Glasgow, era stato presidente della società islamica della Queen’s University di Belfast. Secondo Anthony Glees, professore della Buckingham University, l’arrivo negli atenei britannici di fondi provenienti da paesi musulmani potrebbe essere parte del problema. Stando alle sue ricerche, negli ultimi 10 anni le università britanniche hanno ricevuto 157 milioni di sterline per la costruzione di centri islamici e per l’insegnamento dell’Islam. Fondi che, sostiene, non sempre vengono utilizzati con le migliori intenzioni.
La STAMPA - Francesco Semprini : " Attacchi mirati, ma non si aprirà un terzo fronte "
Daniel Pipes
Attacchi mirati e sostegno al governo di Sana’a per ristabilire il controllo del territorio. Per Daniel Pipes, tra i massimi esperti di terrorismo e Islam, fondatore del Middle East Forum, Washington si muoverà su questo doppio binario, evitando l’apertura di un altro insostenibile fronte di guerra.
Perché lo Yemen è tanto pericoloso?
«Perché non esiste un controllo territoriale da parte dello Stato. Inoltre le profonde differenze tra etnie, gruppi tribali e fazioni religiose rendono complicato ogni tentativo di stabilire forme di autorità».
Gli Usa procederanno con attacchi mirati o apriranno un terzo fronte di guerra?
«Parlare di terzo fronte è riduttivo, dal momento che la guerra al terrorismo comprende anche Gaza, Libano e Somalia. Detto questo, ritengo che gli Usa opteranno per operazioni mirate col supporto dell’intelligence e in cooperazione con le forze di sicurezza locali. Washington non può permettersi di spendere altri soldi e di perdere altre vite, senza contare le ricadute negative in termini di immagine, specie nel mondo islamico. Penso a operazioni come quelle in Pakistan».
Com’è possibile che lo Yemen sia diventato una roccaforte di Al Qaeda?
«Povertà, analfabetismo e la mancanza del controllo territoriale da parte del governo sono presupposti che rendono qualsiasi Paese appetibile alle mire dei terroristi, specie per trasformarlo in piattaforma operativa e strategica. La popolazione trova rifugio nelle moschee ed è più incline a derive fondamentaliste».
Un segnale era arrivato già dieci anni fa con l’attentato al cacciatorpediniere Uss Cole. Il rischio è stato sottovalutato?
«Lo Yemen era la minore delle preoccupazione per il governo Usa che, impegnato in Iraq e Afghanistan, ha prestato poca attenzione alla situazione in quel Paese. Senza dubbio l’approccio di Washington non è stato efficace».
Ma Obama non si sta muovendo diversamente?
«Sì, ma con ritardo e senza una strategia chiara. L’invio di miliardi di dollari da solo non basta. L’Amministrazione Obama ha fatto dell’Afghanistan il fronte centrale di lotta al terrorismo spostando l’attenzione dall’Iraq, ma senza prestare la dovuta attenzione a nuove realtà come lo Yemen, dove Al Qaeda si è radicata in concomitanza con l’insediamento di Obama».
La vicinanza della Somalia potrebbe influire ulteriormente?
«Non credo. Esistono differenze di etnia, religione, provenienza geografica fondamentali. In realtà è la situazione di completa anarchia in Somalia che desta timori».
Teme l’apertura di un nuovo fronte di guerra nel Corno d’Africa?
«Il Paese è nel caos da tempo, le milizie islamiche controllano gran parte delle città e attacchi mirati da parte degli americani sono già avvenuti. E’ tuttavia un’ipotesi che non escludo, anche se in Afghanistan gli Usa sono intervenuti solo dopo l’11 settembre 2001, cioè cinque anni dopo la presa di potere da parte dei taleban».
Dobbiamo temere qualcosa di simile?
«Il rischio di attentati a obiettivi in territorio Usa è elevato e non sono ammissibili altri falle come quella del tentato attacco di Natale».
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